L'arrivo di un bambino quasi non si può raccontare, per non rischiare di banalizzarlo. Ogni giorno vengono al mondo tante di quelle vite che l'esperienza della nascita è un fatto davvero universale, qualcosa di cui stupisce stupirsi.
Per me il mondo dei bambini è sempre stato lontano. Mai fatto la baby-sitter - troppa responsabilità, e poi chi li sa tenere, cosa gli faccio fare - e mai avuto l'istinto materno.
Poi è accaduto qualcosa nella mia vita, qualche settimana fa: sono diventata zia di un bimbo di quattordici mesi. Erano in lista per l'adozione da quattro anni e all'improvviso, quando nessuno se lo aspettava, è comparso lui.
Ero al lago, con i miei. Quel giorno si sarebbe saputa la sua identità, e aspettavamo con ansia la telefonata di mio fratello. Nessuno osava fare il bagno in piscina. Nessuno parlava troppo, immerso nei propri pensieri. Nessuno osava fare niente che potesse essere interrotto. C'era qualcosa di impalpabile nell'aria, come se lui stesse veramente venendo al mondo in quel momento. Mai provato gioia più grande, e chiamarla gioia è così riduttivo. Christian. Nato sotto una stella particolare, una coincidenza di date che sembra un caso ma forse non lo è.
Nei giorni successivi sono arrivate le prime foto, e ognuna era una festa. Man mano che il tempo passava, lui si avvicinava naturalmente ai genitori, si lasciava andare senza fatica, si fidava completamente. Durante quella settimana di avvicinamento lo sguardo cambiava, i sorrisi, i gesti acquisivano una familiarità così immediata. L'amore veniva dal nulla, incondizionatamente. Come se. Anche più che se - per quanto mi riguarda. Prima che la questione "adozione" diventasse qualcosa che, indirettamente, mi riguardava, non sapevo se avrebbe mai fatto per me. Se sarebbe stata la stessa cosa. Io non ho provato l'esperienza di un figlio biologico, ma credo che, per come la sto vivendo io, di differenze non ce ne siano. Anzi, credo di preferire addirittura l'adozione. Pensare a quanto la sua vita sia cambiata, a come le sue prospettive si siano di colpo rivoluzionate per il meglio. Lui che non ha colpe, che non ha ancora fatto niente, che semplicemente è.
Pensare a quanto la nostra vita sia cambiata, grazie a lui. Che quando gli porti un regalo si perde prima a guardare la scatola e a rigirare il coperchio, e solo dopo guarda anche il contenuto. Perché per lui è tutto nuovo. E non intendo la casa, le persone, le abitudini: intendo proprio tutto. C'è un'infinità di cose che non ha mai visto, toccato, sentito. E c'è un'infinità di cose che guarda, tocca e ascolta. Non smette mai, è come una spugna. Tutte queste sono cose ovvie, eppure ognuna di esse ha qualcosa di straordinario.
Lo osservo, mi fa ridere da matti, lo amo già tantissimo. Ma forse il primo, vero, momento tra di noi è stato un attimo casuale, arrivato all'improvviso, quando ero in casa con lui ieri e gli stavo dietro intanto che la mamma faceva una torta di mele. Si è fermato e mi ha fissato da vicino con quei piccoli occhi nocciola, per una manciata di secondi. Senza dire nulla, senza ridere, senza fare niente. In quel silenzio carico in cui ci siamo guardati, mi è caduto il mondo tra le mani.
I bambini succedono ogni giorno, ma un bambino accade pochissime volte nella vita.
In fotografia, f/64 è il valore di minima apertura del diaframma. Massimo dettaglio, visione profonda.
sabato 10 settembre 2016
sabato 19 marzo 2016
Preoccupazioni pubbliche
Ci sono due vantaggi nell'avere un compagno che fa il fotogiornalista. Il primo è ricevere in regalo per il proprio compleanno splendide stampe. Il secondo - e più importante - è il poter imparare tantissime cose sulle culture e sulla storia del mondo.
