Il 22 dicembre, in spudorato anticipo, ho fatto il post di fine anno. Oggi, 31 dicembre, faccio quello del mio 33° compleanno, che sarà fra 3 giorni, il 3 gennaio. Non ho molto da dire, se non due cose: che stamattina guardandomi allo specchio non ho notato una sola ruga. Tengo botta gente, tengo botta alla grande. La seconda è che spesso si osserva come le persone anziane siano terribilmente simpatiche perchè (finalmente) dicono quello che pensano, senza troppi filtri, ed esprimono chiaramente le loro preferenze sulle persone che hanno intorno. Io, come ho detto - e lasciatemelo sottolineare quelle due-tre volte, perchè non so per quanto ancora durerà questa pacchia epidermica - non ho rughe, quindi anziana non mi posso proprio definire, però sulla mia pelle c'è un segno figurato del passaggio del tempo: sento che, contrariamente a qualche tempo fa, ho meno da dimostrare. E non perchè abbia meno da perdere: semplicemente m'importa molto meno di compiacere gli altri. Non sto parlando di libertà assoluta nelle cose, che è un'idea secondo me un po' infantile, ma di riconoscimento e accettazione della propria impronta nel farle, tanto nei modi quanto nella sostanza. La strada da fare per applicare pienamente nella pratica questo concetto è ancora lunga, ma per lo meno sono cosciente di averla imboccata.
Diventare più vecchi è bello (senza rughe ancora meglio).
In fotografia, f/64 è il valore di minima apertura del diaframma. Massimo dettaglio, visione profonda.
sabato 31 dicembre 2011
domenica 25 dicembre 2011
Within #16
Io lui lo conosco da quasi tre anni. E' uno di quelli che dividono e fanno discutere, un provocatore, uno che cerca di pensare out of the box e, quindi, una calamita di lodi e invettive. Per me, il primo giorno che l'ho incontrato, è stato un tizio alto e con gli occhiali dalla montatura nera che parlava di modelle ritratte come ragazze comuni, dal palco di Canon al mio primo Photoshow - tra l'altro, ricordo, un giorno freddo e piovoso; che a momenti manco ci andavo, al Photoshow. Poi ho scoperto che era anche uno con un blog attivo dal 2003, e me lo sono letto tutto. E' stato anche uno che quando l'ho contattato la prima volta mi ha risposto dall'altro capo del mondo per dirmi che scrivevo molto bene. E così, perchè no, ho aperto f/64. E poichè lui è anche una persona generosa, mi ha invitato ad assistere a un suo servizio fotografico: una giornata infinita che ancora ricordo nei minimi particolari. Lui è il fotografo che ha tenuto il mio primo workshock, durante il quale ho imparato a spogliarmi delle sovrastrutture e un bel po' di altre cose che da allora porto in ogni mia fotografia.
Ieri è stato uno che ha posato per me, con me. Di tutti i miei soggetti di Within/Dentro è tra quelli che meglio hanno colto il significato della mia ricerca: ha scelto con attenzione la musica, un pezzo di De Andrè - tra l'altro, uno dei miei preferiti e che ascoltavo molto quando ho avuto l'idea del progetto - che ha sparato a tutto volume; mi ha lasciato totale libertà nel suo studio, dove mi sono costruita un angolino simbolicamente perfetto, e non ha detto una sola parola per tutto il tempo degli scatti. Ma soprattutto ha lasciato emergere la sua umanità, aprendomi sfumature di dentro intense e diverse tra il primo e l'ultimo sguardo. In tre rulli ho messo la sincerità che ha voluto darmi quest'uomo, che alla fine ha ballato con me il valzer di De Andrè: Settimio Benedusi.
Ieri è stato uno che ha posato per me, con me. Di tutti i miei soggetti di Within/Dentro è tra quelli che meglio hanno colto il significato della mia ricerca: ha scelto con attenzione la musica, un pezzo di De Andrè - tra l'altro, uno dei miei preferiti e che ascoltavo molto quando ho avuto l'idea del progetto - che ha sparato a tutto volume; mi ha lasciato totale libertà nel suo studio, dove mi sono costruita un angolino simbolicamente perfetto, e non ha detto una sola parola per tutto il tempo degli scatti. Ma soprattutto ha lasciato emergere la sua umanità, aprendomi sfumature di dentro intense e diverse tra il primo e l'ultimo sguardo. In tre rulli ho messo la sincerità che ha voluto darmi quest'uomo, che alla fine ha ballato con me il valzer di De Andrè: Settimio Benedusi.
giovedì 22 dicembre 2011
La valigia della mente
Da circa un mese cammino in una zona sismica. Saltello da una placca all'altra con agilità sconosciuta e guardo gli edifici rovinare a distanza di sicurezza, finchè all'improvviso avverto un sibilo sospetto alle mie spalle. Provo a schivare quel detrito, ma non riesco ugualmente a evitare di graffiarmi. Mi fermo un momento per radunare i pensieri più preziosi da portare con me nel nuovo anno, casomai ci fossero altri crolli imprevisti dalle mie parti, e faccio la valigia della mente.
Prendo i ritratti del progetto Within e li dispongo per bene sul fondo, perchè sono quelli che vorrò vedere per ultimi quand'anche tutto il resto venisse portato via, a ricordarmi che sono stata capace di trasferire me stessa in qualcos'altro.
Sopra ci metto la gioia per il mio nuovo incarico lavorativo in Brand Image, che mi sono guadagnata con tenacia dopo quasi sette anni di Marketing: é un indumento bianco, ancora tutto da cucire, e reca solo l'imbastitura della fiducia istintiva accordatami dal mio futuro capo, che mi ha fortemente voluto tra i suoi.
