Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere, diceva Baudelaire. E secondo me un po' anche chi odia il Natale. Perchè quello non è il giorno in cui tutti sono più buoni - casomai buonisti - ma quello in cui si torna bambini. Al solo suono della parola "Natale", i primi pensieri portano a ricordi d'infanzia, quando le strade erano illuminate dalle lucine che io chiamavo natalini, si scriveva la letterina a Babbo Natale con tanto di disegni, si aspettava in cucina insieme ai cuginetti che arrivasse l'omone con la barba bianca, e allora si spegnevano tutte le luci e si sentiva tintinnare un mazzo di chiavi come fossero i campanelli della slitta. A Natale si poteva stare in piedi fino a oltre mezzanotte, ed era tardissimo. Da piccoli era più buono il Pandoro perchè non aveva i canditi, e invece adesso la maturità del gusto porta in vantaggio il Panettone. Chi odia il Natale è un po' come se odiasse l'infanzia.
E poi il Natale è il giorno in cui nessuno si deve permettere di rompere i coglioni. Per un giorno si mette da parte se stessi e ci si regala agli altri. Sì, ci sarà magari quel parente noioso che non a caso si vede solo una volta l'anno, si cucinerà per ore e per altrettante si stramazzerà con le gambe sotto il tavolo e lo stomaco al centro della Terra, tutti ti chiederanno come va il lavoro quando tu non sai nemmeno quale sia, e vorranno sapere del fidanzato che proteggi gelosamente dalle maree del parentame. Però ci saranno anche momenti che non ti aspettavi, ti arriveranno segnali da uno spazio che quotidianamente non esplori, e doni da persone davanti alle quali ti ritroverai, un po' imbarazzato, a mani vuote. E allora magari ti s'insinuerà qualche domanda in testa, mentre sorseggi l'amaro. Quanto è individuale la nostra vita? Quanto siamo disposti a far entrare l'altro? Quanto ad accettarne le differenze? Quanto siamo capaci di portare insieme a loro il dolore? Quali sono le soglie che pensavamo di non poter varcare e che invece possiamo oltrepassare? Perchè tutto deve essere solo questione di perdere o guadagnare? Cosa è veramente importante? Se proprio non si riesce a vivere il Natale come una festa, si può vederlo come un'occasione per camminare attraverso queste domande con chi ci è vicino. Basta non starsene sempre lì con le mani in tasca, e allungarne una.
A casa dei miei, ieri sera, ho guardato l'albero davanti alla portineria. Ci sono tre busti in gesso nel lungo corridoio che porta alle due rampe di scale del palazzo, e uno di essi si trova proprio accanto alla portineria. Quei regali alla base dell'albero mi hanno sempre fatto tristezza. Saranno scatole vuote ricoperte di carta colorata, ogni anno uguali e destinate a nessuno. Da piccola pensavo fossero i regali per i figli del portinaio. Temevo che qualcuno glieli portasse via nella notte, e che rimanessero senza. Anche il busto ha l'aria di chi è rimasto senza, e resta solo a guardare. Forse è questa sottile malinconia a rendere il Natale una non-festa per alcuni, quelli che sono rimasti senza qualcosa o qualcuno.
Però io sono felice, questo Natale. Ho tanto per cui ringraziare, tanto a cui essere vicina, tanto da guardare e di cui essere partecipe. Stamattina, mentre i miei erano a Messa, sono andata a vedere il presepe che avevano fatto in tutta fretta ieri. Alla base c'erano i regali che si erano fatti tra di loro. Mi è caduto l'occhio su un pacchetto fatto su in una busta dorata, con attaccato un bigliettino che diceva "Al mio grande amore". La grafia era quella di mia mamma. Quando più tardi papà lo ha aperto, ci ha trovato un berretto di lana fatto da lei all'uncinetto. Se l'è provato, l'ha tolto per controllare che non ci fosse un davanti e un didietro, e i capelli gli si sono tutti arruffati. Se l'è rimesso in testa con mia mamma che lo aiutava e si sono dati un bacio. Io ero sul divano che li guardavo, ma non avevo per niente l'aria di un busto di gesso.
