Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere, diceva Baudelaire. E secondo me un po' anche chi odia il Natale. Perchè quello non è il giorno in cui tutti sono più buoni - casomai buonisti - ma quello in cui si torna bambini. Al solo suono della parola "Natale", i primi pensieri portano a ricordi d'infanzia, quando le strade erano illuminate dalle lucine che io chiamavo natalini, si scriveva la letterina a Babbo Natale con tanto di disegni, si aspettava in cucina insieme ai cuginetti che arrivasse l'omone con la barba bianca, e allora si spegnevano tutte le luci e si sentiva tintinnare un mazzo di chiavi come fossero i campanelli della slitta. A Natale si poteva stare in piedi fino a oltre mezzanotte, ed era tardissimo. Da piccoli era più buono il Pandoro perchè non aveva i canditi, e invece adesso la maturità del gusto porta in vantaggio il Panettone. Chi odia il Natale è un po' come se odiasse l'infanzia.
E poi il Natale è il giorno in cui nessuno si deve permettere di rompere i coglioni. Per un giorno si mette da parte se stessi e ci si regala agli altri. Sì, ci sarà magari quel parente noioso che non a caso si vede solo una volta l'anno, si cucinerà per ore e per altrettante si stramazzerà con le gambe sotto il tavolo e lo stomaco al centro della Terra, tutti ti chiederanno come va il lavoro quando tu non sai nemmeno quale sia, e vorranno sapere del fidanzato che proteggi gelosamente dalle maree del parentame. Però ci saranno anche momenti che non ti aspettavi, ti arriveranno segnali da uno spazio che quotidianamente non esplori, e doni da persone davanti alle quali ti ritroverai, un po' imbarazzato, a mani vuote. E allora magari ti s'insinuerà qualche domanda in testa, mentre sorseggi l'amaro. Quanto è individuale la nostra vita? Quanto siamo disposti a far entrare l'altro? Quanto ad accettarne le differenze? Quanto siamo capaci di portare insieme a loro il dolore? Quali sono le soglie che pensavamo di non poter varcare e che invece possiamo oltrepassare? Perchè tutto deve essere solo questione di perdere o guadagnare? Cosa è veramente importante? Se proprio non si riesce a vivere il Natale come una festa, si può vederlo come un'occasione per camminare attraverso queste domande con chi ci è vicino. Basta non starsene sempre lì con le mani in tasca, e allungarne una.
A casa dei miei, ieri sera, ho guardato l'albero davanti alla portineria. Ci sono tre busti in gesso nel lungo corridoio che porta alle due rampe di scale del palazzo, e uno di essi si trova proprio accanto alla portineria. Quei regali alla base dell'albero mi hanno sempre fatto tristezza. Saranno scatole vuote ricoperte di carta colorata, ogni anno uguali e destinate a nessuno. Da piccola pensavo fossero i regali per i figli del portinaio. Temevo che qualcuno glieli portasse via nella notte, e che rimanessero senza. Anche il busto ha l'aria di chi è rimasto senza, e resta solo a guardare. Forse è questa sottile malinconia a rendere il Natale una non-festa per alcuni, quelli che sono rimasti senza qualcosa o qualcuno.
Però io sono felice, questo Natale. Ho tanto per cui ringraziare, tanto a cui essere vicina, tanto da guardare e di cui essere partecipe. Stamattina, mentre i miei erano a Messa, sono andata a vedere il presepe che avevano fatto in tutta fretta ieri. Alla base c'erano i regali che si erano fatti tra di loro. Mi è caduto l'occhio su un pacchetto fatto su in una busta dorata, con attaccato un bigliettino che diceva "Al mio grande amore". La grafia era quella di mia mamma. Quando più tardi papà lo ha aperto, ci ha trovato un berretto di lana fatto da lei all'uncinetto. Se l'è provato, l'ha tolto per controllare che non ci fosse un davanti e un didietro, e i capelli gli si sono tutti arruffati. Se l'è rimesso in testa con mia mamma che lo aiutava e si sono dati un bacio. Io ero sul divano che li guardavo, ma non avevo per niente l'aria di un busto di gesso.
In fotografia, f/64 è il valore di minima apertura del diaframma. Massimo dettaglio, visione profonda.
giovedì 25 dicembre 2014
lunedì 22 dicembre 2014
Dodici anni di gavettoni
Linklater non è come il vino, che migliora con il tempo. Non mi pare ci sia mai stato nella sua filmografia un punto di massimo da cui scendere, ma guardando Boyhood non posso che constatare un colossale scivolone di generale qualità cinematografica. L'ultimo capitolo della trilogia di Before (sunrise, sunset e midnight) è di una tale noia da competere con una coda alle poste, ma certo di fronte a un'unanimità così entusiastica per Boyhood da parte della critica non mi aspettavo un film così insulso.
Per chi non l'avesse visto, risparmiando 166 minuti di vita magari accanto a un inevitabilmente dormiente fidanzato, Boyhood è un film sulla crescita di un ragazzino americano nel contesto di una famiglia in reiterato sfascio. La particolarità che ha fatto gridare al miracolo è che il film è stato girato in un lasso di tempo di dodici anni (anche se i giorni effettivi di lavorazione sono stati solo 39, e si nota), utilizzando lo stesso cast che in tal modo si è visto realmente evolvere fisicamente. I bambini sono diventati adolescenti, gli adulti sono ingrassati, sono comparse le rughe.
Idea dal grande potenziale, quindi. Un progetto a lungo termine di tale portata avrebbe potuto segnare la storia del cinema, essere un esperimento dove verosimiglianza e verità potessero avvicinarsi davvero.
E invece si sono fatte le nozze coi fichi secchi.
Sceneggiatura inesistente, fiacca. Per raccontare il quotidiano e l'apparente nulla ci sono modi più efficaci, poetici, pregnanti. Si prenda Still life, di Uberto Pasolini, per citare un titolo recente. La vita di un impiegato del comune il cui compito è cercare i familiari di chi è morto in solitudine. L'uso dell'inquadratura, la luce, il suono (e non alludo alla colonna sonora), la recitazione. Una meraviglia. In Boyhood manca tutto. Non c'è regia. Nessuna inquadratura o sequenza interessante: non dico arrivare alle sgrandangolate nauseanti di un Malick, o alle prospettive hipster di Wes Anderson, ma almeno provare ad avvicinarsi a qualcosa di meno impersonale si poteva anche fare.
Non c'è la recitazione, dote tanto invidiata agli americani dalle capre del cinema nostrano. Ethan Hawke ha lo stesso repertorio espressivo di Nicholas Cage. I dialoghi sono vuoti, fatti di niente, non portano ad alcuna riflessione. In dodici anni si poteva anche pensare per qualche minuto al contenuto, e invece no. Dedichiamoci ancora un po' ai tagli di capelli, i veri protagonisti della pellicola.
Non c'è scenografia. Non c'è costume, non c'è storia, non c'è l'evoluzione di una cultura in dodici anni - se non per qualche debole e stereotipato accenno a Bush e alla campagna elettorale di Obama. In dodici anni, a inizio millennio, quante cose sono cambiate? Possibile che nessuna sia stata meritevole di un'inquadratura, un cenno, un momento di gloria? Ah già, per qualche secondo si vedono i Pokemon. E i cellulari. La contestualizzazione è debole, le analisi sincronica e diacronica sono diluite nelle vicende di un ripetitivo piagnisteo sentimentale. Quello che invece non manca è tutto il repertorio degli stereotipi umani: il padre assente e irresponsabile che abbandona la famiglia, il professore che diventa ubriaco e violento, il soldato reduce dalla guerra in Medio Oriente, il college e il fancazzismo degli studenti, e via dicendo.