Ci siamo conosciuti all'Accademia di fotografia, al corso di comunicazione visiva. La cosa è emblematica, perché ancora oggi il mondo della comunicazione visiva è quello che ci riguarda entrambi più da vicino. Diceva Avedon: Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi. In un certo senso, anche per noi è lo stesso. E quando non si tratta di scattare - che, è bene precisarlo, è solo una piccola parte del mestiere del fotografo, in tutte le sue declinazioni - si tratta di leggere, informarsi, guardare, scrivere, porsi domande, confrontarsi.
Da tempo aiuto il mio compagno nel suo lavoro, nonostante le tante difficoltà che spesso fiaccano la determinazione a continuare un percorso spesso sordo alle tante storie da raccontare. Che non sono episodi isolati, piccoli temi per riempire le pagine dei magazine. Sono tutte legate, e tutte fanno parte della Storia con la S maiuscola. Quella che abbiamo studiato sui libri e che un giorno farà parte dei libri delle prossime generazioni. Io capisco che non sia possibile conoscere tutto quello che succede nel mondo - non basterebbe una vita di giornate da 48 ore -, quindi credo che scegliere cosa divulgare sia una responsabilità enorme. Il mondo dell'informazione ci offre quotidianamente un menu di notizie e ogni testata è diversa, in ogni paese o area del mondo. Purtroppo l'informazione di qualità in Italia è un'utopia, quindi chi come me vuole informarsi su quello che avviene nel mondo si deve leggere la stampa straniera. A pensarci bene, spesso anche per sapere cosa succeda realmente in Italia bisogna leggere la stampa estera - ma non divaghiamo. La cosa importante da capire ora è che non esistono storie di serie A o di serie B. Almeno, non dovrebbero. E invece esistono eccome. La cosa diventa ancora più evidente quando succedono fatti clamorosi come gli attacchi terroristici, e quelle occasioni sono una cartina al tornasole molto efficace dello stato dell'informazione delle persone. Siccome sui social nessuno resiste alla tentazione di esprimere la propria opinione su qualsiasi cosa, ecco che trovano posto prese di posizione inimmaginabili per chiunque impieghi un po' del proprio tempo per guardare al di fuori del proprio lenzuolino di terra. Ancora ricordo quando all'improvviso tutti su Twitter sono diventati Charlie Hebdo, o si sono prodotti in lutti mediatici per i cugini d'oltralpe facendo propria la bandiera francese nelle foto profilo di Facebook. Niente di sbagliato nella solidarietà, anzi. Peccato che lo stesso sentimento non abbia animato questi tutti rispetto a molti altri fatti gravissimi accaduti proprio in quei giorni in altri Paesi del mondo. In propria difesa, molti hanno affermato che la solidarietà fosse legata alla prossimità geografica e culturale con i francesi. Questo fatto, lo devo dire, mi ha fatto veramente cadere le braccia. Io avevo allora - e ho oggi - gli stessi strumenti per conoscere i fatti del mondo che avrebbero potuto avere quelle persone così ottusamente chiuse nella propria ignoranza; la differenza tra me e loro è la voglia di sbattersi per andare oltre a quello che ti viene raccontato (o nascosto, secondo le occasioni) ogni giorno. Per questo credo che le redazioni abbiano una responsabilità enorme, perché scelgono cosa il pubblico possa conoscere o meno.
