Scatto per il progetto Within da ormai quattro anni. Volti su volti, incontro su incontro, e di ognuno ricordo tutto. A un certo punto, due anni fa, pensavo di averlo concluso. Invece era solo sospeso. Non dico che sia finito ora, perché voglio proseguire, ma sono giunta senza dubbio a un punto fondamentale. In senso letterale, delle fondamenta: le mie. Pensando alle persone da ritrarre, ho capito che nonostante avessi pensato, per varie ragioni, di tenere la famiglia fuori dal progetto, in realtà proprio quello sarebbe stato un tassello immancabile. E così ho fissato due date, il 28 e 29 marzo, sabato e domenica. Papà le ha segnate sulla sua agendina, con la stilografica, come un impegno di quelli veri. Non appena l'ho proposto, i miei si sono subito dedicati alla scelta del brano musicale che avrebbe dettato i loro ritratti, ed era proprio lì che li volevo. Nella mia famiglia la musica è sempre stata una presenza importante, una passione, una cultura tramandata. Le prime idee sono state istintive, riferite a brani che ascoltano in questo periodo. Poi, sentendosi chiamati a una scelta che rappresentasse al meglio la loro essenza, hanno trovato i loro brani. E sono così loro, in effetti.
Papà è stato il primo, sabato pomeriggio. Ci siamo messi in sala, dove lui ascolta sempre la musica e dove sapevo per esperienza che a una certa ora sarebbe arrivato un fascio di luce calda contro la libreria. Dura pochi minuti, bisogna essere svelti. Il sole in discesa sull'orizzonte arriva da destra, lungo la via perpendicolare a quella dell'edificio e s'infila come in un corridoio attraverso la grande vetrata.
Come ogni buon intenditore, mio padre non si era accontentato del brano ma ha scelto anche l'esecutore preferito. Gustav Mahler, Sinfonia N. 4 diretta da Abbado. Perché ho il cd in cui dirige Fritz Reiner, ma la fa un po' troppo veloce... preferisco come la prende Abbado. E siccome il cd non ce l'aveva, si era scaricato un video da Youtube. Dunque in sala c'eravamo io, la macchina fotografica, mio padre e il video con Abbado che sbacchettava l'orchestra.
Contrariamente a quanto mi aspettassi, non c'era in mio padre alcun imbarazzo o reticenza davanti all'obiettivo. Si è subito messo a disposizione, fin dal primo momento, come se non avesse fatto altro nella vita che posare per un ritratto. Era lì con me, non con la macchina. Ho iniziato a scattare, e senza che glielo avessi domandato, mi ha detto cosa significasse quella musica per lui.
Quando l'ascolto vedo il cielo dello Zimbabwe. Mi ricordo che guardavo le palme, altissime, del giardino dei Bhana, e la musica sembrava ampliare ancora di più l'altezza del cielo contro quelle palme.
Aveva quarant'anni, ai tempi di quel ricordo. Ora ne ha sessantotto, sono almeno trent'anni che ascolta quella musica e l'ha portata a me, nel mio progetto. Una certa responsabilità, ma di quelle belle da portare.
Abbiamo scattato per un'oretta. Ha fatto tutto quello che è tipico di lui, e io ho ripreso i suoi gesti, il suo canto, il suo riso. Ma anche qualcosa che non avevo mai avuto modo di soffermarmi a guardare, a raccogliere, a riconoscere in lui. Mio padre diverso. Forse non più solo mio padre, ma l'uomo.
Una nuvola ha coperto il sole proprio nell'ora in cui l'aspettavo, e abbiamo concluso. Sono tornata nella mia vecchia stanza a guardare quanto avevo fatto, e dopo una decina di minuti, all'improvviso, sento mio padre chiamarmi dalla sala. C'è la luce, vieni! Velocemente riaccende Abbado, io riprendo la macchina fotografica in mano, lo faccio sedere contro la grande libreria su cui si staglia il fascio di luce e scatto per una decina di minuti. Non era più neanche questione della musica, né della luce in sé e per sé... era questione di momento, di presenza. Le foto brillavano, oscure e vibranti.
Mamma l'ho ritratta il giorno seguente, di mattina, nel suo atelier. La stanza che era di mio fratello è diventata il posto dove lei dipinge. Pennelli, tele e colori a non finire. Dmitri Shostakovic, Concerto per pianoforte N. 2. Al contrario di mio padre, lei ascoltava quel brano da poco tempo. Anche questa musica è così tanto rappresentativa di lei da bastare come ritratto anche da sola. È fatta di tanti elementi diversi, passaggi in maggiore e in minore, una costruzione musicale grandiosa, da ascoltare e riascoltare sperando di non impararla mai a memoria. Un cerchio che si chiude perfettamente, ha detto giustamente lei.
I suoi occhi sfuggivano, rapiti la musica. Catturarli non era facile, lei era lì con tutta se stessa ma fluttuava. Mio padre aveva sempre lo sguardo inchiodato in camera, così com'è lui, ben piantato e terreno. Allo stesso e opposto modo mia madre svolazzava, inseguendo la creatività della musica e la propria. E poi lei è cantante, la musica ce l'ha proprio dentro e la fa uscire sempre, anche quando gira per casa. Cantava anche durante il ritratto, come fosse lei stessa un pianoforte o un violino.
Per la prima volta nella mia vita mi sono commossa fotografando. Ci siamo commosse entrambe. Molte immagini, specie quelle leggermente mosse dove i dettagli si perdono, evidenziano le nostre somiglianze fisiche ed espressive. Ricorderò sempre il suo sorriso finale, e non perché stia in una fotografia.
L'editing di quei due set non l'ho ancora fatto, anche se da quanto ho visto mi sembrano le foto migliori di tutto il progetto. Certe cose vanno lasciate un po' lì a decantare.
L'altro giorno ero in treno, c'era uno splendido sole e ho pensato bene di riascoltare quelle due musiche. Mi sono ritrovata con gli occhi bagnati. Certe cose diventano intoccabili, e ormai metto in conto di avere quella reazione ogni volta che le riascolterò. Proprio in quel vagone ho capito perché quei due set fossero così importanti e cosa significassero per me. Quando ho proposto ai miei di fare le foto per il progetto, ho riposto una grande aspettativa nelle loro scelte musicali, e non solo perché ritenevo che potessero essere qualitativamente eccellenti, data la loro cultura. Io in realtà volevo che loro mi lasciassero un segno preciso di quello che erano e che erano sempre stati. Quando ascolto quelle due musiche io vedo precisamente la nostra famiglia, il nostro passato e il nostro essere, il mondo in cui sono cresciuta, quello che loro mi hanno trasmesso. E per me avere fatto delle fotografie che rappresentano tutto questo - il momento attuale e quello del tempo che scorre da sempre nelle nostre vite insieme - è qualcosa di importantissimo, bello e terribile al tempo stesso. Solo adesso ho inteso come la fotografia possa essere morte e vita, qualcosa che congelando uccide e nel contempo rende eterno il suo oggetto. Sentire tutto questo è ben diverso dal capirlo solamente.
Mi è diventato chiaro che facendo questo progetto io ricerco tante piccole parti di me stessa, se ci sono, nelle musiche degli altri - e quindi, in loro. Che poi è quello che fa un fotografo: cercare e possibilmente trovare una zona d'intersezione tra se stesso e l'altro, e rappresentarlo al meglio. La musica è la chiave, ma gli spazi che apre sono tutti da esplorare.