La colonna sonora, che avrebbe potuto supplire in qualche modo alle lacune della regia, è banale e non mostra neanche il minimo della ricerca. Sembra assemblata da un deejay alle prime armi al quale sia stato interdetto l'accesso a una qualsiasi fonte musicale pre-Coldplay. Ci si prova, senza successo, attraverso il personaggio interpretato da Hawke, con qualche strimpellata alla chitarra sul patio, tra canti stonati (che fanno tanto cinema-verità-semplicità) e teste ciondolanti che sbrodolano sorrisi buonisti.
Insomma, non mi piace l'idea di stroncare di netto il lavoro di qualcuno, specie sapendo che vi si è dedicato per dodici anni. Ma si poteva e si doveva pretendere molto di più da un proposito ambizioso come quello che ha ispirato il film. Non ci si poteva accontentare di un prodotto così mediocre e noioso, inconsistente e superficiale. Un'occasione sprecata, un amaro in bocca che permane fastidioso dopo la visione.
Boyhood è avere a disposizione un Barolo del secolo scorso e usarlo per riempirci i gavettoni.
Per chi non l'avesse visto, risparmiando 166 minuti di vita magari accanto a un inevitabilmente dormiente fidanzato, Boyhood è un film sulla crescita di un ragazzino americano nel contesto di una famiglia in reiterato sfascio. La particolarità che ha fatto gridare al miracolo è che il film è stato girato in un lasso di tempo di dodici anni (anche se i giorni effettivi di lavorazione sono stati solo 39, e si nota), utilizzando lo stesso cast che in tal modo si è visto realmente evolvere fisicamente. I bambini sono diventati adolescenti, gli adulti sono ingrassati, sono comparse le rughe.
Idea dal grande potenziale, quindi. Un progetto a lungo termine di tale portata avrebbe potuto segnare la storia del cinema, essere un esperimento dove verosimiglianza e verità potessero avvicinarsi davvero.
E invece si sono fatte le nozze coi fichi secchi.
Sceneggiatura inesistente, fiacca. Per raccontare il quotidiano e l'apparente nulla ci sono modi più efficaci, poetici, pregnanti. Si prenda Still life, di Uberto Pasolini, per citare un titolo recente. La vita di un impiegato del comune il cui compito è cercare i familiari di chi è morto in solitudine. L'uso dell'inquadratura, la luce, il suono (e non alludo alla colonna sonora), la recitazione. Una meraviglia. In Boyhood manca tutto. Non c'è regia. Nessuna inquadratura o sequenza interessante: non dico arrivare alle sgrandangolate nauseanti di un Malick, o alle prospettive hipster di Wes Anderson, ma almeno provare ad avvicinarsi a qualcosa di meno impersonale si poteva anche fare.
Non c'è la recitazione, dote tanto invidiata agli americani dalle capre del cinema nostrano. Ethan Hawke ha lo stesso repertorio espressivo di Nicholas Cage. I dialoghi sono vuoti, fatti di niente, non portano ad alcuna riflessione. In dodici anni si poteva anche pensare per qualche minuto al contenuto, e invece no. Dedichiamoci ancora un po' ai tagli di capelli, i veri protagonisti della pellicola.
Non c'è scenografia. Non c'è costume, non c'è storia, non c'è l'evoluzione di una cultura in dodici anni - se non per qualche debole e stereotipato accenno a Bush e alla campagna elettorale di Obama. In dodici anni, a inizio millennio, quante cose sono cambiate? Possibile che nessuna sia stata meritevole di un'inquadratura, un cenno, un momento di gloria? Ah già, per qualche secondo si vedono i Pokemon. E i cellulari. La contestualizzazione è debole, le analisi sincronica e diacronica sono diluite nelle vicende di un ripetitivo piagnisteo sentimentale. Quello che invece non manca è tutto il repertorio degli stereotipi umani: il padre assente e irresponsabile che abbandona la famiglia, il professore che diventa ubriaco e violento, il soldato reduce dalla guerra in Medio Oriente, il college e il fancazzismo degli studenti, e via dicendo.
La colonna sonora, che avrebbe potuto supplire in qualche modo alle lacune della regia, è banale e non mostra neanche il minimo della ricerca. Sembra assemblata da un deejay alle prime armi al quale sia stato interdetto l'accesso a una qualsiasi fonte musicale pre-Coldplay. Ci si prova, senza successo, attraverso il personaggio interpretato da Hawke, con qualche strimpellata alla chitarra sul patio, tra canti stonati (che fanno tanto cinema-verità-semplicità) e teste ciondolanti che sbrodolano sorrisi buonisti.
Insomma, non mi piace l'idea di stroncare di netto il lavoro di qualcuno, specie sapendo che vi si è dedicato per dodici anni. Ma si poteva e si doveva pretendere molto di più da un proposito ambizioso come quello che ha ispirato il film. Non ci si poteva accontentare di un prodotto così mediocre e noioso, inconsistente e superficiale. Un'occasione sprecata, un amaro in bocca che permane fastidioso dopo la visione.
Boyhood è avere a disposizione un Barolo del secolo scorso e usarlo per riempirci i gavettoni.
lunedì 24 novembre 2014
Sul ponte di coperta a Modena
Lei cercava di vedere se stessa attraverso il proprio corpo. Per questo stava così spesso davanti allo specchio. E avendo paura di essere sorpresa dalla madre, gli sguardi che dava allo specchio avevano il marchio di un vizio segreto.
Quello che l'attirava verso lo specchio non era la vanità bensì la meraviglia di vedere il proprio io. Dimenticava che stava guardando il quadro di comando dei meccanismi del corpo. Credeva di vedere la sua anima che le si rivelava nei tratti del suo viso. Dimenticava che il naso non è che l'estremità di un tubo che porta aria ai polmoni. In esso vedeva l'espressione fedele del proprio carattere.
Si guardava a lungo e a volte la contrariava vedere sul proprio viso i tratti della madre. Allora si guardava con più ostinazione, cercando con la forza della volontà di cancellare la fisionomia della madre, di sottrarla, così da far rimanere solo ciò che era lei stessa. Quando ci riusciva, era un momento di ebbrezza: l'anima saliva sulla superficie del corpo, come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le mani verso il cielo e canta.
(Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere)
Non ho mai fatto mistero di amare Kundera. Tra le altre cose, per la capacità che ha di creare immagini impensabili legandole ai concetti che vuole esprimere.
Quando ho letto questo paragrafo, non ho potuto fare a meno di pensare, da fotografa, all'autoritratto. Quel tentativo di vedere se stessi attraverso il proprio corpo.
C'è stato un periodo, un paio di anni fa, in cui di autoritratti me ne facevo parecchi. Spesso tornavo a casa dopo il lavoro, a Roma, e mi mettevo comoda, con i vestiti da casa, nell'unica stanza che mi desse un'impressione di calore, di accoglienza: la camera da letto. Rivolgevo la piccola fotocamera dell'iPhone verso di me e scattavo. Non lo facevo per vanità, ma per rilassarmi. Per ritrovarmi, forse, alla fine di giornate che mi portavano lontano da me. Non erano selfie, quelle foto in posa in cui si individua il grado d'inclinazione della fotocamera perfetto per valorizzare il proprio viso. Anzi, spesso mi fotografavo in movimento, cercando un risultato nuovo anche ai miei occhi.
In realtà non vedevo l'ora di ritrarre qualcun altro, di me ero stufa, così come di quella solitudine e di quella vita.
Poi mi sono trasferita a Milano, e sono rinata. Con gli autoritratti fatti con l'iPhone ho smesso subito. Mi ritrovavo già in ogni ora di ogni giorno, e quell'esigenza di far affiorare me stessa attraverso il mio corpo è diventata di colpo superflua.
Un giorno di gennaio di quest'anno ho voluto testare la luce naturale della mia nuova casa. Qui non ci sono stanze sì e stanze no. È tutto aperto e sto bene ovunque.