Ogni giornale o magazine ha la propria linea editoriale, il proprio pubblico, il proprio taglio, ed è sacrosanto. È ciò che determina la varietà e, in teoria, la qualità dell'informazione. Tuttavia, ciò che viene pubblicato è quello che il pubblico vede ma non è detto che sia quello che il pubblico vuole vedere. Non mi sorprende la pletora becera di persone che cliccano sulla colonna di destra del sito di Repubblica.it, perché il popolo italiano è stato educato da un palinsesto televisivo che da oltre trent'anni ha contribuito alla rovina culturale di questo paese. Come si può aspettarsi un senso critico da gente cresciuta a pane e Berlusconi? Se avessi potuto scegliere, io avrei domandato ben altro alla televisione dagli anni '80 ad oggi, cioè da quando sono nata. Non mi si venga a dire che quello che c'è oggi è lo specchio della domanda, perché sono certa che una grande fetta di italiani vorrebbero ben altro dal mondo dei media. Quindi di nuovo, enorme responsabilità in capo a chi decide cosa proporre.
Negli ultimi mesi, nell'aiutare il mio compagno a presentare i suoi lavori fotogiornalistici alle varie testate, con alcuni di questi soggetti mi sono interfacciata direttamente. Innanzitutto, chi risponde - anche solo per dirti no, grazie - sono solo gli stranieri. In Italia c'è una maleducazione e una mancanza di rispetto per il lavoro delle persone (in tutti i campi e a tutti i livelli) che è veramente vergognoso. Secondariamente, chi dall'estero declina l'interesse per una storia proposta lo fa motivando la propria scelta. Quello che mi ha fatto riflettere di recente è stata la risposta di un photoeditor di un noto magazine francese, ed è quello di cui volevo scrivere appunto in questo post dopo questo lungo cappello.
L'essenza, letterale, della risposta era la seguente: Your subject is too far from the concerns of our readers. La vostra tematica è troppo lontana dalle preoccupazioni dei nostri lettori. Per inciso, si tratta della guerra civile in Burundi che nell'ultimo anno ha provocato la morte di oltre quattrocento persone e la fuga di migliaia di persone dalle proprie case per aver salva la vita. Chi se ne frega, no? Mica ci sono interessi economici lì, quindi lasciamoli nel loro brodo e non ne parliamo neanche.
A farmi rimanere perplessa non era stato il rifiuto. Di quelli ne arrivano tanti e, anche se ovviamente ci si spera sempre, a quello si può anche essere preparati. Ciò che mi ha colpito è quella parte della frase, too far from the concerns. Di quale lontananza stiamo parlando? Di quella geografica che riesce a coinvolgere le persone solo se capita una tragedia a qualche centinaio di chilometri dalla propria casa? Di quella economica che distingue tra quello che può avere conseguenze dirette sui bilanci di uno stato e quello che no? Di quella che separa il mondo avanzato dal Terzo mondo? Di quella socio-culturale che mette da una parte ciò che è degno di rispetto e dall'altra ciò che è solo folkloristico? Di quella religiosa? Di quella storica e politica? Veramente, di quale lontananza parliamo? E perché alimentarla allora? I lettori non sono preoccupati da altre cose, non dovrebbero esserlo. I lettori - almeno, una gran parte di essi - si preoccupano delle cose che ricevono. È chiaro che non possono preoccuparsi di quelle che non potranno mai conoscere. E non è vero neanche che se le leggessero, non ne sarebbero interessate. Tutte le persone alle quali ho parlato delle storie non pubblicate che conosco ne avrebbero voluto sapere di più. Ne sono rimaste impressionate, e quel che è peggio è che non immaginavano che potessero esistere situazioni del genere.
Il mestiere del giornalista è quello di trovare storie da portare al pubblico. Il suo dovere è di essere testimone della storia che avviene sotto i suoi occhi, giorno per giorno. Non la storia dei politici e politicanti, non quella che vogliono darci a bere dai grandi pulpiti, ma quella che vivono i singoli che non hanno microfoni davanti alla bocca. Il dovere di un editore dovrebbe essere quello di dar loro la voce e, attraverso questa, coltivare la coscienza e il senso critico delle persone su quello che le riguarda, da vicino e da lontano. Non di decidere cosa li possa preoccupare o meno. Quello lo lascino poi decidere a lettori dagli orizzonti più aperti.