In fotografia, f/64 è il valore di minima apertura del diaframma. Massimo dettaglio, visione profonda.
giovedì 25 dicembre 2014
lunedì 22 dicembre 2014
Dodici anni di gavettoni
Linklater non è come il vino, che migliora con il tempo. Non mi pare ci sia mai stato nella sua filmografia un punto di massimo da cui scendere, ma guardando Boyhood non posso che constatare un colossale scivolone di generale qualità cinematografica. L'ultimo capitolo della trilogia di Before (sunrise, sunset e midnight) è di una tale noia da competere con una coda alle poste, ma certo di fronte a un'unanimità così entusiastica per Boyhood da parte della critica non mi aspettavo un film così insulso.
Per chi non l'avesse visto, risparmiando 166 minuti di vita magari accanto a un inevitabilmente dormiente fidanzato, Boyhood è un film sulla crescita di un ragazzino americano nel contesto di una famiglia in reiterato sfascio. La particolarità che ha fatto gridare al miracolo è che il film è stato girato in un lasso di tempo di dodici anni (anche se i giorni effettivi di lavorazione sono stati solo 39, e si nota), utilizzando lo stesso cast che in tal modo si è visto realmente evolvere fisicamente. I bambini sono diventati adolescenti, gli adulti sono ingrassati, sono comparse le rughe.
Idea dal grande potenziale, quindi. Un progetto a lungo termine di tale portata avrebbe potuto segnare la storia del cinema, essere un esperimento dove verosimiglianza e verità potessero avvicinarsi davvero.
E invece si sono fatte le nozze coi fichi secchi.
Sceneggiatura inesistente, fiacca. Per raccontare il quotidiano e l'apparente nulla ci sono modi più efficaci, poetici, pregnanti. Si prenda Still life, di Uberto Pasolini, per citare un titolo recente. La vita di un impiegato del comune il cui compito è cercare i familiari di chi è morto in solitudine. L'uso dell'inquadratura, la luce, il suono (e non alludo alla colonna sonora), la recitazione. Una meraviglia. In Boyhood manca tutto. Non c'è regia. Nessuna inquadratura o sequenza interessante: non dico arrivare alle sgrandangolate nauseanti di un Malick, o alle prospettive hipster di Wes Anderson, ma almeno provare ad avvicinarsi a qualcosa di meno impersonale si poteva anche fare.
Non c'è la recitazione, dote tanto invidiata agli americani dalle capre del cinema nostrano. Ethan Hawke ha lo stesso repertorio espressivo di Nicholas Cage. I dialoghi sono vuoti, fatti di niente, non portano ad alcuna riflessione. In dodici anni si poteva anche pensare per qualche minuto al contenuto, e invece no. Dedichiamoci ancora un po' ai tagli di capelli, i veri protagonisti della pellicola.
Non c'è scenografia. Non c'è costume, non c'è storia, non c'è l'evoluzione di una cultura in dodici anni - se non per qualche debole e stereotipato accenno a Bush e alla campagna elettorale di Obama. In dodici anni, a inizio millennio, quante cose sono cambiate? Possibile che nessuna sia stata meritevole di un'inquadratura, un cenno, un momento di gloria? Ah già, per qualche secondo si vedono i Pokemon. E i cellulari. La contestualizzazione è debole, le analisi sincronica e diacronica sono diluite nelle vicende di un ripetitivo piagnisteo sentimentale. Quello che invece non manca è tutto il repertorio degli stereotipi umani: il padre assente e irresponsabile che abbandona la famiglia, il professore che diventa ubriaco e violento, il soldato reduce dalla guerra in Medio Oriente, il college e il fancazzismo degli studenti, e via dicendo.
La colonna sonora, che avrebbe potuto supplire in qualche modo alle lacune della regia, è banale e non mostra neanche il minimo della ricerca. Sembra assemblata da un deejay alle prime armi al quale sia stato interdetto l'accesso a una qualsiasi fonte musicale pre-Coldplay. Ci si prova, senza successo, attraverso il personaggio interpretato da Hawke, con qualche strimpellata alla chitarra sul patio, tra canti stonati (che fanno tanto cinema-verità-semplicità) e teste ciondolanti che sbrodolano sorrisi buonisti.
Insomma, non mi piace l'idea di stroncare di netto il lavoro di qualcuno, specie sapendo che vi si è dedicato per dodici anni. Ma si poteva e si doveva pretendere molto di più da un proposito ambizioso come quello che ha ispirato il film. Non ci si poteva accontentare di un prodotto così mediocre e noioso, inconsistente e superficiale. Un'occasione sprecata, un amaro in bocca che permane fastidioso dopo la visione.
