Stasera ero qui a sbrigare qualche faccenda pseudo-lavorativa con la tv accesa, appena finito un film su Iris - una delle poche reti che proponga cose guardabili. Giro il canale e finisco sui titoli iniziali di un film della Comencini, nello specifico "Mi piace lavorare (mobbing)". Fin dalle prime scene un senso di disagio mi percorre la schiena. Avete presente i barboni che ogni tanto salgono sui mezzi e ancora prima di averli visti ti accorgi della loro presenza per via della puzza? Ecco, le produzioni italiane hanno quella roba lì: nella maggioranza dei casi ti urtano immediatamente, come se fossero tutte pervase da qualcosa che le rende uguali una all'altra negli aspetti peggiori. Prima fra tutte la recitazione. Non voglio accanirmi sulla protagonista del suddetto film perché sarebbe come sparare sulla Croce rossa, ma l'esempio è sotto il naso e non posso non coglierlo. Nicoletta Braschi parla come se avesse qualcosa in bocca, ma non di forma smussata e gestibile: somiglia più a un oggetto spigoloso, che lei non sa bene dove mettere. E la Braschi dovrebbe essere la "star" del film, perché gli altri sono attori sconosciuti. I dialoghi sono imbarazzanti, tutti cercano di fare i naturali-grezzi ma fanno delle pause che nessuno fa mai quando parla normalmente. È tutto costruito, forzato, niente scivola. Quando penso a Ferruccio Amendola che doppia De Niro sembra il motore di una Ferrari, ed è qui che inizio a deprimermi. Perché mi chiedo dove sia finito il buon cinema italiano, e intendo sia quello di prima categoria, il più conosciuto, quello dei grandi registi noti a tutti, sia quello considerato di serie B. Mi chiedo quando tutto abbia iniziato ad andare a catafascio. Gli anni '70 e '80 sono stati decenni di forte identità culturale, e hanno prodotto cose senza dubbio interessanti in ogni campo. Non a caso, sono fonte d'ispirazione per qualsiasi revival e oggetto di innumerevoli citazioni di qualità. Il declino è iniziato negli anni '90, e io me li ricordo perché sono stati proprio quelli i "miei" anni, quelli in cui cominciava l'adolescenza e il conseguente risveglio dal torpore critico dell'infanzia. E mi chiedevo, giuro, lo facevo: ok, i settanta e gli ottanta sono stati decenni chiarissimi, importantissimi, così definiti, ma i novanta... cosa sono? Senza scherzi, cosa li avrebbe resi indimenticabili? Io li stavo vivendo e non riuscivo a dire cosa, veramente, rappresentassero. Internet nelle case ancora non c'era, e le finestre sul mondo erano rappresentate soprattutto dalla tv. Tutti sappiamo cosa si stesse sviluppando proprio in quegli anni nella televisione italiana, e ad opera di chi, ma non sono qui a far polemica politica. Il mio discorso vuole essere più ampio. Seppur priva degli strumenti critici che mi permettessero di comprendere quello che stava accadendo intorno a me, capivo che qualcosa si stava perdendo per strada. I novanta per me sono stati anni subdoli, perché covavano una trasformazione culturale che si sarebbe poi realizzata pienamente solo nel nuovo millennio, ma lo facevano zitti zitti, a piccoli passi, senza le forme eclatanti e le tinte forti dei decenni che li avevano preceduti. E mentre tu eri preso a distrarti con le modernità su larga scala che lentamente miglioravano gli aspetti pratici della vita quotidiana, le automobili cominciavano a smussare i propri angoli. Che belle erano invece le auto di un tempo. Avete presente quando capita di vedere vecchie fotografie e ci sono dentro delle macchine? Ci stavano da Dio. Erano belle, un design fantastico. Una popolazione urbana esse stesse, con un carattere forte. Se guardate una foto scattata oggi e c'è dentro una macchina, la foto è rovinata. Fa proprio schifo! A me 'sta cosa della modernità che ha piallato tutto a partire dagli anni '90 amareggia sul serio. Io sto scrivendo questo pezzo ascoltando Stelvio Cipriani e Franco Micalizzi, e li ho scoperti guardando proprio i B-movie da cui i cosiddetti registi italiani dovrebbero imparare il proprio mestiere. È musica che ti porta in un altro mondo, e quando spegni è come se ti risvegliassi da un sogno e tornassi, deluso, alla realtà. Io avrei voluto appartenere alla generazione dei miei genitori, sicuramente mi avrebbe calzato meglio.
Ho abitato a Roma per otto anni con la voglia di tornare a Milano, e quando ho finalmente traslocato mi sono accorta che la mia città non era più quella che avevo vissuto prima di Roma. Saltando otto anni della sua storia ho reagito come quei parenti che non ti vedono per tanto tempo e ti dicono guarda come sei cresciuto, eri piscinin inscì! e quasi non ti riconoscono. Quando ci sono tornata a vivere, Milano era in piena beauty farm, tutta intenta a ripettinarsi. I vecchi riferimenti non c'erano più, i quartieri avevano preso nuove forme, e la cosa peggiore è che la città tutta - e le persone, anche - stava diventando come le macchine con gli angoli arrotondati che per me avevano segnato la rivoluzione estetica degli anni '90. Tutta altamente performante, la metropoli aspirazionale e ottimizzata, con tutte le cose al posto giusto, verso un'efficienza che però rimane velleitaria. Perché così com'è a me sembra tanto un trucco ricalcato su un make-up vecchio e sporco, che per pigrizia non si è prima ripulito. Immensa vetrina di una qualche idea che chissà da dove e perché abbiamo mutuato. Milano è infotografabile, se non ti cerchi i posti e i modi giusti - il che è già uno snaturare le cose. D'altro canto puoi fotografarne benissimo il disagio, ma ormai lo fanno tutti e tra l'altro, paradossalmente, è diventata anche questa una cosa un po' hipster.