Ci siamo conosciuti all'Accademia di fotografia, al corso di comunicazione visiva. La cosa è emblematica, perché ancora oggi il mondo della comunicazione visiva è quello che ci riguarda entrambi più da vicino. Diceva Avedon: Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi. In un certo senso, anche per noi è lo stesso. E quando non si tratta di scattare - che, è bene precisarlo, è solo una piccola parte del mestiere del fotografo, in tutte le sue declinazioni - si tratta di leggere, informarsi, guardare, scrivere, porsi domande, confrontarsi.
Da tempo aiuto il mio compagno nel suo lavoro, nonostante le tante difficoltà che spesso fiaccano la determinazione a continuare un percorso spesso sordo alle tante storie da raccontare. Che non sono episodi isolati, piccoli temi per riempire le pagine dei magazine. Sono tutte legate, e tutte fanno parte della Storia con la S maiuscola. Quella che abbiamo studiato sui libri e che un giorno farà parte dei libri delle prossime generazioni. Io capisco che non sia possibile conoscere tutto quello che succede nel mondo - non basterebbe una vita di giornate da 48 ore -, quindi credo che scegliere cosa divulgare sia una responsabilità enorme. Il mondo dell'informazione ci offre quotidianamente un menu di notizie e ogni testata è diversa, in ogni paese o area del mondo. Purtroppo l'informazione di qualità in Italia è un'utopia, quindi chi come me vuole informarsi su quello che avviene nel mondo si deve leggere la stampa straniera. A pensarci bene, spesso anche per sapere cosa succeda realmente in Italia bisogna leggere la stampa estera - ma non divaghiamo. La cosa importante da capire ora è che non esistono storie di serie A o di serie B. Almeno, non dovrebbero. E invece esistono eccome. La cosa diventa ancora più evidente quando succedono fatti clamorosi come gli attacchi terroristici, e quelle occasioni sono una cartina al tornasole molto efficace dello stato dell'informazione delle persone. Siccome sui social nessuno resiste alla tentazione di esprimere la propria opinione su qualsiasi cosa, ecco che trovano posto prese di posizione inimmaginabili per chiunque impieghi un po' del proprio tempo per guardare al di fuori del proprio lenzuolino di terra. Ancora ricordo quando all'improvviso tutti su Twitter sono diventati Charlie Hebdo, o si sono prodotti in lutti mediatici per i cugini d'oltralpe facendo propria la bandiera francese nelle foto profilo di Facebook. Niente di sbagliato nella solidarietà, anzi. Peccato che lo stesso sentimento non abbia animato questi tutti rispetto a molti altri fatti gravissimi accaduti proprio in quei giorni in altri Paesi del mondo. In propria difesa, molti hanno affermato che la solidarietà fosse legata alla prossimità geografica e culturale con i francesi. Questo fatto, lo devo dire, mi ha fatto veramente cadere le braccia. Io avevo allora - e ho oggi - gli stessi strumenti per conoscere i fatti del mondo che avrebbero potuto avere quelle persone così ottusamente chiuse nella propria ignoranza; la differenza tra me e loro è la voglia di sbattersi per andare oltre a quello che ti viene raccontato (o nascosto, secondo le occasioni) ogni giorno. Per questo credo che le redazioni abbiano una responsabilità enorme, perché scelgono cosa il pubblico possa conoscere o meno.
