Inquadratura dei piedi di una donna sdraiata, coperta da una lenzuolo bianco. Sullo sfondo una croce, un vaso di fiori, una tubatura che scende dall'alto. Nient'altro. E' morta da poco Elide Battacchi, prostituta d'alto bordo. Escono di scena gli uomini riuniti attorno a lei per il riconoscimento del cadavere, e questa è la storia. Poi entra l'occhio del regista: carrello, la telecamera si sposta leggermente a destra. Non di molto - quel tanto che basta per dire qualcos'altro, oltre i fatti. Silenzio. Il fotogramma è perfetto, ora. L'intenzione è stata espressa, il mestiere esercitato.
Il povero soldato è uno degli episodi del film
I mostri di Dino Risi, che mi sono guardata dopo aver finito di leggere la sua autobiografia,
I miei mostri. Nessuno sforzo per trovare i collegamenti, le due opere parlano la stessa lingua. Cinismo, imprevedibilità. Un modo di mettere in scena diretto, essenziale, basato sulla sostanza più che sulla forma. I dialoghi, i personaggi, l'interazione: è tutto lì, e t'inchioda irrimediabilmente alla poltrona. Roba che Hollywood se la sogna, proprio - e il film è del 1963.
Il libro. Ricchissimo, appassionante, tenero, ironico, destrutturato, meravigliosamente semplice. Sa gettare in una malinconia agrodolce o in una liberatoria risata, ti fa alzare le sopracciglia e annuire tra te e te. Come il film, ti proietta in quella Roma inizio anni '60 che non hai mai conosciuto, in un residence vista Bioparco di Villa Borghese.
Leggere il libro di un regista significa ascoltare e vedere le cose nello stesso momento. Risi racconta magistralmente, senza però avere alcuna pretesa. Non sembra che voglia farsi bello delle persone che ha frequentato, delle donne che ha avuto, del modo in cui ha vissuto. Lui dice e basta, con sincerità, quasi come se parlasse a se stesso.
Ci sono racconti, aforismi, appunti di qualsiasi genere. Episodi che sembrano non finiti, lasciati in sospeso. Come lo è la vita, in fondo. I giorni non si concludono mai veramente.
E' raro che io lo dica, ma mentre lo leggevo avrei voluto che non finisse mai. E' uno di quei libri che ti mettono voglia di scrivere. Di fare, di vivere, di scoprire, di avventurarsi anche solo nel quotidiano. Ti fa capire che il mondo può essere tutto nel posto in cui sei, e allo stesso tempo in qualsiasi altrove. Che le circostanze ambientali sono cose della mente, che tutto dipende da quello che sogni, da quello che immagini, da quello che ti piace, da quello che concedi a te stesso e agli altri. Capisci che gli artisti veri, i geni, sono molto di più di ciò che ci hanno mostrato attraverso le loro opere imperiture. Molto, molto di più.
Non c'è alcun senso di colpa nella verità. Tutto va, e andrà, con quella semplicità del saper guardare. La bellezza dell'accogliere stranezze e perversioni. Perchè la vita è tutto e il suo contrario, e ogni mondo è degno di esistere perchè ha un
perchè, chiaro o meno che sia. Basta sentirlo.
Questo libro mostra la sincerità di un uomo che sa raccontare la vita. Che è quello che dev'essere, a patto che sia davvero la nostra.
Non c'è altro da dire, solo da leggere.
"E la chiamano estate..."
Mi piace l'estate, quando le ragazze vanno per la strada in sottoveste, quando le bruttine diventano carine e le carine diventano belle, i ministri e i sottosegretari sono abbronzati, le annunciatrici e gli annunciatori in televisione hanno cambiato faccia, sappiamo tutto sulle balene e sugli amori degli elefanti, i topi attraversano le strade, rivediamo Walter Chiari, Tognazzi e Vianello, i semafori segnano giallo, Bruno Martino canta: "E la chiamano estate, / questa estate, senza te...". La domenica poche macchine percorrono Roma come cani senza collare. Il solito delitto dell'estate continua a negarsi. Verso l'una il mare sul litorale comincia a tingersi di un bel giallo pipì.
Dalle case vuote abbaiano i cani e suonano inutilmente le sirene d'allarme. Sul "Corriere" Enzo Biagi scrive il solito articolo in cui dice che il seno è uno, ma per fortuna sono due. Fotografato in via dei Fori Imperiali, un romano vestito da antico gladiatore col figlio per mano che va al lavoro davanti al Colosseo. A un'edicola un turista domanda: "Sa dov'è Via Gramsci?".
Il giornalaio piegato dalla canicola, inondato di sudore, risponde a mezza voce: "Lo so, ma nun me va de dillo...".
I ristoranti chiudono. La mia portiera va a Cuba, il mio barbiere alle isole Figi, la donna delle pulizie a Pechino. Io andrei a Fregene da amici, se non sapessi che hanno invitato il fiscalista coi suoi cinque figli. Mai ammalarsi da luglio a settembre. Mai morire di Ferragosto. I ladri non vanno in vacanza. Gli assassini sì. L'Ufficio Imposte aspetta che abbiate chiuso la valigia per farvi arrivare un tributo di qualche migliaio di euro per qualche omesso o carente versamento IRPEF e IVA nell'anno 1993.
Così va la vita nell'anno del Signore 2003. Il Tour è finito con la vittoria per il quinto anno consecutivo dell'americano Armstrong. Stragi in Liberia. E le donne hanno paura di ingrassare.
(Dino Risi, "I miei mostri", Mondadori 2004)