Boyhood è avere a disposizione un Barolo del secolo scorso e usarlo per riempirci i gavettoni.
Per chi non l'avesse visto, risparmiando 166 minuti di vita magari accanto a un inevitabilmente dormiente fidanzato, Boyhood è un film sulla crescita di un ragazzino americano nel contesto di una famiglia in reiterato sfascio. La particolarità che ha fatto gridare al miracolo è che il film è stato girato in un lasso di tempo di dodici anni (anche se i giorni effettivi di lavorazione sono stati solo 39, e si nota), utilizzando lo stesso cast che in tal modo si è visto realmente evolvere fisicamente. I bambini sono diventati adolescenti, gli adulti sono ingrassati, sono comparse le rughe.
Idea dal grande potenziale, quindi. Un progetto a lungo termine di tale portata avrebbe potuto segnare la storia del cinema, essere un esperimento dove verosimiglianza e verità potessero avvicinarsi davvero.
E invece si sono fatte le nozze coi fichi secchi.
Sceneggiatura inesistente, fiacca. Per raccontare il quotidiano e l'apparente nulla ci sono modi più efficaci, poetici, pregnanti. Si prenda Still life, di Uberto Pasolini, per citare un titolo recente. La vita di un impiegato del comune il cui compito è cercare i familiari di chi è morto in solitudine. L'uso dell'inquadratura, la luce, il suono (e non alludo alla colonna sonora), la recitazione. Una meraviglia. In Boyhood manca tutto. Non c'è regia. Nessuna inquadratura o sequenza interessante: non dico arrivare alle sgrandangolate nauseanti di un Malick, o alle prospettive hipster di Wes Anderson, ma almeno provare ad avvicinarsi a qualcosa di meno impersonale si poteva anche fare.
Non c'è la recitazione, dote tanto invidiata agli americani dalle capre del cinema nostrano. Ethan Hawke ha lo stesso repertorio espressivo di Nicholas Cage. I dialoghi sono vuoti, fatti di niente, non portano ad alcuna riflessione. In dodici anni si poteva anche pensare per qualche minuto al contenuto, e invece no. Dedichiamoci ancora un po' ai tagli di capelli, i veri protagonisti della pellicola.
Non c'è scenografia. Non c'è costume, non c'è storia, non c'è l'evoluzione di una cultura in dodici anni - se non per qualche debole e stereotipato accenno a Bush e alla campagna elettorale di Obama. In dodici anni, a inizio millennio, quante cose sono cambiate? Possibile che nessuna sia stata meritevole di un'inquadratura, un cenno, un momento di gloria? Ah già, per qualche secondo si vedono i Pokemon. E i cellulari. La contestualizzazione è debole, le analisi sincronica e diacronica sono diluite nelle vicende di un ripetitivo piagnisteo sentimentale. Quello che invece non manca è tutto il repertorio degli stereotipi umani: il padre assente e irresponsabile che abbandona la famiglia, il professore che diventa ubriaco e violento, il soldato reduce dalla guerra in Medio Oriente, il college e il fancazzismo degli studenti, e via dicendo.
La colonna sonora, che avrebbe potuto supplire in qualche modo alle lacune della regia, è banale e non mostra neanche il minimo della ricerca. Sembra assemblata da un deejay alle prime armi al quale sia stato interdetto l'accesso a una qualsiasi fonte musicale pre-Coldplay. Ci si prova, senza successo, attraverso il personaggio interpretato da Hawke, con qualche strimpellata alla chitarra sul patio, tra canti stonati (che fanno tanto cinema-verità-semplicità) e teste ciondolanti che sbrodolano sorrisi buonisti.
Insomma, non mi piace l'idea di stroncare di netto il lavoro di qualcuno, specie sapendo che vi si è dedicato per dodici anni. Ma si poteva e si doveva pretendere molto di più da un proposito ambizioso come quello che ha ispirato il film. Non ci si poteva accontentare di un prodotto così mediocre e noioso, inconsistente e superficiale. Un'occasione sprecata, un amaro in bocca che permane fastidioso dopo la visione.
Boyhood è avere a disposizione un Barolo del secolo scorso e usarlo per riempirci i gavettoni.
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