Ho steso un fondale bianco e messo la macchina sul cavalletto di fronte a me. Non il telefonino, ma una fotocamera vera, di quelle che si usano per fare le immagini da stampare bene. Telecomando alla mano, ho scattato una serie che si chiama On white. Semplicissima, come un foglio bianco su cui scrivere una storia nuova. Ho celebrato così il mio cambiamento di vita, ed è stato un momento di ebbrezza: l'anima saliva sulla superficie del corpo, come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le mani verso il cielo e canta.
Una di quelle foto verrà esposta a Modena in una collettiva organizzata dalla Fondazione Teatro Comunale di Modena nell'ambito di una rassegna di danza contemporanea dal titolo "Passioni in Danza".
L'inaugurazione sarà martedì 2 dicembre alle ore 19:00.
Tutte le info qui:
http://www.fondazionefotografia.org/9557/fotografia-e-danza-si-incontrano-alle-passioni/
Quello che l'attirava verso lo specchio non era la vanità bensì la meraviglia di vedere il proprio io. Dimenticava che stava guardando il quadro di comando dei meccanismi del corpo. Credeva di vedere la sua anima che le si rivelava nei tratti del suo viso. Dimenticava che il naso non è che l'estremità di un tubo che porta aria ai polmoni. In esso vedeva l'espressione fedele del proprio carattere.
Si guardava a lungo e a volte la contrariava vedere sul proprio viso i tratti della madre. Allora si guardava con più ostinazione, cercando con la forza della volontà di cancellare la fisionomia della madre, di sottrarla, così da far rimanere solo ciò che era lei stessa. Quando ci riusciva, era un momento di ebbrezza: l'anima saliva sulla superficie del corpo, come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le mani verso il cielo e canta.
(Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere)
Non ho mai fatto mistero di amare Kundera. Tra le altre cose, per la capacità che ha di creare immagini impensabili legandole ai concetti che vuole esprimere.
Quando ho letto questo paragrafo, non ho potuto fare a meno di pensare, da fotografa, all'autoritratto. Quel tentativo di vedere se stessi attraverso il proprio corpo.
C'è stato un periodo, un paio di anni fa, in cui di autoritratti me ne facevo parecchi. Spesso tornavo a casa dopo il lavoro, a Roma, e mi mettevo comoda, con i vestiti da casa, nell'unica stanza che mi desse un'impressione di calore, di accoglienza: la camera da letto. Rivolgevo la piccola fotocamera dell'iPhone verso di me e scattavo. Non lo facevo per vanità, ma per rilassarmi. Per ritrovarmi, forse, alla fine di giornate che mi portavano lontano da me. Non erano selfie, quelle foto in posa in cui si individua il grado d'inclinazione della fotocamera perfetto per valorizzare il proprio viso. Anzi, spesso mi fotografavo in movimento, cercando un risultato nuovo anche ai miei occhi.
In realtà non vedevo l'ora di ritrarre qualcun altro, di me ero stufa, così come di quella solitudine e di quella vita.
Poi mi sono trasferita a Milano, e sono rinata. Con gli autoritratti fatti con l'iPhone ho smesso subito. Mi ritrovavo già in ogni ora di ogni giorno, e quell'esigenza di far affiorare me stessa attraverso il mio corpo è diventata di colpo superflua.
Un giorno di gennaio di quest'anno ho voluto testare la luce naturale della mia nuova casa. Qui non ci sono stanze sì e stanze no. È tutto aperto e sto bene ovunque.
Ho steso un fondale bianco e messo la macchina sul cavalletto di fronte a me. Non il telefonino, ma una fotocamera vera, di quelle che si usano per fare le immagini da stampare bene. Telecomando alla mano, ho scattato una serie che si chiama On white. Semplicissima, come un foglio bianco su cui scrivere una storia nuova. Ho celebrato così il mio cambiamento di vita, ed è stato un momento di ebbrezza: l'anima saliva sulla superficie del corpo, come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le mani verso il cielo e canta.
Una di quelle foto verrà esposta a Modena in una collettiva organizzata dalla Fondazione Teatro Comunale di Modena nell'ambito di una rassegna di danza contemporanea dal titolo "Passioni in Danza".
L'inaugurazione sarà martedì 2 dicembre alle ore 19:00.
Tutte le info qui:
http://www.fondazionefotografia.org/9557/fotografia-e-danza-si-incontrano-alle-passioni/
giovedì 23 ottobre 2014
MIFA 2014
Io sono di quelli che suonano senza farsi sentire.
Mai piaciuto mettermi in mostra nelle cose che facevo, anche se riuscivano bene.
Within è un progetto cresciuto mentre scrivevo il blog, e ogni ritratto aveva un post dedicato. Perché il ritratto è un'esperienza, e ognuno è diverso.
Scattavo in pellicola in giro per l'Italia e sviluppavo tutto in un laboratorio di Roma, il Lab Corvaglia. Fu quindi Luciano, guardando i provini, il primo a vederlo. Ancora prima di me. Poco prima che fosse finito, mi propose di esporlo nell'ambito del Darkroom Project a Muro Leccese, ma per vari motivi non potei farlo. Così Within restò sul mio sito, che è come a dire nel cassetto, insieme ad altri lavori. Finché non decisi, un paio di mesi fa, di partecipare a un concorso. È risaputo che le aspiranti dei concorsi di bellezza dicano spesso di essere state iscritte da un'amica, o una sorella, a loro insaputa. Non so quanto ci sia di vero in questo, ma in un certo senso anche per me è andata un po' così. Perché quelli come me vanno un po' spinti. Non si può sempre suonare nelle stanze vuote, prima o poi qualcuno ti sente. Prima o poi qualcuno le tue foto le vede e dà loro un valore che va al di là di quello personale di chi le ha scattate.
E così ieri sera, quando non ci pensavo neanche più, ecco arrivare per vie traverse la notizia inaspettata: menzione d'onore ai Moscow International Foto Awards, categoria ritratti. Per Within.
Ho aperto il link e quei volti - solo otto in questo caso, limite massimo per le serie - stavano lì a guardarmi dalla pagina di un sito che non era il mio. Come fossero a casa di altre persone, anzi in mezzo a una piazza. Insieme ad altri lavori veramente validi. Insieme alla menzione speciale data anche a chi mi ha spinto a partecipare e aiutato nell'editing. Le cattive notizie non arrivano mai da sole, ma neanche le buone :-)
http://moscowfotoawards.com/winners/zoom.php?eid=10-2365-14
Mai piaciuto mettermi in mostra nelle cose che facevo, anche se riuscivano bene.
Within è un progetto cresciuto mentre scrivevo il blog, e ogni ritratto aveva un post dedicato. Perché il ritratto è un'esperienza, e ognuno è diverso.
Scattavo in pellicola in giro per l'Italia e sviluppavo tutto in un laboratorio di Roma, il Lab Corvaglia. Fu quindi Luciano, guardando i provini, il primo a vederlo. Ancora prima di me. Poco prima che fosse finito, mi propose di esporlo nell'ambito del Darkroom Project a Muro Leccese, ma per vari motivi non potei farlo. Così Within restò sul mio sito, che è come a dire nel cassetto, insieme ad altri lavori. Finché non decisi, un paio di mesi fa, di partecipare a un concorso. È risaputo che le aspiranti dei concorsi di bellezza dicano spesso di essere state iscritte da un'amica, o una sorella, a loro insaputa. Non so quanto ci sia di vero in questo, ma in un certo senso anche per me è andata un po' così. Perché quelli come me vanno un po' spinti. Non si può sempre suonare nelle stanze vuote, prima o poi qualcuno ti sente. Prima o poi qualcuno le tue foto le vede e dà loro un valore che va al di là di quello personale di chi le ha scattate.
E così ieri sera, quando non ci pensavo neanche più, ecco arrivare per vie traverse la notizia inaspettata: menzione d'onore ai Moscow International Foto Awards, categoria ritratti. Per Within.
