mercoledì 20 gennaio 2010

Scianna bits

Alcuni interessanti estratti dal recente incontro con Ferdinando Scianna a Fotografica 09.

Io ho fatto e faccio tutt'ora fotografie per campare, ma le faccio anche per vivere, cioè per passione. Una volta ad un mio collega giornalista chiesero: 'Ma come lavora Scianna?" E lui disse: "Sveltissimo lavora, perchè deve fare in fretta il reportage, perchè dopo deve andare a fare le foto".

Sono andato a passare quindici giorni a New York in una maniera straordinariamente felice, perchè per me la felicità, oltre ad una cena con gli amici intelligenti con cui chiacchierare, è quella di andare in giro a fare fotografie per il puro piacere di farle, senza cliente, senza scopo, andando dietro al proprio naso. (...) Ed è questa la felicità della fotografia, almeno della fotografia come a me piace e come io la intendo: non una cosa che si fa, ma istanti che si scoprono nel mondo, che ti s'impongono e ti si rivelano come scoperta o come riconoscimento di qualche cosa che oscuramente ti porta via.

A me piacciono particolarmente queste foto un po' misteriose, nelle quali succede qualcosa o forse non succede niente, o forse quello che noi crediamo stia succedendo non è quello che di fatto sia successo. Probabilmente propongono alla nostra vista un enigma che è, io credo, la ragione per la quale mi piace fare le fotografie: trovarmi di fronte a cose che non capisco perchè pongono domande senza risposta, o a cose che improvvisamente, misteriosamente, propongono qualche risposta alle domande che io mi andavo facendo.

Questa è una foto scattata in Argentina, in una favela di Buenos Aires. Che cosa diavolo ci fa un cane dentro un triangolo di luce? Aspettava me che gli facessi la foto.
E così questo cane, a Benares, anche lui. L'ho fatta nel 1972, quando ero lì per fare un reportage per l'Europeo sulla medicina ayurvedica, niente a che fare con i cani con il Gange. Ma siccome, appunto - come diceva il mio amico Santini - avevo già lavorato molto la sera prima, mi sono alzato all'alba per andare a fare un po' di foto per me. E a un certo momento ho visto questo cane che si mordeva la coda. C'è un proverbio in Sicilia che dice "lu pisce di lu mari è distinatu a cui si l'à manciari", cioè "il pesce del mare è destinato a chi se lo mangerà". Ci sono milioni di sardine o di acciughe nel mare, e milioni di pescatori che li pigliano, se ancora resistono. E poi ne viene pigliato uno in un posto vicino a dove tu vivi o, chissà, lontano dove vai al ristorante... e quell'acciuga era per te. Una metafora del caso e della necessità che mi pare abbia molto a che fare con la fotografia. E allora chi lo sa, forse io che sono nato a Bagheria nel 1943, che per misteriose ragioni mi sono messo a fare il fotografo, che sono finito a lavorare per l'Europeo e che un giorno mi mandano in India per fare un lavoro sulla medicina ayurvedica, una mattina mi trovo davanti a un cane che si morde la coda all'interno di una struttura formale di onde che ne ripetono il gesto. E io scatto questa foto. Sono nato per fare questa foto o quel gesto è stato fatto perchè io lo potessi vedere e riconoscere a un certo punto? Questa per me è la fotografia. Tutto il resto sono balle, sono carta pesta, immagini inutili.


Fare un buon ritratto significa intanto avere molto interesse e molta empatia per l'altro; e poi bisogna che l'altro dialoghi con te. Mentre la fotografia che io amo, sempre secondo un clima bressoniano, implica quasi una certa invisibilità di fronte agli accadimenti del mondo, il ritratto no: il ritratto implica consapevolezza, implica "io ti sto facendo il ritratto e tu sai che io te lo sto facendo".

