Le persone si dividono tra quelle che conosci e quelle che riconosci. Tra quelle che ti trovano e quelle che ti ritrovano. E' una questione di sensibilità all'esposizione. C'è chi è come la carta per stampare in camera oscura: una superficie su cui, sotto una determinata luce, s'imprime la memoria di qualcosa che già esisteva da qualche parte. L'intuizione di un'immagine su un negativo mai guardato, ancora prima dello sviluppo - quello della fotografia e quello dei rapporti. L'incontro quasi casuale, lo scambio di quella particolare luce che emana dagli occhi. Leggersi senza vedere i caratteri - quello delle parole e quello della personalità.
Questa ne è la fotografia, scattata da Chico De Luigi.
In fotografia, f/64 è il valore di minima apertura del diaframma. Massimo dettaglio, visione profonda.
venerdì 21 dicembre 2012
lunedì 17 dicembre 2012
Carverità
Chiunque voglia scrivere - ma anche fotografare - deve assolutamente leggere Niente trucchi da quattro soldi, di Raymond Carver. Io lo sto facendo per la terza volta, e ci sono frasi che non avevo ancora sottolineato nelle letture precedenti. Se scrivessi il post che questo libro meriterebbe, vi rovinerei completamente la scoperta di quelle parole. Non vi farò questo dispetto. Senza contare che diventerebbe davvero lunga, troppo per il blog. Ci sono però almeno un paio di punti che voglio estrapolare, perché credo possano essere utili anche a chi viene qui per leggere di fotografia e dintorni.
Carver, che oltre ad essere uno scrittore straordinario era anche docente di scrittura creativa, in un capitolo del libro affronta proprio il tema dell'insegnamento. Vi si legge:
Un buon insegnante di scrittura creativa può far risparmiare un sacco di tempo a chi ha la stoffa dello scrittore. Secondo me può far risparmiare un sacco di tempo anche a chi non ce l'ha, ma per ora lasciamo perdere questo discorso. Scrivere è un lavoro duro e solitario, ed è facilissimo imboccare la strada sbagliata. Se facciamo bene il nostro mestiere, noi insegnanti di scrittura creativa svolgiamo una funzione "in negativo" quanto mai necessaria. Se valiamo qualcosa come docenti, dovremmo insegnare ai giovani scrittori come non scrivere e metterli in grado di insegnarsi da soli come non scrivere.
Questa funzione "in negativo" è fondamentale. I migliori maestri che ho avuto in fotografia sono stati quelli che non mi hanno detto cosa dovevo fare, mettendomi invece in condizione di capire, nel tempo, cosa non andasse fatto. Essere in grado di insegnarsi da soli come non fare qualcosa è il livello massimo di consapevolezza che possa raggiungere chi provi a fare qualcosa (foto o romanzi, non importa) - nonché il punto di partenza per un professionista che valga. Si tratta di allenarsi a capire e capirsi, esercitare il distacco e l'obiettività, mettersi in discussione in senso assoluto e non solo relativamente a un giudizio esterno (positivo o negativo che sia, e trovo che entrambi siano pericolosi).
Il secondo punto riguarda quello che è un po' il cuore della visione di Carver: il famoso discorso del niente trucchi da quattro soldi. Riporto uno dei paragrafi probabilmente più significativi sull'onestà dello scrivere (continuate a vederla anche come onestà del fotografare):
Agli scrittori e agli aspiranti scrittori si possono insegnare alcune cose da non fare. Gli si può insegnare l'assoluta necessità di essere onesti nella scrittura, di non falsificarla. Uno scrittore non dovrebbe mai perdere di vista il senso ultimo del racconto. A me non interessano le narrazioni che sono tutta tecnica e niente sentimenti. Credo di essere tradizionalista quel tanto che basta da pensare che il lettore debba essere in qualche modo coinvolto a livello umano. E che ci sia ancora - o quantomeno dovrebbe esserci - un patto tra scrittore e lettore. La scrittura, come qualsiasi altra forma di sforzo creativo, non è solo espressione, è comunicazione. Quando uno scrittore smette di voler davvero comunicare e mira solamente a esprimere qualcosa, e neanche bene - be', si esprima pure andando fuori a urlare all'angolo della strada.