Ho aperto il link e quei volti - solo otto in questo caso, limite massimo per le serie - stavano lì a guardarmi dalla pagina di un sito che non era il mio. Come fossero a casa di altre persone, anzi in mezzo a una piazza. Insieme ad altri lavori veramente validi. Insieme alla menzione speciale data anche a chi mi ha spinto a partecipare e aiutato nell'editing. Le cattive notizie non arrivano mai da sole, ma neanche le buone :-)
http://moscowfotoawards.com/winners/zoom.php?eid=10-2365-14
Last but not least, ringrazio tutti i miei soggetti.
Condivido con voi questa mia soddisfazione personale: Filippo Nocera, Giangiacomo Pepe, Marco Onofri, Anders Petersen, Mario Zanaria, Fausto Podavini, Moreno Pisto, Alek Pierre, Anna Paladini, Donato Salcito, Edoardo Mantegazza, Alessandra Gerevini, Valeriya Burykh, Doug Rosa, Settimio Benedusi, Andrea Pugiotto, Toni Thorimbert, Diego Orlando.
sabato 4 ottobre 2014
Il suono del Cosmo
Credo che non ci sia cosa che mi appassioni di più che scoprire nuova musica. Sono capace di entrare in fisse inimmaginabili, con ascolti consecutivi a doppia cifra che sfiorano l'ossessione.
Quando poi la scoperta avviene per serendipità, è ancora meglio: navigando per la rete alla ricerca di una cosa che nulla ha a che vedere con la musica, approdi su un sito che suona una canzone che fin dalle prime note ti trasmette qualcosa. Individui la canzone e subito la compri su iTunes. S'intitola "The Moss", il muschio. Il testo è completamente assurdo, con riferimenti a Lewis Carrol e altre favole. Un'ode al nonsense fine a se stessa, racconta l'autore. Cerco il video su Youtube e trovo una performance live registrata a Bekonscot nel Buckinghamshire, il più antico villaggio in miniatura del mondo. Da qui apprendo che Cosmo è un polistrumentista, e io ho un debole per questo tipo di musicisti - ne conosco qualche altro, e infatti questo post nella mia idea originaria avrebbe dovuto inglobarne diversi, ma tale è stato l'interesse che mi ha suscitato questo artista che ho deciso di parlare solo di lui.
Saltellando da un video all'altro, capisco che non si tratta solo di una canzone orecchiabile. Mi trovo di fronte a uno di quei rari talenti che hanno una visione precisa di quello che fanno. Passione, curiosità, personalità. Una performance è in una stalla di maiali, un'altra in una lavanderia a gettoni a Brighton, un'altra ancora a bordo di un peschereccio di seppie, tra onde e schizzi d'inchiostro nero sulla strumentazione.
Ma chi è questo pazzo, mi chiedo con un sorriso incredulo.
Cosmo Sheldrake è un ventiquattrenne londinese che suona 30 strumenti diversi - dai più tradizionali a quelli caratteristici di alcuni Paesi del mondo - avvalendosi anche di campionatori e loop station. La sua musica è un collage di diverse influenze, e anche la tecnica vocale spazia dai vocalizzi della Mongolia e del Tibet fino al beatboxing. Ha iniziato a quattro anni col pianoforte e da allora non si è più fermato, trattando il suono con un approccio che prende ispirazione dal libro "The tuning of the World" di R. Murray Schäfer. Si tratta di un testo di storia, musica ed ecologia scritto nel 1977 che parla di come le persone abbiano progressivamente smesso di ascoltare il suono del mondo, e che invita a riaprire le orecchie per tornare a una consapevolezza di ciò che ci circonda e delle sue influenze sulla nostra percezione. Un tema, un destino: il suono di Cosmo. Eccolo nel pieno dell'espressione di questa "riappropriazione sonora", in un video girato in Bulgaria in cui crea un pezzo registrando e campionando i suoni del posto in cui si trova: il belato di una pecora, il ronzio di un alveare, il colpo di una barra di metallo, le interferenze di un televisore, l'apertura di un pacco di pasta, la risata di una vecchia, un sasso che rotola, ecc.
A volte l'eccentricità di certe composizioni potrebbe sembrare eccessiva, ma tutto si muove in una musicalità molto piacevole, che unita a uno stile scanzonato e ironico dell'immagine conferisce a Cosmo un appeal irresistibile. Almeno per chi, come me, desidererebbe essere circondata da molti più pazzi sperimentatori di questo tipo.
Quando poi la scoperta avviene per serendipità, è ancora meglio: navigando per la rete alla ricerca di una cosa che nulla ha a che vedere con la musica, approdi su un sito che suona una canzone che fin dalle prime note ti trasmette qualcosa. Individui la canzone e subito la compri su iTunes. S'intitola "The Moss", il muschio. Il testo è completamente assurdo, con riferimenti a Lewis Carrol e altre favole. Un'ode al nonsense fine a se stessa, racconta l'autore. Cerco il video su Youtube e trovo una performance live registrata a Bekonscot nel Buckinghamshire, il più antico villaggio in miniatura del mondo. Da qui apprendo che Cosmo è un polistrumentista, e io ho un debole per questo tipo di musicisti - ne conosco qualche altro, e infatti questo post nella mia idea originaria avrebbe dovuto inglobarne diversi, ma tale è stato l'interesse che mi ha suscitato questo artista che ho deciso di parlare solo di lui.
Saltellando da un video all'altro, capisco che non si tratta solo di una canzone orecchiabile. Mi trovo di fronte a uno di quei rari talenti che hanno una visione precisa di quello che fanno. Passione, curiosità, personalità. Una performance è in una stalla di maiali, un'altra in una lavanderia a gettoni a Brighton, un'altra ancora a bordo di un peschereccio di seppie, tra onde e schizzi d'inchiostro nero sulla strumentazione.
Ma chi è questo pazzo, mi chiedo con un sorriso incredulo.
Cosmo Sheldrake è un ventiquattrenne londinese che suona 30 strumenti diversi - dai più tradizionali a quelli caratteristici di alcuni Paesi del mondo - avvalendosi anche di campionatori e loop station. La sua musica è un collage di diverse influenze, e anche la tecnica vocale spazia dai vocalizzi della Mongolia e del Tibet fino al beatboxing. Ha iniziato a quattro anni col pianoforte e da allora non si è più fermato, trattando il suono con un approccio che prende ispirazione dal libro "The tuning of the World" di R. Murray Schäfer. Si tratta di un testo di storia, musica ed ecologia scritto nel 1977 che parla di come le persone abbiano progressivamente smesso di ascoltare il suono del mondo, e che invita a riaprire le orecchie per tornare a una consapevolezza di ciò che ci circonda e delle sue influenze sulla nostra percezione. Un tema, un destino: il suono di Cosmo. Eccolo nel pieno dell'espressione di questa "riappropriazione sonora", in un video girato in Bulgaria in cui crea un pezzo registrando e campionando i suoni del posto in cui si trova: il belato di una pecora, il ronzio di un alveare, il colpo di una barra di metallo, le interferenze di un televisore, l'apertura di un pacco di pasta, la risata di una vecchia, un sasso che rotola, ecc.
A volte l'eccentricità di certe composizioni potrebbe sembrare eccessiva, ma tutto si muove in una musicalità molto piacevole, che unita a uno stile scanzonato e ironico dell'immagine conferisce a Cosmo un appeal irresistibile. Almeno per chi, come me, desidererebbe essere circondata da molti più pazzi sperimentatori di questo tipo.
sabato 19 aprile 2014
Il foglio bianco
A Milano non ci so più stare. La casa che prima era la mia tana ora mi sta stretta. Dopo un mese vissuto costantemente sopra i 3200 metri, l'ossigeno delle basse quote non mi basta comunque.
E' bello tornare a casa, ma poi ti tornerà la voglia di partire, mi ha detto A. qualche giorno fa quando mi apprestavo a lasciare il Perù. Il fatto è che il bello del ritorno a me è durato il tempo di una cena a casa dei miei, o i dieci minuti di una doccia con la bocca aperta a far entrare acqua finalmente potabile. Appena varcata la soglia di casa, la mia, ho cominciato a sentirmi strana, fuori posto. Restare ancora in Sud America sarebbe stato troppo, ma stare qua è troppo poco. Segno che ho vissuto l'esperienza nel modo migliore.
