mercoledì 25 aprile 2012

In Rubikolor

Questo post mi gira per la testa da giorni come un cubo di Rubik. Prendo un pensiero, cui segue un suo simile, ma quando provo ad avvicinare il successivo ne arriva uno di un altro colore. E allora devo riprendere tutto daccapo. La consolazione è che una vita letta à la Rubik ha una logica sottostante che, se la conosci, è in grado di risolvere le cose anche quando c'è un gran casino e niente sta per più di un istante dove l'avevi messo.
Gli ultimi due mesi sono stati più o meno così, ma forse la struttura del mio personale edificio sta tornando finalmente a mostrarsi, dopo qualche inevitabile detonazione. Detto questo, non ho assolutamente idea di quali facce del cubo completerò tra poco - mi basterebbe salvare quella sopra al mio collo. 

Rosso
Conservate sempre la capacità di distinguere quello che vivete da quello che credete di vivere, e quello che volete davvero da quello che credete di volere.

Verde
Il talento è una porta aperta dentro di noi. E’ quello che ci viene senza sforzo perché siamo fatti per quello. E’ la vita che non viene interrotta dalla nostra paura e passa da noi senza rallentare e senza indebolirsi. Il talento è una qualità della morbidezza, è un flusso per il quale siamo nati giusti. (*)

Bianco
Io sono più un tipo da racconti che da romanzi, perchè ho una passione sfrenata per inizi e finali. Potrei anche scrivere solo quelli, e in mezzo qualche riga bianca per l'immaginazione.

Giallo
Ci sono momenti nella vita in cui sei trasparente e altri in cui diventi 3D. All'improvviso tutto comincia a muoversi intorno a te, vorresti pensare di meritarlo davvero e qualche volta ci riesci, persino.

Arancione
Conosco un solo modo di essere me stessa e lo leggo negli occhi degli altri.
Se tutti vengono da te a chiederti del pesce forse sei una pescheria. Se vengono a chiederti medicine forse sei una farmacia. Giriamo con un cartello di istruzioni per l'uso appeso in fronte. L'insegna di un negozio. Ma siccome noi siamo dentro, non la vediamo. La vedono gli altri e ci usano per quello che siamo. (*)

Blu
Trovare persone che inconsapevolmente sanno metterti in moto, ricordandoti l'importanza di continuare a correre, è un dono prezioso. Andatele a stanare, che ci sono.


(*) Entrambe le citazioni sono di G. Covini.

lunedì 16 aprile 2012

Terremoti

Il reportage non è il genere di fotografia in cui mi cimento - il che potrebbe sembrare un po' strano, vista la mia passione per le storie - ma per via delle mie frequentazioni in ambito fotografico, mi capita abbastanza spesso di avvicinarmici da spettatrice.
In questo caso si è trattato dell'inaugurazione, all'interno dello Spazio Giovani del Festival della Fotografia Etica di Lodi, della prima mostra personale di Alberto Maretti, mio ex compagno alla scuola di fotografia e che in tempi non sospetti avevo già presentato qui come fotografo talentuoso e promettente.
Il lavoro che ha esposto si chiama Gyumri il terremoto che continua e racconta la città armena di Gyumri a distanza di più di vent'anni dal terremoto che la distrusse, nel 1988.
Indubbiamente, ascoltare dalla viva voce dell'autore la storia di ogni immagine in mostra ha rappresentato un valore aggiunto, non solo in termini prettamente narrativi rispetto alle singole foto, ma anche e soprattutto in merito alla visione che di quella realtà si è voluto offrire: il fotografo ha saputo amalgamare la propria voce con quella dei personaggi della storia - gli individui, ma anche le strutture architettoniche - rispettando il loro effettivo essere rispetto all'intera vicenda della distruzione, senza cadere nelle trappole dei facili sensazionalismi e restituendo per quanto possibile intatto lo spirito delle persone che ha incontrato e con le quali si è a lungo confrontato durante il suo viaggio in quella sorta di realtà dimenticata e spettrale. Parlo della solitudine e del dolore, della rinuncia e del sacrificio, dell'interruzione e della sofferenza ma anche della dignità, della capacità di accettare e reagire.

So bene che le immagini non si possono raccontare a parole, quindi non proverò neanche a farlo - vanno viste. Però è anche vero che quando parlo dei miei incontri con fotografie che mi colpiscono, in genere mi chiedo cosa mi abbia conquistato. All'interno della selezione, c'è un'immagine che mi ha provocato una reazione particolare. Si tratta di una delle tante donne anziane che hanno perso famiglia e appoggio dopo il terremoto: non riceve aiuti da nessuno e abita da sola in un piccolissimo e spoglio domik - questo il nome dei container abitabili. Nella foto si vede la donna seduta sulla destra, di profilo, sul fondo della stanza stretta una cucina a gas, mentre sulla sinistra c'è una porta che, se la memoria non m'inganna, è la fonte di luce naturale della foto. La texture dell'immagine è diversa da tutte le altre della serie, perchè la scena è ripresa da dietro un leggerissimo velo. Questa sorta di lieve "garzatura" conferisce alla foto un'atmosfera un po' surreale, che a tutta prima mi ha ricordato vagamente - con i dovuti distiguo - lo stile di Sarah Moon. Il fatto è che questa specie di momentanea "deviazione" formale ed estetica, che potrebbe sorprendere in una foto di Alberto, in genere piuttosto diretto e fendente, era solo uno specchietto per le allodole per me che molto apprezzo la Moon. E allora, più guardavo quella foto e più mi rendevo conto del fatto che essa andava a richiamare qualcosa di molto più profondamente radicato in me: la donna aveva il profilo di mia nonna e il suo stesso modo di stare. La testa bassa, la solitudine, il silenzio, un'attesa di qualcosa che somiglia alla morte, e che ricordo dei suoi ultimi anni di vita. Eppure c'è nell'immagine una certa poesia, data proprio da quella carezza della texture. Come se il fotografo avesse voluto rispettare la dimensione di quel dolore, di quello stato. Non l'ha sfocata, rendendola illeggibile e onirica: non sarebbe stato il codice giusto, avrebbe detto tutt'altro. Invece l'ha filtrata, creando un intervento fisico che avesse il giusto peso e che inserisse un contrappunto rispetto a quella situazione, obiettivamente piuttosto angosciante.
Questo è uno dei modi in cui Alberto è in grado di entrare in quello che decide di raccontare, e non si tratta di semplice empatia: è come se divenisse una sorta di spettatore comunicante di una storia che fa propria perchè in qualche modo riconosce in essa qualcosa di sè. Parla molto con i suoi soggetti e scatta poco - a volte non lo fa neanche perchè sa rispettare il valore del tempo, che non dovrebbe mai subire forzature, soprattutto in questi casi. Mi viene da chiedermi quanto un'immersione così profonda nelle cose possa a lungo andare pesare o nuocere psicologicamente a un fotografo che fa reportage, al quale in molte situazioni è richiesto sangue freddo e distacco, ma indubbiamente in questo caso - e parlo di questa come delle altre foto della serie - la sensibilità del fotografo emerge vibrante, e ci sta un gran bene.

martedì 10 aprile 2012

Sempre la vita

Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l'ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del nostro corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, "creature di sangue caldo e nervi", come dice un personaggio di Chekov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita.
(Raymond Carver)

Grazie M.