Un racconto o un romanzo o una poesia dovrebbero sferrare un certo numero di pugni all'emotività del lettore. Si può giudicare un'opera da quanto sono forti i suoi pugni e da quanti ne tira. Se si tratta solo di un mucchio di giochetti intellettuali, non mi interessa. Opere così sono come la paglia: volano via al primo venticello.
Delle fotografie non oneste non si finirebbe mai di parlare. Tutto normale, ci passiamo tutti. Alcuni rimangono lì per tutta la durata del loro percorso da fotografi, altri arrivano a insegnarsi da soli a non essere insinceri. Occorre tempo e impegno. La fotografia si presta facilissimamente ai famosi trucchi da quattro soldi. La prima cosa che verrebbe in mente in tema di trucchi è la postproduzione, ma io credo che sia soltanto una parte del problema - ed è prettamente formale, diciamo che mi pare la punta dell'iceberg. Il vero nodo in realtà sta molto più in profondità. Nel mare di immagini che abbiamo occasione di vedere, sapremmo dire quante sono le fotografie che ci tirano un pugno? Personalmente, direi pochissime. E questo perché la maggior parte delle foto che ci passano sotto il naso non sono sincere. Conosco bene il problema per esperienza personale - la sincerità delle foto è ciò su cui lavoro ormai da anni, e l'ho fatto anche smettendo di scattare per alcuni periodi. Perché me la prendo così a cuore? Perché se una foto non tira un pugno - attenzione, non intendo dire che debba essere violenta: anche una foto tenerissima può essere un gran pugno - è inutile. E l'inutilità di una foto è il suo peggior difetto. Foto così sono come la paglia: volano via al primo venticello. Per dirla con Carver, chi vuole esprimersi vada pure a fare le foto all'angolo della strada: certe immagini non servono a nessuno, perché non esercitano una comunicazione. Spesso sono maschere, nient'altro che la paradossale manifestazione di un nascondiglio. E in ogni caso sono pura espressione, non creano un ponte con lo spettatore: rimangono semplici elucubrazioni onanistiche. Ogni giorno guardo con perplessità fotografie davanti a cui mi chiedo: "Ma cosa mi rappresenta? Perché il soggetto sta facendo quel che sta facendo? Qual è il punto?". E il problema è che spesso nemmeno il fotografo lo sa, quale sia il punto. Perché non sa cosa sia un pugno. Ne ha ricevuti, certamente - chissà quante foto di grandi ha visto per alimentare la sua passione - ma non ne ha mai dati. A tirare di boxe si può insegnare, ma non è solo questione di tecnica. Ora, io non so nulla di questo sport e magari mi sbaglierò, ma immagino che una cosa importante da imparare non sia solo come si tiri un pugno, ma soprattutto cosa significhi colpire. E' un'intuizione, come succede nella scrittura o nella fotografia: d'un tratto capisci cosa stai facendo, ne trovi il senso. E la cosa è così forte che arriva persino a portarti lei stessa, una volta che ci sei salito in groppa: perché hai imparato come si fa, e sei in grado di replicare attivamente il meccanismo ogni volta che ti serve.
Se il talento è quella cosa che ti attraversa senza sforzo, l'onestà è il suo mezzo di trasporto. Il suo cavallo al galoppo. Arrivare a insegnarsi da soli a essere onesti è il punto. Chiamiamola pure Carverità.
Carver, che oltre ad essere uno scrittore straordinario era anche docente di scrittura creativa, in un capitolo del libro affronta proprio il tema dell'insegnamento. Vi si legge:
Un buon insegnante di scrittura creativa può far risparmiare un sacco di tempo a chi ha la stoffa dello scrittore. Secondo me può far risparmiare un sacco di tempo anche a chi non ce l'ha, ma per ora lasciamo perdere questo discorso. Scrivere è un lavoro duro e solitario, ed è facilissimo imboccare la strada sbagliata. Se facciamo bene il nostro mestiere, noi insegnanti di scrittura creativa svolgiamo una funzione "in negativo" quanto mai necessaria. Se valiamo qualcosa come docenti, dovremmo insegnare ai giovani scrittori come non scrivere e metterli in grado di insegnarsi da soli come non scrivere.