Abbiamo passato i primi dieci giorni in una specie di gelido inferno dantesco, nei pressi di una miniera a cielo aperto che con i suoi 4400 metri è la più alta del mondo. A. faceva le foto, io mi occupavo della parte testuale. Abbiamo incontrato molte persone, parlato con loro, visto nei loro occhi l'impotenza e la rassegnazione. Si tratta di una problematica ambientale piuttosto pesante, di cui per ora non darò dettagli - ogni cosa a suo tempo.
Ho voluto subito cominciare a lavorare sull'articolo, procedendo parallelamente con un racconto in forma di scrittura creativa sulla stessa vicenda. Scrivere è la sola cosa che riesco a pensare di fare da quando sono tornata, ma è una bestia strana, selvatica. Si aggira per casa, mi fa sentire il suo fiato sul collo. Non somiglia a nessuna ispirazione precedente. Le pareti sembrano chiudermi, ho bisogno di aria. In Sud America non stavo quasi mai in spazi chiusi, e gli altipiani sono gli spazi aperti per eccellenza.
Esco con il Mac a scrivere nel mio piccolo cortile delimitato da piante che, per fortuna, provvedono da sole a se stesse. L'angolo dello scrittore ha solo un tavolino di legno con due sedie, scrostate dall'alternarsi di acqua e sole. Pioviggina, l'aria è freddina. Indosso la giacca del viaggio, mi pare l'unica giusta. Il naso è umido, i polpastrelli scontano la lontananza termica dalle maniche.
Non mi sento più abitante di nessun luogo. Cerco il Sud America come una vena d'oro nel sottosuolo.
Ieri sera sono crollata sul divano non più tardi delle nove, le luci erano già spente. Mi sono risvegliata un'oretta più tardi e non riconoscevo il posto in cui ero. Pareva di essere in un punto di passaggio, la tappa di un viaggio che continua. Potevo essere su un'imbarcazione, un'isola galleggiante, un camion. Confusa, mi sono alzata e ho cominciato a scrivere il racconto che mi gira in testa da settimane. Prima di iniziare ho comprato nuova musica, quella che appartiene a quei luoghi, e mi ci sono abbandonata per almeno un'ora. La scrittura è nemica della fretta. Sono tornata a quelle atmosfere, ho riguardato un paio di video girati con il cellulare - perché non ne ho fatti di più?
Di giorno lavoro all'articolo del reportage sulle miniere, ho molte registrazioni delle interviste fatte e mi rendo conto di capire perfettamente lo spagnolo ora, da che non ne sapevo una parola prima di partire. L'inflessione, il modo di ammorbidire le "b" in "v", i rumori di sottofondo in strada, le grida delle donne. Tutto mi riporta in Perù. Tento di trattenere i dettagli con le unghie, quasi non vorrei fare nulla né vedere nessuno per evitare che nuove immagini e parole si stratifichino su quelle che lentamente, inevitabilmente, scemeranno.
La musica è la mia più grande alleata, ma non è del genere che normalmente uso per scrivere. Sto ascoltando qualcosa di veramente tamarro. Sì, il Sud America ha un gusto anche molto tamarro, in generale. Per la strada non senti la latino-americana che ti aspetti, quei ritmi morbidi ed esotici, o scatenati e ballabili fatti di chitarre, fiati e percussioni. Quei pezzi li passano per radio sugli autobus, ci fanno i dvd da proiettare nei locali. Invece quando cammini sui marciapiedi pompa il reggaeton. Esce a tutto volume da negozi senza vetrine, solo pareti tappezzate di bustine di plastica con copertine sgargianti: film, musica, videogiochi.
Lo schermo riflettente del Mac rimanda un accenno della mia immagine, capelli sempre più lunghi incoronati da un paio di grosse cuffie, la schiena che si snoda sinuosa al ritmo della musica.
Mi scrive A. proprio ora, dandomi sue notizie. E' rimasto in Sud America per fare altri lavori e a me pare di avere un piede qua e uno là, come se una parte di me fosse ancora in quel continente. Capisco bene cosa intenda quando accenna a situazioni interessanti che ha trovato. Aspetto di vedere qualche foto, il suo modo di guardare mi piace moltissimo: attento, sincero e a volte crudo, ma mai gratuito. Mi ha insegnato cosa significhi stare sul campo, il valore del tempo per aspettare che le cose si rivelino in maniera efficace, l'importanza di andarle a cercare sempre - anche se magari poi non le trovi. Quello che conta è esserci, si assorbe sempre qualcosa. Non vedo l'ora del prossimo lavoro insieme.
Nonostante provi questo sentimento di smania rispetto allo scrivere la mia storia - e solo ora che ne ho veramente una avverto l'urgenza di portarla alla luce - in certi momenti sento di volerci anche solo stare dentro, semplicemente. Come quando ci si trova da qualche parte e si ha l'impulso di fotografare: è difficile tenere le mani a posto, rinunciare alla registrazione. Specialmente nei tempi attuali, in cui se non fotografi una cosa è come se non fosse mai esistita. Quando siamo andati al Salar de Uyuni ne abbiamo avuto una prova lampante: la gente non faceva altro che scattare, si erano portati persino cavalletti e telecomandi per farsi gli autoscatti ambientati. Io e A. camminavamo sulle distese di sale guardando questa strana fauna che assumeva le pose più assurde approfittando degli effetti prospettici ingannevoli che il deserto di sale creava. Era la cosa più divertente e al tempo stesso sconcertante dell'escursione. La più inaspettata invece è stata la presenza sulla nostra jeep di un sassofonista cileno, Marcelo Moncada, che con il suo operatore video gira i posti più spettacolari del mondo facendosi riprendere mentre suona la sua musica sperimentale. Incredibilmente noi due eravamo il suo unico pubblico, gli altri erano troppo presi a farsi le foto a vicenda. Il suono del sax si apriva un varco tra i cactus, facendo botta-e-risposta con le pareti dell'isola Incahuasi, oppure si scioglieva orizzontale sulla superficie piatta e abbacinante del Salar.
Le cose da raccontare sono davvero troppe, meritano spazi diversi. Il guaio della registrazione è che è sempre parziale rispetto a quello che pretende di rappresentare. Il diario visivo del mio viaggio è su Instagram (@stellastelassa), chi mi ha seguito lì ha vissuto il viaggio pressoché in tempo reale. I miei brevi racconti in didascalia hanno appassionato molti, in maniera anche inaspettata per me. Ho avuto conferma del fatto che per me nessuno dei due mezzi - immagine e parola - possa prescindere dall'altro.
Non c'è finale, non c'è chiusura per questo post. E' tutto in sospeso, come me in questo momento. Metterò qui solo una fotografia, la meta simbolica principale del mio viaggio: il foglio bianco.
E' bello tornare a casa, ma poi ti tornerà la voglia di partire, mi ha detto A. qualche giorno fa quando mi apprestavo a lasciare il Perù. Il fatto è che il bello del ritorno a me è durato il tempo di una cena a casa dei miei, o i dieci minuti di una doccia con la bocca aperta a far entrare acqua finalmente potabile. Appena varcata la soglia di casa, la mia, ho cominciato a sentirmi strana, fuori posto. Restare ancora in Sud America sarebbe stato troppo, ma stare qua è troppo poco. Segno che ho vissuto l'esperienza nel modo migliore.
Abbiamo passato i primi dieci giorni in una specie di gelido inferno dantesco, nei pressi di una miniera a cielo aperto che con i suoi 4400 metri è la più alta del mondo. A. faceva le foto, io mi occupavo della parte testuale. Abbiamo incontrato molte persone, parlato con loro, visto nei loro occhi l'impotenza e la rassegnazione. Si tratta di una problematica ambientale piuttosto pesante, di cui per ora non darò dettagli - ogni cosa a suo tempo.
