La mia copia di
Tabularasa ha già gli angoli vissuti. Si fa guardare e consumare, e secondo me un po' rovinato è anche più bello. Per chi non lo conoscesse, sto parlando del libro fotografico su Vasco Rossi di Efrem Raimondi e Toni Thorimbert, edito da Mondadori e in vendita da circa un mese. Un libro da avere, e ora provo a dirvi perché.
Un viaggio di ventisette anni intorno a Vasco Rossi, si legge nella prefazione degli autori. Dal 1985 ai giorni nostri. Nessuna foto in copertina, dove i grandi caratteri del titolo la fanno da padroni su uno sfondo grigio. Ci passi sopra le dita e ti accorgi che sono stampati a impressione. Riconosci nei polpastrelli la sensazione piacevole che ti danno le cose curate nei particolari.
Innanzitutto si tratta di un libro di fotografia. Solo le immagini hanno quel particolare potere di attrazione immediata che "ti tira dentro", senza darti modo di uscirne finché non ti hanno raccontato tutta la storia almeno una volta per intero. Magari dovrai riguardarla ancora per capirne tutti i significati, ma questo libro il tuo fiato iniziale se lo prende tutto, senza disturbarsi a chiedertelo per favore. Con le parole non è la stessa cosa, quelle hanno modi più pacati e tempi più dilatati. Qua di parole, prefazione e didascalie a parte, non ce n'è neanche una.
Quindi un libro di fotografia, e su Vasco. Nelle sue diverse vesti: sul palco e fuori da esso. Un grande ritratto, fatto di molti ritratti. Gli sguardi sono quelli di due fotografi differenti per stile e contenuti, ma che tra queste pagine s'incontrano sul territorio di un linguaggio che ha le stesse caratteristiche di schiettezza ed efficacia.
Le immagini si muovono come chi le ha realizzate. A volte questo moto è simile a quello di un animale a caccia: davanti, dietro, di fianco alla rockstar. In altri casi è invece insieme all'uomo, come in un dialogo quasi intimo. Dietro all'immagine del Vasco che tutti abbiamo in mente - quella sul palco davanti a migliaia di fan - qui c'è tutto un mondo che non solo si mostra ma anche coinvolge. E questo a prescindere dalla passione che si può avere per il cantante e i suoi lavori: quella che si ha in mano con
Tabularasa è la storia di un uomo e di un mondo, e la sola decisione sensata riguarda il volerla ascoltare o meno, senza (pre)giudicarla.
Dunque è questo che ho fatto: mi sono messa in ascolto, provando a sentire la voce di questa storia. Dapprima ho percepito il racconto, puro e semplice, nel suo insieme. Poi ho attivato altri canali, alla ricerca degli strumenti che componevano l'orchestra. Recentemente ho trovato spunti connessi a questo discorso in un libro di Daniel Barenboim (*), famoso pianista e direttore d'orchestra. Vi si legge:
In musica, niente è indipendente. La musica esige un equilibrio perfetto fra intelletto, emozione e carattere. (...) La gerarchia che vige in tutta la musica rispetta l'individualità di ciascuna voce, che può non avere gli stessi diritti, ma certo ha la stessa responsabilità di tutte le altre. Applicando questo concetto a
Tabularasa, il senso di questa responsabilità delle voci è subito chiaro: ogni fotografia è individuale, ma non indipendente dalla musica che il libro sta suonando. Ed è il frutto di un incontro fra intelletto, emozione e carattere di chi la realizza. Il senso della gerarchia forse qui può sfuggire, perché le immagini di questo libro sono tutte molto forti. Come se l'orchestra fosse composta di strumenti che da un momento all'altro possono fare tutti i solisti. E allora diventa interessante ascoltarle tutte, queste voci. Per capire fino a che punto siano soliste.
In un certo senso, dentro a
Tabularasa, accanto a Vasco Rossi, ci sono altri due cantanti: Efrem Raimondi e Toni Thorimbert. La voce di un autore è il suono della sua storia, ed è ciò che la rende viva. Nel concetto di voce ho trovato la chiave di lettura alle peculiarità delle fotografie dell'uno e dell'altro.
Le foto di Toni hanno una voce colloquiale, quelle di Efrem una informale. Mi spiego meglio, anche attraverso alcune immagini tratte dal libro.
Quando si parla in modo colloquiale, si va abbastanza a ruota libera, accantonando volutamente certe forme. Non è però una modalità senza regole, anzi. Così come fotografare colloquialmente non significa tralasciare il senso dell'inquadratura o altri elementi che contribuiscono a fare la foto. Quello colloquiale è un tono che presuppone una certa confidenza con chi guarderà l'immagine, ed è un atteggiamento che rispecchia una personalità di un certo tipo, un modo molto diretto d'intendere le cose. Come se intercorresse una conversazione con lo spettatore, per cui il fotografo dicesse, più o meno con queste parole:
sono dentro una storia, vedo queste cose e le fotografo: la storia diventa la mia e te la porto. L'arco temporale delle immagini di Toni è quello tra il 1985 e la fine degli anni novanta, quello quindi di un Vasco nel pieno del suo essere rockstar. Le foto che risultano dalla colloquialità di Toni sono ritratti intensi, situazioni spesso raccontate con uno stile da reportage: vive, ironiche, sudate, dannate. Ti mettono lì anche se pensavi di essere altrove. Una potenza.
Efrem: voce informale. E' un tono che non è eccessivamente confidenziale, forse più timido, senza tuttavia essere formale. Nell'informalità c'è molto spazio di manovra, e infatti vi s'intrecciano immagini caparbie e irriverenti con altre d'impostazione se vogliamo più tradizionale. Il gioco delle parti tra Vasco ed Efrem è diverso da quello tra Vasco e Toni. Efrem parla attraverso molti primi piani, le sue foto sono più vicine alla ritrattistica in senso stretto che al reportage. Mi pare che Efrem faccia emergere da una parte un lato più teatrale di Vasco, dall'altro la coscienza della sua maturazione di uomo, oltre che di cantante. Questo è acuito anche dal fatto che le foto di Efrem partono dal 2000, dunque un'epoca più recente, sempre rock ma in un modo un po' diverso. Ancora, sentiamo lo sguardo penetrante di Vasco che ci incrocia e arriva attraverso le fotografie di Efrem in tutta la sua verità. Efficacissimo.
Toni ed Efrem mostrano un approccio alla spettacolarità e all'intimismo differente, con un denominatore comune: quello di provare a mettercisi dentro completamente. Questa interessante commistione dà corpo e ritmo alla sequenza delle immagini, che diventano libro perché si amalgamano come gli elementi di un'orchestra, pur conservando ognuna la propria individualità e la propria voce. I due autori sono fra loro complementari, e non solo per ragioni prettamente cronologiche. Il libro non potrebbe esistere se mancasse uno dei due - almeno, non in questa forma. Sarebbe un'altra cosa, e sarebbe come monca. Una melodia non armonizzata.
Un'esecuzione unica e irripetibile quella di
Tabularasa. E meno male che Vasco odia essere fotografato.
(*) D. Barenboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli 2007