Questa funzione "in negativo" è fondamentale. I migliori maestri che ho avuto in fotografia sono stati quelli che non mi hanno detto cosa dovevo fare, mettendomi invece in condizione di capire, nel tempo, cosa non andasse fatto. Essere in grado di insegnarsi da soli come non fare qualcosa è il livello massimo di consapevolezza che possa raggiungere chi provi a fare qualcosa (foto o romanzi, non importa) - nonché il punto di partenza per un professionista che valga. Si tratta di allenarsi a capire e capirsi, esercitare il distacco e l'obiettività, mettersi in discussione in senso assoluto e non solo relativamente a un giudizio esterno (positivo o negativo che sia, e trovo che entrambi siano pericolosi).
Il secondo punto riguarda quello che è un po' il cuore della visione di Carver: il famoso discorso del niente trucchi da quattro soldi. Riporto uno dei paragrafi probabilmente più significativi sull'onestà dello scrivere (continuate a vederla anche come onestà del fotografare):
Agli scrittori e agli aspiranti scrittori si possono insegnare alcune cose da non fare. Gli si può insegnare l'assoluta necessità di essere onesti nella scrittura, di non falsificarla. Uno scrittore non dovrebbe mai perdere di vista il senso ultimo del racconto. A me non interessano le narrazioni che sono tutta tecnica e niente sentimenti. Credo di essere tradizionalista quel tanto che basta da pensare che il lettore debba essere in qualche modo coinvolto a livello umano. E che ci sia ancora - o quantomeno dovrebbe esserci - un patto tra scrittore e lettore. La scrittura, come qualsiasi altra forma di sforzo creativo, non è solo espressione, è comunicazione. Quando uno scrittore smette di voler davvero comunicare e mira solamente a esprimere qualcosa, e neanche bene - be', si esprima pure andando fuori a urlare all'angolo della strada.
Un racconto o un romanzo o una poesia dovrebbero sferrare un certo numero di pugni all'emotività del lettore. Si può giudicare un'opera da quanto sono forti i suoi pugni e da quanti ne tira. Se si tratta solo di un mucchio di giochetti intellettuali, non mi interessa. Opere così sono come la paglia: volano via al primo venticello.
Delle fotografie non oneste non si finirebbe mai di parlare. Tutto normale, ci passiamo tutti. Alcuni rimangono lì per tutta la durata del loro percorso da fotografi, altri arrivano a insegnarsi da soli a non essere insinceri. Occorre tempo e impegno. La fotografia si presta facilissimamente ai famosi trucchi da quattro soldi. La prima cosa che verrebbe in mente in tema di trucchi è la postproduzione, ma io credo che sia soltanto una parte del problema - ed è prettamente formale, diciamo che mi pare la punta dell'iceberg. Il vero nodo in realtà sta molto più in profondità. Nel mare di immagini che abbiamo occasione di vedere, sapremmo dire quante sono le fotografie che ci tirano un pugno? Personalmente, direi pochissime. E questo perché la maggior parte delle foto che ci passano sotto il naso non sono sincere. Conosco bene il problema per esperienza personale - la sincerità delle foto è ciò su cui lavoro ormai da anni, e l'ho fatto anche smettendo di scattare per alcuni periodi. Perché me la prendo così a cuore? Perché se una foto non tira un pugno - attenzione, non intendo dire che debba essere violenta: anche una foto tenerissima può essere un gran pugno - è inutile. E l'inutilità di una foto è il suo peggior difetto. Foto così sono come la paglia: volano via al primo venticello. Per dirla con Carver, chi vuole esprimersi vada pure a fare le foto all'angolo della strada: certe immagini non servono a nessuno, perché non esercitano una comunicazione. Spesso sono maschere, nient'altro che la paradossale manifestazione di un nascondiglio. E in ogni caso sono pura espressione, non creano un ponte con lo spettatore: rimangono semplici elucubrazioni onanistiche. Ogni giorno guardo con perplessità fotografie davanti a cui mi chiedo: "Ma cosa mi rappresenta? Perché il soggetto sta facendo quel che sta facendo? Qual è il punto?". E il problema è che spesso nemmeno il fotografo lo sa, quale sia il punto. Perché non sa cosa sia un pugno. Ne ha ricevuti, certamente - chissà quante foto di grandi ha visto per alimentare la sua passione - ma non ne ha mai dati. A tirare di boxe si può insegnare, ma non è solo questione di tecnica. Ora, io non so nulla di questo sport e magari mi sbaglierò, ma immagino che una cosa importante da imparare non sia solo come si tiri un pugno, ma soprattutto cosa significhi colpire. E' un'intuizione, come succede nella scrittura o nella fotografia: d'un tratto capisci cosa stai facendo, ne trovi il senso. E la cosa è così forte che arriva persino a portarti lei stessa, una volta che ci sei salito in groppa: perché hai imparato come si fa, e sei in grado di replicare attivamente il meccanismo ogni volta che ti serve.