Il caso poi ha voluto, a un certo punto - perchè la vita è bizzarra - che un giorno mi telefoni a casa uno che dice: "Mi chiamo Domenico Dolce, faccio lo stilista a Milano insieme ad un mio amico, Gabbana". Mai sentiti nominare, ma del resto allora non ero solo io... Dice: "Abbiamo visto delle fotografie sue sulla Sicilia, io sono siciliano, facciamo una moda ispirata alla Sicilia e vorremmo fare un catalogo di moda con un fotografo che non sia un fotografo di moda". Ho detto: "Ma che foto avete visto...?". Dice: "Ah, ci hanno detto che erano sue..." In realtà non erano mie, lo abbiamo scoperto anni dopo. Questo per dire come il destino a volte sia una cosa bizzarra e curiosa. Ho detto: "Io non ho mai fatto foto di moda", gli ho mostrato i miei libri sulla Sicilia, ecc. ed a un certo punto Stefano Gabbana ha detto questa frase, fondamentale per otto anni della mia esistenza: "Ma guardi, è proprio quello che noi cercavamo: il nostro look col suo feeling". Io ho fatto come voi, mi sono messo a ridere... ma immediatamente dopo mi sono vergognato e allora, per recuperare, ho detto: "Va bene, va bene... il mio feeling è a disposizione del vostro look... che facciamo?". E da lì è incominciata una storia divertente, appassionante, diversa, bizzarra per me, di fotografo di moda internazionale. (...) Mi sono molto divertito. Perchè era un'altra cosa, era un po' trasgressivo da parte mia, era anche un po' peccaminoso nei confronti del primo comandamento del decalogo bressoniano: "Il fotografo non deve mai mettere in scena il mondo e dev'essere invisibile". E invece io dicevo: "mettiti qui, mettiti lì". E mi divertivo! Prima di tutto perchè di solito era una bella gnocca la signorina, e poi anche perchè questo mi faceva scoprire che, tutto sommato, tra quella linea della fotografia fatta e la linea della fotografia ricevuta, che io consideravo così radicalmente in opposizione l'una con l'altra - ho sempre considerato i fotografi della mise en scène dei fotografi di teatro, perchè in realtà la cosa interessante è quello che mettono in scena; poi loro lo fotografano. E invece mi sono accorto che, in definitiva, che tu sia un po' regista dell'immagine che fai o che tu non lo sia... finisci col fare più o meno le stesse foto. Anche perchè io lo facevo in maniera un po' bizzarra, insomma. Inserivo queste modelle nel contesto del mondo, che non era uno sfondo: era co-protagonista. Cioè, questa bambina passava da lì e io la piglio e le dico: "mettiti qui, mettiti accanto a lei". E faccio la foto.

Ho visto tante cose terribili, facendo questo libro su Lourdes, che ho cercato di non mettere nel mio libro perchè è difficile, sapete... Non tutto si può fotografare. Così io la penso. Non tutto si deve fotografare. Così io la penso. E non tutto quello che si è fotografato si deve mostrare. Così io la penso. Dipende dal contesto, dipende dal perchè. Ci sono delle situazioni drammatiche, molto più drammatiche di questa, che io non me la sono sentita di schiaffare su una pagina. Nessun eroismo, un po' di decenza, solamente.

Ora, io sono un reporter, quindi la materia prima delle mie fotografie sono le persone, la vita, i piccoli accadimenti soprattutto, perchè è vero che ho fotografato anche momenti della storia, o momenti molto drammatici della vita degli uomini, però non è che m'interessino di più di quelli che misteriosamente, magari sotto casa tua, avvengono, se tu li sai vedere. Non è che c'è un posto al mondo dove ti aspetta una fotografia e che più è lontano questo posto più ci sono fotografie che ti aspettano. E' la tua disponibilità verso il mondo, la tua passione per la vita, il tuo stato di grazia, il tuo allenamento che ti fanno vedere le foto piuttosto che non vederle.

C'è un punto dell'esistenza in cui uno guarda dentro se stesso, in cui vuole cercare di capire com'è che in questo guazzabuglio, in questo caos dell'esistenza - io ho intitolato un mio libro "Le forme del caos", che mi pare una definizione della fotografia ma anche della vita - perchè tu quando vedi non ci capisci niente... Quella mattina che sei uscito e sei andato a prendere il caffè in quel bar piuttosto che in quell'altro e hai incontrato la donna della tua vita, com'è successo? Com'è nata questa casualità? Perchè quel cane si mordeva la coda mentre io sono arrivato? La vita è molto casuale, potevi nascere qui o in Burundi; potevi nascere in una famiglia miserabile o più ricca, ecc. Certe cose dipendono da te - poche. Altre dipendono dal caso e dal concatenamento del caso e dalla capacità che tu hai di trasformare l'azzardo in una specie di partitura, come se fossero delle note che si acchiappano al volo e si vanno collocando in un pentagramma per fare una melodia.

Considero questa frase come il distillato di tutto quello che il mio fare fotografia mi ha fatto pensare e concludere, cioè che il destino più alto cui può aspirare una fotografia è quello di finire in un album di famiglia. Cioè intendo che possa essere guardata con la stessa implicazione, con lo stesso sentimento di fare parte di quell'istante che ha costruito la storia e te stesso con cui noi guardiamo le fotografie dei nostri avi.