Ho voluto subito cominciare a lavorare sull'articolo, procedendo parallelamente con un racconto in forma di scrittura creativa sulla stessa vicenda. Scrivere è la sola cosa che riesco a pensare di fare da quando sono tornata, ma è una bestia strana, selvatica. Si aggira per casa, mi fa sentire il suo fiato sul collo. Non somiglia a nessuna ispirazione precedente. Le pareti sembrano chiudermi, ho bisogno di aria. In Sud America non stavo quasi mai in spazi chiusi, e gli altipiani sono gli spazi aperti per eccellenza.
Esco con il Mac a scrivere nel mio piccolo cortile delimitato da piante che, per fortuna, provvedono da sole a se stesse. L'angolo dello scrittore ha solo un tavolino di legno con due sedie, scrostate dall'alternarsi di acqua e sole. Pioviggina, l'aria è freddina. Indosso la giacca del viaggio, mi pare l'unica giusta. Il naso è umido, i polpastrelli scontano la lontananza termica dalle maniche.
Non mi sento più abitante di nessun luogo. Cerco il Sud America come una vena d'oro nel sottosuolo.
Ieri sera sono crollata sul divano non più tardi delle nove, le luci erano già spente. Mi sono risvegliata un'oretta più tardi e non riconoscevo il posto in cui ero. Pareva di essere in un punto di passaggio, la tappa di un viaggio che continua. Potevo essere su un'imbarcazione, un'isola galleggiante, un camion. Confusa, mi sono alzata e ho cominciato a scrivere il racconto che mi gira in testa da settimane. Prima di iniziare ho comprato nuova musica, quella che appartiene a quei luoghi, e mi ci sono abbandonata per almeno un'ora. La scrittura è nemica della fretta. Sono tornata a quelle atmosfere, ho riguardato un paio di video girati con il cellulare - perché non ne ho fatti di più?
Di giorno lavoro all'articolo del reportage sulle miniere, ho molte registrazioni delle interviste fatte e mi rendo conto di capire perfettamente lo spagnolo ora, da che non ne sapevo una parola prima di partire. L'inflessione, il modo di ammorbidire le "b" in "v", i rumori di sottofondo in strada, le grida delle donne. Tutto mi riporta in Perù. Tento di trattenere i dettagli con le unghie, quasi non vorrei fare nulla né vedere nessuno per evitare che nuove immagini e parole si stratifichino su quelle che lentamente, inevitabilmente, scemeranno.
La musica è la mia più grande alleata, ma non è del genere che normalmente uso per scrivere. Sto ascoltando qualcosa di veramente tamarro. Sì, il Sud America ha un gusto anche molto tamarro, in generale. Per la strada non senti la latino-americana che ti aspetti, quei ritmi morbidi ed esotici, o scatenati e ballabili fatti di chitarre, fiati e percussioni. Quei pezzi li passano per radio sugli autobus, ci fanno i dvd da proiettare nei locali. Invece quando cammini sui marciapiedi pompa il reggaeton. Esce a tutto volume da negozi senza vetrine, solo pareti tappezzate di bustine di plastica con copertine sgargianti: film, musica, videogiochi.
Lo schermo riflettente del Mac rimanda un accenno della mia immagine, capelli sempre più lunghi incoronati da un paio di grosse cuffie, la schiena che si snoda sinuosa al ritmo della musica.
Mi scrive A. proprio ora, dandomi sue notizie. E' rimasto in Sud America per fare altri lavori e a me pare di avere un piede qua e uno là, come se una parte di me fosse ancora in quel continente. Capisco bene cosa intenda quando accenna a situazioni interessanti che ha trovato. Aspetto di vedere qualche foto, il suo modo di guardare mi piace moltissimo: attento, sincero e a volte crudo, ma mai gratuito. Mi ha insegnato cosa significhi stare sul campo, il valore del tempo per aspettare che le cose si rivelino in maniera efficace, l'importanza di andarle a cercare sempre - anche se magari poi non le trovi. Quello che conta è esserci, si assorbe sempre qualcosa. Non vedo l'ora del prossimo lavoro insieme.
Nonostante provi questo sentimento di smania rispetto allo scrivere la mia storia - e solo ora che ne ho veramente una avverto l'urgenza di portarla alla luce - in certi momenti sento di volerci anche solo stare dentro, semplicemente. Come quando ci si trova da qualche parte e si ha l'impulso di fotografare: è difficile tenere le mani a posto, rinunciare alla registrazione. Specialmente nei tempi attuali, in cui se non fotografi una cosa è come se non fosse mai esistita. Quando siamo andati al Salar de Uyuni ne abbiamo avuto una prova lampante: la gente non faceva altro che scattare, si erano portati persino cavalletti e telecomandi per farsi gli autoscatti ambientati. Io e A. camminavamo sulle distese di sale guardando questa strana fauna che assumeva le pose più assurde approfittando degli effetti prospettici ingannevoli che il deserto di sale creava. Era la cosa più divertente e al tempo stesso sconcertante dell'escursione. La più inaspettata invece è stata la presenza sulla nostra jeep di un sassofonista cileno, Marcelo Moncada, che con il suo operatore video gira i posti più spettacolari del mondo facendosi riprendere mentre suona la sua musica sperimentale. Incredibilmente noi due eravamo il suo unico pubblico, gli altri erano troppo presi a farsi le foto a vicenda. Il suono del sax si apriva un varco tra i cactus, facendo botta-e-risposta con le pareti dell'isola Incahuasi, oppure si scioglieva orizzontale sulla superficie piatta e abbacinante del Salar.
Le cose da raccontare sono davvero troppe, meritano spazi diversi. Il guaio della registrazione è che è sempre parziale rispetto a quello che pretende di rappresentare. Il diario visivo del mio viaggio è su Instagram (@stellastelassa), chi mi ha seguito lì ha vissuto il viaggio pressoché in tempo reale. I miei brevi racconti in didascalia hanno appassionato molti, in maniera anche inaspettata per me. Ho avuto conferma del fatto che per me nessuno dei due mezzi - immagine e parola - possa prescindere dall'altro.
Non c'è finale, non c'è chiusura per questo post. E' tutto in sospeso, come me in questo momento. Metterò qui solo una fotografia, la meta simbolica principale del mio viaggio: il foglio bianco.
lunedì 17 febbraio 2014
Sì, viaggiare
Alea iacta est.
Biglietti presi, vado in Sud America.
Anzi, andiamo. Perché con ogni probabilità non sarebbe bastato il desiderio di vedere il Salar de Uyuni per condurmi da sola nel cuore della Bolivia, zaino in spalla. Ho un fondamentale compagno per quest'avventura, e non potrebbe andarmi meglio perché oltre ad essere un viaggiatore navigato è anche lui un racconta-storie. Tra l'altro mi ha proposto un reportage a quattro mani che mi ha subito entusiasmato e che spero si riesca a organizzare - non che abbia dubbi, sarebbe capace di trovare contatti anche in Antartide.
All'inizio ero un po' in pensiero per i possibili rischi e la logistica, ma più mi abituo all'idea e si avvicina la partenza, più mi lascio andare. Atterreremo in Perù e scenderemo in Bolivia fino all'altopiano di Uyuni, per poi tornare verso nord.
Per me è il primo vero viaggio che non sia una vacanza. Niente resort, alberghi confortevoli e mezzi di trasporto privati: una cosa on the road, guida alla mano, equipaggiamento minimo, libera da prenotazioni intermedie e muovendosi in pullman. Nulla di frenetico, sarà un'esperienza immersiva, andando in esplorazione di luoghi, persone e situazioni fuori dall'ordinario. Mi prenderò il tempo per scrivere presumibilmente ogni giorno e ho idea che tutto mi sarà d'ispirazione, sia a livello di esperienza di vita che per il materiale di lavoro.