Se il talento è quella cosa che ti attraversa senza sforzo, l'onestà è il suo mezzo di trasporto. Il suo cavallo al galoppo. Arrivare a insegnarsi da soli a essere onesti è il punto. Chiamiamola pure Carverità.
martedì 11 dicembre 2012
Le chiavi di casa mia
Domenica mattina, piove. Scrollo l'ombrello e lo arrotolo bagnandomi le mani. Le agito nell'aria per asciugarle, mentre per l'ennesima volta guardo il mio amato Duomo. Ho appuntamento con un amico davanti alla Mondadori. Guardo l'ora, nonostante la pioggia ho spaccato il minuto. Al riparo di quel portico, mentre me ne sto con le cuffie sulle orecchie, d'un tratto sento un rumore. Un suono prolungato, che da vibrazione diventa melodia. Spengo l'iPod, mi volto e vedo alle mie spalle un ragazzo che canta suonando la chitarra. C'è un amplificatore e, aperta di fronte a lui, per terra, la custodia rigida dello strumento. Una piccola siepe di gente ascolta, in piedi a semicerchio attorno a lui. La voce è di quelle che ti parlano immediatamente: calda, abile, diretta, vera. La musica è pulita, fatta di poco eppure di molto. Sorrido di questi momenti di vita cittadina che ti sorprendono così, all'improvviso, e ti regalano qualcosa senza che tu lo chieda. La canzone è Yellow dei Coldplay. Mi ritrovo a sperare che il mio amico tardi ancora un po', perchè la voglio proprio ascoltare tutta, da sola. E invece arriva, ma non mi porta via. Mi dice anzi che lo conosce. "Si chiama Matteo Terzi, l'ho già visto qualche volta suonare qua e là a Milano. Ha girato mezza Europa suonando per strada. Un grande." Ascoltiamo ancora una canzone per intero, poi mi avvicino alla fonte di musica, prendo uno dei cd demo appoggiati sulla custodia della chitarra e ci faccio cadere una banconota. Matteo mi fa un cenno con la testa mentre continua a cantare, e ringrazia con un sorriso tra le parole. Poi, un po' a malincuore, con il mio amico ci incamminiamo in direzione opposta, lasciando la musica a sfumare sullo sfondo di una Milano umida e calma.
Matteo Terzi, in arte Soltanto, l'ho ritrovato su Facebook. Oltre al profilo personale, ha una pagina che gli serve da bacheca: date dei concerti per strada, riprese video e lettere che riceve dai suoi fan. Stasera mi è caduto l'occhio su un link che ha pubblicato. Porta a una pagina del sito Musicraiser - When fans are music, una piattaforma di crowdfunding che permette ad artisti emergenti di farsi finanziare un progetto da dei fan-donatori. Quello di Matteo si chiama Le chiavi di casa mia, che poi è il titolo dell'album che vorrebbe incidere. Ci sono diverse soglie di contribuzione e ognuna di esse prevede una "ricompensa" che l'artista s'impegna a fornire ad ognuno dei suoi raiser: download gratuito del cd, copie autografate, scrittura di una canzone specificamente per un fan, persino un concerto privato o una settimana on the road con lui. In testa alla pagina c'è un video di presentazione di Matteo, dove racconta la sua storia di musicista itinerante. La scelta di suonare a contatto costante con la gente, per strada, assaporando tutto quello che quest'ultima gli dà. E quello che davvero vince, e avvince, è la semplicità. L'umiltà, la voglia di mettersi in gioco, il suono avvolgente della passione. Mi ha tirato dalla sua parte come una mano allungata dallo schermo, e nella mia c'era già quanto avevo deciso di destinare al finanziamento del suo progetto. Manca pochissimo al raggiungimento della soglia minima degli 8.000€ che gli occorrono, e dovrà farcela entro fine anno. In caso contrario, non riceverà un centesimo. Musicraiser funziona così, impietoso e generoso al tempo stesso. Come, del resto, è il mercato.