Ogni giornale o magazine ha la propria linea editoriale, il proprio pubblico, il proprio taglio, ed è sacrosanto. È ciò che determina la varietà e, in teoria, la qualità dell'informazione. Tuttavia, ciò che viene pubblicato è quello che il pubblico vede ma non è detto che sia quello che il pubblico vuole vedere. Non mi sorprende la pletora becera di persone che cliccano sulla colonna di destra del sito di Repubblica.it, perché il popolo italiano è stato educato da un palinsesto televisivo che da oltre trent'anni ha contribuito alla rovina culturale di questo paese. Come si può aspettarsi un senso critico da gente cresciuta a pane e Berlusconi? Se avessi potuto scegliere, io avrei domandato ben altro alla televisione dagli anni '80 ad oggi, cioè da quando sono nata. Non mi si venga a dire che quello che c'è oggi è lo specchio della domanda, perché sono certa che una grande fetta di italiani vorrebbero ben altro dal mondo dei media. Quindi di nuovo, enorme responsabilità in capo a chi decide cosa proporre.
Negli ultimi mesi, nell'aiutare il mio compagno a presentare i suoi lavori fotogiornalistici alle varie testate, con alcuni di questi soggetti mi sono interfacciata direttamente. Innanzitutto, chi risponde - anche solo per dirti no, grazie - sono solo gli stranieri. In Italia c'è una maleducazione e una mancanza di rispetto per il lavoro delle persone (in tutti i campi e a tutti i livelli) che è veramente vergognoso. Secondariamente, chi dall'estero declina l'interesse per una storia proposta lo fa motivando la propria scelta. Quello che mi ha fatto riflettere di recente è stata la risposta di un photoeditor di un noto magazine francese, ed è quello di cui volevo scrivere appunto in questo post dopo questo lungo cappello.
L'essenza, letterale, della risposta era la seguente: Your subject is too far from the concerns of our readers. La vostra tematica è troppo lontana dalle preoccupazioni dei nostri lettori. Per inciso, si tratta della guerra civile in Burundi che nell'ultimo anno ha provocato la morte di oltre quattrocento persone e la fuga di migliaia di persone dalle proprie case per aver salva la vita. Chi se ne frega, no? Mica ci sono interessi economici lì, quindi lasciamoli nel loro brodo e non ne parliamo neanche.
A farmi rimanere perplessa non era stato il rifiuto. Di quelli ne arrivano tanti e, anche se ovviamente ci si spera sempre, a quello si può anche essere preparati. Ciò che mi ha colpito è quella parte della frase, too far from the concerns. Di quale lontananza stiamo parlando? Di quella geografica che riesce a coinvolgere le persone solo se capita una tragedia a qualche centinaio di chilometri dalla propria casa? Di quella economica che distingue tra quello che può avere conseguenze dirette sui bilanci di uno stato e quello che no? Di quella che separa il mondo avanzato dal Terzo mondo? Di quella socio-culturale che mette da una parte ciò che è degno di rispetto e dall'altra ciò che è solo folkloristico? Di quella religiosa? Di quella storica e politica? Veramente, di quale lontananza parliamo? E perché alimentarla allora? I lettori non sono preoccupati da altre cose, non dovrebbero esserlo. I lettori - almeno, una gran parte di essi - si preoccupano delle cose che ricevono. È chiaro che non possono preoccuparsi di quelle che non potranno mai conoscere. E non è vero neanche che se le leggessero, non ne sarebbero interessate. Tutte le persone alle quali ho parlato delle storie non pubblicate che conosco ne avrebbero voluto sapere di più. Ne sono rimaste impressionate, e quel che è peggio è che non immaginavano che potessero esistere situazioni del genere.
Il mestiere del giornalista è quello di trovare storie da portare al pubblico. Il suo dovere è di essere testimone della storia che avviene sotto i suoi occhi, giorno per giorno. Non la storia dei politici e politicanti, non quella che vogliono darci a bere dai grandi pulpiti, ma quella che vivono i singoli che non hanno microfoni davanti alla bocca. Il dovere di un editore dovrebbe essere quello di dar loro la voce e, attraverso questa, coltivare la coscienza e il senso critico delle persone su quello che le riguarda, da vicino e da lontano. Non di decidere cosa li possa preoccupare o meno. Quello lo lascino poi decidere a lettori dagli orizzonti più aperti.
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