Non posso dire di conoscerla a fondo perché come per i famosi barboni che puzzano uno cerca di non stargli troppo vicino, però Milano un po' l'ho girata. E ovunque vedi questi locali pretenziosetti, tutti fighettini e un po' hipster, wannabe design, una sorta di evoluzione mal riuscita del tu vuo' fa l'americano ma con la presunzione dell'eccellenza italiana - che poi cosa sarà mai tutta questa eccellenza? Questi posti, queste vie con tanta forma e nessuna anima. Dove sono finiti i contenuti in una realtà concentrata sui contenitori? Io sono una alla quale piace la sostanza. Sarà per questo che la mia testa non sta mai ferma, che rompo le palle criticando le cose, che ho una cabina armadio piena di vestiti che non uso più da quando non faccio più l'impiegata e mi metto sempre gli stessi due-tre jeans anche quando ho ormai cambiato taglia e mi scendono. Io con tutta 'sta città aerodinamica, i grattacieli vuoti, la settimana della moda con le blogger e le influencer che si fanno fotografare, 'sto cinema alla Paolo Sorrentino, la classe politica da puttanelle e risse da bar, questo grande videogame dove vince chi frega di più, tutta questa gente intorno a me che ci crede tanto ma che non si accorge di non credere più a niente, veramente... non c'entro niente. Non lo so dove debba andare, cosa debba fare, in quale nicchia infilarmi per non vedere tutte quelle macchine senza poesia nelle mie foto, per sfuggire ai nuovi linguaggi che servono solo a supplire a una mancanza di contenuti. Cosa mi fai vedere gli stuzzicadenti e le ciabatte dei migranti fotografati tutti dritti in pianta con le luci perfette, cosa mi stai raccontando del loro dramma, della loro storia? Su Time ancora gira una serie di foto, sempre sui migranti, che mostra le persone attraverso le zone di calore dei loro corpi nell'ambiente... Per non parlare di tutte quelle robe pittoriche iper-photoshoppate e orrende che sbancano i concorsi fotografici. Ma di cosa stiamo parlando? Dove stiamo andando? E poi siamo mangiati vivi dall'ansia del nuovo-ad-ogni-costo, con tutti che devono per forza emergere per dimostrare di non essere dei falliti.
Non posso dire di conoscerla a fondo perché come per i famosi barboni che puzzano uno cerca di non stargli troppo vicino, però Milano un po' l'ho girata. E ovunque vedi questi locali pretenziosetti, tutti fighettini e un po' hipster, wannabe design, una sorta di evoluzione mal riuscita del tu vuo' fa l'americano ma con la presunzione dell'eccellenza italiana - che poi cosa sarà mai tutta questa eccellenza? Questi posti, queste vie con tanta forma e nessuna anima. Dove sono finiti i contenuti in una realtà concentrata sui contenitori? Io sono una alla quale piace la sostanza. Sarà per questo che la mia testa non sta mai ferma, che rompo le palle criticando le cose, che ho una cabina armadio piena di vestiti che non uso più da quando non faccio più l'impiegata e mi metto sempre gli stessi due-tre jeans anche quando ho ormai cambiato taglia e mi scendono. Io con tutta 'sta città aerodinamica, i grattacieli vuoti, la settimana della moda con le blogger e le influencer che si fanno fotografare, 'sto cinema alla Paolo Sorrentino, la classe politica da puttanelle e risse da bar, questo grande videogame dove vince chi frega di più, tutta questa gente intorno a me che ci crede tanto ma che non si accorge di non credere più a niente, veramente... non c'entro niente. Non lo so dove debba andare, cosa debba fare, in quale nicchia infilarmi per non vedere tutte quelle macchine senza poesia nelle mie foto, per sfuggire ai nuovi linguaggi che servono solo a supplire a una mancanza di contenuti. Cosa mi fai vedere gli stuzzicadenti e le ciabatte dei migranti fotografati tutti dritti in pianta con le luci perfette, cosa mi stai raccontando del loro dramma, della loro storia? Su Time ancora gira una serie di foto, sempre sui migranti, che mostra le persone attraverso le zone di calore dei loro corpi nell'ambiente... Per non parlare di tutte quelle robe pittoriche iper-photoshoppate e orrende che sbancano i concorsi fotografici. Ma di cosa stiamo parlando? Dove stiamo andando? E poi siamo mangiati vivi dall'ansia del nuovo-ad-ogni-costo, con tutti che devono per forza emergere per dimostrare di non essere dei falliti.
Io oggi mi sento peggio di quando mi accorgevo che gli anni '90 ci stavano fregando tutti quanti. Perché almeno allora una speranza poteva ancora esserci, il punto di non ritorno non era ancora stato tracciato. Qualcuno stava affilando la mina nera, ma intanto dipingeva il resto con i colori dell'arcobaleno per distrarre il grande pubblico. Recentemente ho letto un articolo su un esperimento per mostrare gli effetti dell'LSD su una disegnatrice man mano che l'acido avanzava: di ora in ora, il suo autoritratto diventava sempre più pittoresco e assurdo, fino a far sparire persino gli occhi - perché, diceva l'autrice spiegando in seguito il senso di quella scelta, le sembrava che non servissero. A me sembra tanto che siamo sempre più sotto l'effetto di qualcosa di inebriante che man mano ci toglie gli occhi. E se è vero che bisogna sapersi evolvere, è altrettanto sacrosanto - almeno ogni tanto - tornare un po' alle origini. Come diceva quella tossica della Winehouse, back to black.