Nessuna energia è trascinante come quella di qualcuno che crede, con grande coraggio, nella realizzazione del proprio sogno. Soprattutto quando per farlo decide di scendere in strada e cantarlo a gran voce a tutti quelli che passano e si fermano a capirlo, nel tempo di una canzone.
Fatelo anche voi. Per lui e per voi stessi.
Matteo Terzi, in arte Soltanto, l'ho ritrovato su Facebook. Oltre al profilo personale, ha una pagina che gli serve da bacheca: date dei concerti per strada, riprese video e lettere che riceve dai suoi fan. Stasera mi è caduto l'occhio su un link che ha pubblicato. Porta a una pagina del sito Musicraiser - When fans are music, una piattaforma di crowdfunding che permette ad artisti emergenti di farsi finanziare un progetto da dei fan-donatori. Quello di Matteo si chiama Le chiavi di casa mia, che poi è il titolo dell'album che vorrebbe incidere. Ci sono diverse soglie di contribuzione e ognuna di esse prevede una "ricompensa" che l'artista s'impegna a fornire ad ognuno dei suoi raiser: download gratuito del cd, copie autografate, scrittura di una canzone specificamente per un fan, persino un concerto privato o una settimana on the road con lui. In testa alla pagina c'è un video di presentazione di Matteo, dove racconta la sua storia di musicista itinerante. La scelta di suonare a contatto costante con la gente, per strada, assaporando tutto quello che quest'ultima gli dà. E quello che davvero vince, e avvince, è la semplicità. L'umiltà, la voglia di mettersi in gioco, il suono avvolgente della passione. Mi ha tirato dalla sua parte come una mano allungata dallo schermo, e nella mia c'era già quanto avevo deciso di destinare al finanziamento del suo progetto. Manca pochissimo al raggiungimento della soglia minima degli 8.000€ che gli occorrono, e dovrà farcela entro fine anno. In caso contrario, non riceverà un centesimo. Musicraiser funziona così, impietoso e generoso al tempo stesso. Come, del resto, è il mercato.
Nessuna energia è trascinante come quella di qualcuno che crede, con grande coraggio, nella realizzazione del proprio sogno. Soprattutto quando per farlo decide di scendere in strada e cantarlo a gran voce a tutti quelli che passano e si fermano a capirlo, nel tempo di una canzone.
Fatelo anche voi. Per lui e per voi stessi.
lunedì 3 dicembre 2012
Primavera invernale
Questa volta il foglio bianco mi appare proprio come tale. Come annerirlo non è una decisione, oggi - non potrebbe ancora esserlo.
Non scrivo da un mese, qui. Nella testa moltissimo, nel cuore anche. La mia voce è però diversa da prima: ha un altro timbro, un ritmo più lento e al tempo stesso più veloce. Ha persino un altro nome.
La parola condivisione ha per me nuovi tratti, da qualche mese a questa parte. Se fosse una matita, alternerebbe mine di grafite B e H in proporzioni simili. Ci sono durezza e morbidezza, secondo i momenti.
Di tutto questo non faccio uscire molto, la riservatezza che mi è propria risulta ora particolarmente acuita. A me va bene, forse a certi altri un po' meno. Non importa, adesso deve essere così. Non preoccupatevi, e non interrogatemi troppo, perchè molte risposte le sto ancora cercando.
In un modo del tutto nuovo, sono felice. Non è sempre e per forza un sorriso, direi piuttosto un insieme di consapevolezze.
La fotografia mi è lontana, almeno per come la intendevo prima. Ho in cantiere un altro esprimermi con le immagini, ma, a parte quella d'inizio lavori, non ci sono altre date sul cartello che vi campeggia fuori. Parlando con gli amici, continuo a dire che non scatto da mesi: in realtà non è proprio così. Sto invece facendo cose qua e là, a cui non do molta importanza perchè talmente istintive da non essere prese sul serio - almeno, non come facevo prima - e invece credo che siano abbastanza interessanti, se non altro in potenza. Non tanto e non sempre per il risultato in sè, ma per il modo, per l'approccio. Perchè vengono da un luogo di me che stava sotto, dietro, oltre, e ora stanno lasciando la dependence per prendere residenza nella casa di me.