Il senso di anticipazione per questo viaggio è molto forte, mi sto documentando e preparando tra vaccinazioni, attrezzatura e fondamenti di spagnolo. Anche se sono cosciente che tutto, una volta là, sarà completamente diverso da qualsiasi immaginazione.
Per ora vi lascio con una foto del deserto di sale che per primo mi ha attratto verso quelle mete: il foglio bianco tutto da scrivere che riflette senza ostacoli ogni cosa intorno a sé, disperdendo confini e riferimenti.
Biglietti presi, vado in Sud America.
Anzi, andiamo. Perché con ogni probabilità non sarebbe bastato il desiderio di vedere il Salar de Uyuni per condurmi da sola nel cuore della Bolivia, zaino in spalla. Ho un fondamentale compagno per quest'avventura, e non potrebbe andarmi meglio perché oltre ad essere un viaggiatore navigato è anche lui un racconta-storie. Tra l'altro mi ha proposto un reportage a quattro mani che mi ha subito entusiasmato e che spero si riesca a organizzare - non che abbia dubbi, sarebbe capace di trovare contatti anche in Antartide.
All'inizio ero un po' in pensiero per i possibili rischi e la logistica, ma più mi abituo all'idea e si avvicina la partenza, più mi lascio andare. Atterreremo in Perù e scenderemo in Bolivia fino all'altopiano di Uyuni, per poi tornare verso nord.
Per me è il primo vero viaggio che non sia una vacanza. Niente resort, alberghi confortevoli e mezzi di trasporto privati: una cosa on the road, guida alla mano, equipaggiamento minimo, libera da prenotazioni intermedie e muovendosi in pullman. Nulla di frenetico, sarà un'esperienza immersiva, andando in esplorazione di luoghi, persone e situazioni fuori dall'ordinario. Mi prenderò il tempo per scrivere presumibilmente ogni giorno e ho idea che tutto mi sarà d'ispirazione, sia a livello di esperienza di vita che per il materiale di lavoro.
Il senso di anticipazione per questo viaggio è molto forte, mi sto documentando e preparando tra vaccinazioni, attrezzatura e fondamenti di spagnolo. Anche se sono cosciente che tutto, una volta là, sarà completamente diverso da qualsiasi immaginazione.
Per ora vi lascio con una foto del deserto di sale che per primo mi ha attratto verso quelle mete: il foglio bianco tutto da scrivere che riflette senza ostacoli ogni cosa intorno a sé, disperdendo confini e riferimenti.
Salar de Uyuni, Bolivia |
sabato 8 febbraio 2014
Giardino di Levante, 319
La gente, ha scritto una volta William Paradoxal, dovrebbe pensare alla morte, sempre.
Io invece alla morte non ci penso mai. La temo per gli altri, non per me, ma solo perché sono egoista. Un attimo sei vivo e quello dopo sei morto, perché avere paura di una cosa di cui nemmeno sarai cosciente.
Invece ho paura della violenza. Del panico indotto da una minaccia. Dell'odore del sangue. Della rottura. Del peso delle cose che restano senza chi le usi più. Di vedere quella casa buia sempre più spenta. Di restare sola e senza rete. Di non avere mia madre che mi rammenda un maglione con quelle cuciture invisibili. Di non avere mio padre che s'ingegna a riparare o costruire qualsiasi cosa. Questo loro aggiustare le cose, risolvere, riparare, sapere cosa fare. Servire con autorità i propri figli, finché poi i ruoli non si ribaltano. E così quando il genitore si rompe, allora sei tu, figlio, a doverlo riparare. Non nel senso di aggiustare ma di proteggere. Dalla sofferenza, dalla malattia, dalla discesa della vita. Amare è riparare.
Qualche tempo fa ero a casa dei miei, si prendeva il tè. Papà era andato al Monumentale, questioni burocratiche. Riesumazione delle ceneri dei miei avi, per far posto ad altri morti delle attuali generazioni nella stessa tomba. Accorciamento dell'epigrafe esistente, per i nomi dei nuovi arrivati. Sennò non ci stanno tutti, fa mia madre. Lo diceva con quella tranquillità di chi ha già elaborato i suoi lutti fondamentali, come in una rassegnazione orfana. Io la guardavo con un distacco scettico, un po' ridevo anche. Cosa devi fare quando ti dicono una cosa del genere. Verranno sepolti al Giardino di Levante, tomba n. 319. Insieme ad altri parenti, sono andati a prenotare il loro ultimo indirizzo. Come se si fossero presentati alla morte in persona, le avessero stretto la mano e poi arrivederci a chissà quando, prima o poi. Oh, ci becchiamo eh.
Quello che mi stranisce è che anche la morte è piena di cose pratiche. Ti devi prenotare la tomba da vivo, e poi quando arriva il momento ci sono i certificati di morte, le pompe funebri: di che legno si vuole la bara, che fiori metterci sopra. Rose rosse, rose bianche, un misto di tutto? Se ne escono con certi cataloghi ad anelli, le foto inserite in camicie di plastica, e tu che non sai cosa rispondere.
Io della morte di mio nonno, l'unica che ho vissuto di persona, ricordo soprattutto due cose: l'inaspettata rigidità delle mani quando gliele ho strette qualche minuto dopo che aveva esalato l'ultimo respiro, e il rumore delle viti che chiudevano la bara, udito dalla stanza di fianco. In quel momento capii. Non aveva più bisogno di aria, di luce, di noi. Avvitato alla morte, chiuso dentro, riparato per sempre.
Anche lui sta al Monumentale, vicino a mia nonna. Saremo tutti là, un giorno, al 319? RSVP.
Io invece alla morte non ci penso mai. La temo per gli altri, non per me, ma solo perché sono egoista. Un attimo sei vivo e quello dopo sei morto, perché avere paura di una cosa di cui nemmeno sarai cosciente.
Invece ho paura della violenza. Del panico indotto da una minaccia. Dell'odore del sangue. Della rottura. Del peso delle cose che restano senza chi le usi più. Di vedere quella casa buia sempre più spenta. Di restare sola e senza rete. Di non avere mia madre che mi rammenda un maglione con quelle cuciture invisibili. Di non avere mio padre che s'ingegna a riparare o costruire qualsiasi cosa. Questo loro aggiustare le cose, risolvere, riparare, sapere cosa fare. Servire con autorità i propri figli, finché poi i ruoli non si ribaltano. E così quando il genitore si rompe, allora sei tu, figlio, a doverlo riparare. Non nel senso di aggiustare ma di proteggere. Dalla sofferenza, dalla malattia, dalla discesa della vita. Amare è riparare.
Qualche tempo fa ero a casa dei miei, si prendeva il tè. Papà era andato al Monumentale, questioni burocratiche. Riesumazione delle ceneri dei miei avi, per far posto ad altri morti delle attuali generazioni nella stessa tomba. Accorciamento dell'epigrafe esistente, per i nomi dei nuovi arrivati. Sennò non ci stanno tutti, fa mia madre. Lo diceva con quella tranquillità di chi ha già elaborato i suoi lutti fondamentali, come in una rassegnazione orfana. Io la guardavo con un distacco scettico, un po' ridevo anche. Cosa devi fare quando ti dicono una cosa del genere. Verranno sepolti al Giardino di Levante, tomba n. 319. Insieme ad altri parenti, sono andati a prenotare il loro ultimo indirizzo. Come se si fossero presentati alla morte in persona, le avessero stretto la mano e poi arrivederci a chissà quando, prima o poi. Oh, ci becchiamo eh.
Quello che mi stranisce è che anche la morte è piena di cose pratiche. Ti devi prenotare la tomba da vivo, e poi quando arriva il momento ci sono i certificati di morte, le pompe funebri: di che legno si vuole la bara, che fiori metterci sopra. Rose rosse, rose bianche, un misto di tutto? Se ne escono con certi cataloghi ad anelli, le foto inserite in camicie di plastica, e tu che non sai cosa rispondere.