La parola mi accompagna quotidianamente. Ho iniziato a scrivere qualche recensione per un sito di cinema, leggo moltissimo. E' come se scoprissi per la prima volta cose che esistono da sempre. Perchè, ancora una volta, non è il cosa ma il come.
Tutto questo richiede tanto tempo, risorsa purtroppo sempre scarsa, e da qualche parte devo tagliare.
Sto lavorando per una me che non conoscete e che io stessa sto ancora provando a fare uscire. Non sentitevi trascurati, anche se nei fatti forse un po' lo siete. Ho chi mi protegge. E in fondo la libertà di ognuno sta anche nel rivendicare la necessità di stare con se stesso e pochi altri, in certi momenti della vita. Non è isolamento, è raccoglimento.
Quando penso a quello che mi sta succedendo in questi mesi, mi sembra di non avere in mano nulla. Non sto lavorando su progetti specifici, a stento capisco cosa davvero m'interessi. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che, paradossalmente, è anche un momento di forte creatività, perchè ogni divenire presto o tardi dà nuovi frutti. Si tratta solo di ascoltarli, mentre crescono in apparente silenzio.
Non scrivo da un mese, qui. Nella testa moltissimo, nel cuore anche. La mia voce è però diversa da prima: ha un altro timbro, un ritmo più lento e al tempo stesso più veloce. Ha persino un altro nome.
La parola condivisione ha per me nuovi tratti, da qualche mese a questa parte. Se fosse una matita, alternerebbe mine di grafite B e H in proporzioni simili. Ci sono durezza e morbidezza, secondo i momenti.
Di tutto questo non faccio uscire molto, la riservatezza che mi è propria risulta ora particolarmente acuita. A me va bene, forse a certi altri un po' meno. Non importa, adesso deve essere così. Non preoccupatevi, e non interrogatemi troppo, perchè molte risposte le sto ancora cercando.
In un modo del tutto nuovo, sono felice. Non è sempre e per forza un sorriso, direi piuttosto un insieme di consapevolezze.
La fotografia mi è lontana, almeno per come la intendevo prima. Ho in cantiere un altro esprimermi con le immagini, ma, a parte quella d'inizio lavori, non ci sono altre date sul cartello che vi campeggia fuori. Parlando con gli amici, continuo a dire che non scatto da mesi: in realtà non è proprio così. Sto invece facendo cose qua e là, a cui non do molta importanza perchè talmente istintive da non essere prese sul serio - almeno, non come facevo prima - e invece credo che siano abbastanza interessanti, se non altro in potenza. Non tanto e non sempre per il risultato in sè, ma per il modo, per l'approccio. Perchè vengono da un luogo di me che stava sotto, dietro, oltre, e ora stanno lasciando la dependence per prendere residenza nella casa di me.
La parola mi accompagna quotidianamente. Ho iniziato a scrivere qualche recensione per un sito di cinema, leggo moltissimo. E' come se scoprissi per la prima volta cose che esistono da sempre. Perchè, ancora una volta, non è il cosa ma il come.
Tutto questo richiede tanto tempo, risorsa purtroppo sempre scarsa, e da qualche parte devo tagliare.
Sto lavorando per una me che non conoscete e che io stessa sto ancora provando a fare uscire. Non sentitevi trascurati, anche se nei fatti forse un po' lo siete. Ho chi mi protegge. E in fondo la libertà di ognuno sta anche nel rivendicare la necessità di stare con se stesso e pochi altri, in certi momenti della vita. Non è isolamento, è raccoglimento.
Quando penso a quello che mi sta succedendo in questi mesi, mi sembra di non avere in mano nulla. Non sto lavorando su progetti specifici, a stento capisco cosa davvero m'interessi. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che, paradossalmente, è anche un momento di forte creatività, perchè ogni divenire presto o tardi dà nuovi frutti. Si tratta solo di ascoltarli, mentre crescono in apparente silenzio.
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