Io della morte di mio nonno, l'unica che ho vissuto di persona, ricordo soprattutto due cose: l'inaspettata rigidità delle mani quando gliele ho strette qualche minuto dopo che aveva esalato l'ultimo respiro, e il rumore delle viti che chiudevano la bara, udito dalla stanza di fianco. In quel momento capii. Non aveva più bisogno di aria, di luce, di noi. Avvitato alla morte, chiuso dentro, riparato per sempre.
Anche lui sta al Monumentale, vicino a mia nonna. Saremo tutti là, un giorno, al 319? RSVP.
Cimitero Monumentale, Milano - 12 Gennaio 2014 |
venerdì 7 febbraio 2014
La chiave
Scrivo da quando avevo più o meno dodici anni - buona parte della mia vita. Fino ai ventisei l'ho fatto su delle agende. Le trovavo per casa, chiedevo di prenderle e le riempivo. Un totale di circa 1.500 pagine. Poi comprai il mio primo computer portatile, e iniziai un file chiamato "25 aprile 2005", la sera del mio trasloco a Roma.
Le agende stanno sotto chiave in un armadietto della mia scrivania di legno, a casa dei miei. Chiave che era nascosta nella fenditura di una scatola da domino in un armadietto a due ante nella parte bassa della libreria, a sua volta chiuso a chiave. Quest'ultima stava tra penne e matite dentro a una massiccia tazza di ceramica color ghiaccio sporco, in un angolo protetto più in alto. Ogni volta che scrivevo mi facevo tutto il percorso, naturalmente dopo essermi assicurata che nessuno mi avrebbe disturbato in quei pochi secondi. Sì, ho sempre preso la mia privacy come una faccenda piuttosto seria. Mia madre aveva letto qualche pagina del mio primo diario, e questo fu il trauma che mi indusse a blindare il mio privato negli anni a venire.Quando mi trasferii a Roma, per non correre rischi, la chiave della scrivania venne con me. La custodii per tre anni in una borsina di pelle scamosciata color ocra, che in origine proteggeva una bottiglia di rum marca Pampero Aniversario. La tenevo in un armadio, sul ripiano in mezzo ai cappelli. Nel successivo trasloco, persi di vista la chiave. Per quei cinque anni pensai che non avrei più potuto rileggere le mie privatissime agende. Un po' m'importava e un po' no.
Facendo gli scatoloni per il trasloco a Milano, ritrovai quella chiave. Non stava più nella borsina di pelle, non ricordo dove l'avessi messa, ma il momento in cui saltò fuori fu surreale. E' una chiave antica di ottone, di quelle un po' decorate con i riccioletti. Quando la presi in mano la guardai come una cugina lontana. Aveva un peso specifico enorme, e ai miei occhi, forse anche per quella sua forma così particolare, sembrava essere dotata di un'energia spaventosa.
Da quando sono tornata a vivere a Milano, non mi sono ancora mai ricordata di andare a casa dei miei a prendere le famose agende, e rischio di dimenticare un'altra volta dove abbia messo la chiave. Non che ritenga quelle agende del materiale particolarmente valido, ma, insomma, era quello che era: la linea dei miei pensieri da quando avevo iniziato a tracciarla con una certa coscienza.
Rileggendo i brani dai file sul computer, le parole mi arrivano con una violenza inaudita. Esprimono un disagio atroce, un tale senso di angoscia dal quale solo adesso sono in grado di sentirmi a distanza di sicurezza. Quando penso al mio ultimo anno romano, lo ricordo come il più difficile della mia vita, quello che mi ha fatto toccare il fondo per poi risalire. Ma quel tracollo è stato il prodotto di ciò che è venuto prima, ed è stato un processo lento e inesorabile. Smarrimento, insensatezza, prigionia, alienazione. Nel rileggermi ho sgranato gli occhi, sgomenta. Perché so che quella persona ero io, e quando riprendo in mano i miei scritti posso ancora sentire, nel profondo, l'eco di quelle emozioni soffocanti.
Non ci andavo leggera, questo è certo. Del resto, che motivo avrei avuto di risparmiarmi? E non lo faccio tutt'ora. Niente come la sincerità che concedo a me stessa nello scrivere quotidianamente è in grado di restituire fino in fondo quello che provo. Il blog in confronto è stato acquetta, così come le mie foto passate. I miei scritti privati invece sono lame. Niente ricercatezze inutili, sostanza pura. La chiave è quella, la verità che apre a tutto quello che sono. La sola che giri nella serratura. Se uno scrittore vuole aprire delle porte, può farlo solo così. Il resto non serve.
lunedì 3 febbraio 2014
Wedding with a star
E' online il mio nuovo sito dedicato alla fotografia di cerimonia. Sinceramente mi ha emozionato rivedere quanto fatto finora in quel campo, e non vedo l'ora di scattare ancora.
Riporto qui la mia visione così come l'ho scritta nel sito.
Non importa il mezzo, quello che conta è la storia.
Questo è da sempre il principio cui s'ispira la mia produzione. Sono una racconta-storie e lo faccio attraverso immagini e parole, che sono i miei due mondi professionali. Vedo la fotografia come una rappresentazione di relazioni: tra persone, tempi e luoghi.
Nasco come ritrattista e il mio genere è il reportage. Sono interessata a ciò che lega gli individui e la mia ricerca personale nel campo delle immagini ha sempre riguardato ciò che è intimo all'animo umano. La verità che emerge da uno sguardo o il mistero che vi si cela, la linea sottile del contatto tra fotografo e soggetto, la loro reciproca e impalpabile empatia, la rivelazione nel momento dell'incontro.
Non vi ripeterò quello che potete trovare in tanti altri siti che promuovono la fotografia di cerimonia. Tutte quelle frasi fatte sull'amore, il giorno più bello, le emozioni, i confetti e l'eternità. Quello è il vostro mondo, unico e personale, e nessuno dovrebbe invaderlo con il marketing. Il mio territorio è invece quello dell'osservazione e del sentire, e lo esploro documentando secondo il mio punto di vista ciò che le persone emanano attraverso i gesti. Vivo il matrimonio come una straordinaria occasione di incontro corale, animata da sentimenti che affiorano forti sui volti come in poche altre occasioni nella vita.
Se questo mio approccio parla con il vostro, ci sceglieremo a vicenda istintivamente. Come succede tra un uomo e una donna destinati l'uno all'altra.
Riporto qui la mia visione così come l'ho scritta nel sito.
Non importa il mezzo, quello che conta è la storia.
Questo è da sempre il principio cui s'ispira la mia produzione. Sono una racconta-storie e lo faccio attraverso immagini e parole, che sono i miei due mondi professionali. Vedo la fotografia come una rappresentazione di relazioni: tra persone, tempi e luoghi.
Nasco come ritrattista e il mio genere è il reportage. Sono interessata a ciò che lega gli individui e la mia ricerca personale nel campo delle immagini ha sempre riguardato ciò che è intimo all'animo umano. La verità che emerge da uno sguardo o il mistero che vi si cela, la linea sottile del contatto tra fotografo e soggetto, la loro reciproca e impalpabile empatia, la rivelazione nel momento dell'incontro.
Non vi ripeterò quello che potete trovare in tanti altri siti che promuovono la fotografia di cerimonia. Tutte quelle frasi fatte sull'amore, il giorno più bello, le emozioni, i confetti e l'eternità. Quello è il vostro mondo, unico e personale, e nessuno dovrebbe invaderlo con il marketing. Il mio territorio è invece quello dell'osservazione e del sentire, e lo esploro documentando secondo il mio punto di vista ciò che le persone emanano attraverso i gesti. Vivo il matrimonio come una straordinaria occasione di incontro corale, animata da sentimenti che affiorano forti sui volti come in poche altre occasioni nella vita.
Se questo mio approccio parla con il vostro, ci sceglieremo a vicenda istintivamente. Come succede tra un uomo e una donna destinati l'uno all'altra.
Potete visitarlo cliccando qui.
Iscriviti a:
Post (Atom)