Mi volto a guardare le amicizie, prelevando per prime dal mazzo le carte che a ogni partita mi capitano tra le mani facendomi capire il senso del giocare. Pesco poi le persone che mi sono d'ispirazione con il loro spirito non convenzionale e quelle che mi stanno aiutando a sentire Roma un po' meno come un letto di chiodi. Alcuni di quelli che in valigia ci stanno già li lascio lì dove sono, promuovendoli perchè il loro posto continuano a meritarselo ogni giorno; altri invece si renderanno conto di essere rimasti indietro perchè non mi ritroveranno tra i banchi quando torneranno in classe.
Porto con me la musica tutta, i biglietti lasciati dai miei genitori sul tavolo della cucina prima di partire e un filo di lucine da mettere in casa per accendere il tempo delle cose che mi arricchiscono davvero e spegnere quello perso in ciò che sembra erroneamente necessario.
Nella valigia della mente metto anche le due sceneggiature comprate a New York, perchè mi siano d'esempio per quella che scriverò nei prossimi mesi al corso.
Riservo una tasca esterna al rispetto per me stessa, in modo che sia sempre a portata di mano casomai qualcuno mi rubasse la chiave del lucchetto che chiude la borsa.
E siccome la Stelassa è tutto quello che non sa ancora di essere, aggiungo nel bagaglio anche una scatola vuota, dove mettere me stessa qualora volessi dimenticarmi per un momento di quello che sono già.
Prendo i ritratti del progetto Within e li dispongo per bene sul fondo, perchè sono quelli che vorrò vedere per ultimi quand'anche tutto il resto venisse portato via, a ricordarmi che sono stata capace di trasferire me stessa in qualcos'altro.
Sopra ci metto la gioia per il mio nuovo incarico lavorativo in Brand Image, che mi sono guadagnata con tenacia dopo quasi sette anni di Marketing: é un indumento bianco, ancora tutto da cucire, e reca solo l'imbastitura della fiducia istintiva accordatami dal mio futuro capo, che mi ha fortemente voluto tra i suoi.
Mi volto a guardare le amicizie, prelevando per prime dal mazzo le carte che a ogni partita mi capitano tra le mani facendomi capire il senso del giocare. Pesco poi le persone che mi sono d'ispirazione con il loro spirito non convenzionale e quelle che mi stanno aiutando a sentire Roma un po' meno come un letto di chiodi. Alcuni di quelli che in valigia ci stanno già li lascio lì dove sono, promuovendoli perchè il loro posto continuano a meritarselo ogni giorno; altri invece si renderanno conto di essere rimasti indietro perchè non mi ritroveranno tra i banchi quando torneranno in classe.
Porto con me la musica tutta, i biglietti lasciati dai miei genitori sul tavolo della cucina prima di partire e un filo di lucine da mettere in casa per accendere il tempo delle cose che mi arricchiscono davvero e spegnere quello perso in ciò che sembra erroneamente necessario.
Nella valigia della mente metto anche le due sceneggiature comprate a New York, perchè mi siano d'esempio per quella che scriverò nei prossimi mesi al corso.
Riservo una tasca esterna al rispetto per me stessa, in modo che sia sempre a portata di mano casomai qualcuno mi rubasse la chiave del lucchetto che chiude la borsa.
E siccome la Stelassa è tutto quello che non sa ancora di essere, aggiungo nel bagaglio anche una scatola vuota, dove mettere me stessa qualora volessi dimenticarmi per un momento di quello che sono già.
martedì 20 dicembre 2011
Within #15
Doug è un fotografo con la F maiuscola. Ci collaboro da anni, per conto della mia azienda - fu lui ad aprirmi il mondo dello still-life, per me sconosciuto fino a quel momento.
Quest'estate a New York, dove risiede, parlammo della mia fotografia, dei differenti approcci ad essa e di come questi riflettano la personalità di ognuno. Da quello che mi disse di sè, pensai subito che un ritratto per il mio progetto sarebbe stata un'esperienza interessante per entrambi, ma glielo proposi solo qualche mese dopo, qui a Roma: accettò, lusingato e incuriosito dal mio tentativo di sganciarlo dalle sue strutture razionali.
Doug non è mai stato abituato a che gli si prestasse completa attenzione: cresciuto con un fratello gemello, per lui il concetto di individuo a sè stante ha preso corpo solo con il progressivo allontanamento da quell'assetto famigliare. Nel tempo ha sviluppato una personalità fortemente ancorata allo scegliere con la testa, piuttosto che con la pancia. Questo è il motivo per cui l'ho ritratto: fare sì che si concedesse una corsa fuori dal recinto, giusto per sentire che aria tirasse.
Non ho scattato molto e parlato un po' di più del solito: era come se le fotografie in realtà fossero solo appunti che si collocavano negli spazi di mezzo, a completare i dialoghi nel silenzio dello sguardo.
Quando la persona ritratta non solo è lì ma vuole anche esserci, la foto arriva quasi subito.
Simon & Garfunkel - The Boxer.
Doug has never been accustomed to being paid full attention to: grown up with a twin brother, for him the concept of the individual in its own right has taken shape only with the gradual detachment from that familiar arrangement. Over time he developed a personality strongly anchored to choosing with the brain, rather than with the guts. This is the reason why I portrayed him: I wanted him to take a ride out of the fence and breathe that kind of air.
I haven't shot a lot and talked a little more than I usually do: it was as if the photographs were actually only notes filling the spaces inbetween, completing dialogues in the silence of the gaze.
When the person portrayed is not only there but also wants to be there, the photo comes almost immediately.
Simon & Garfunkel - The Boxer.
Quest'estate a New York, dove risiede, parlammo della mia fotografia, dei differenti approcci ad essa e di come questi riflettano la personalità di ognuno. Da quello che mi disse di sè, pensai subito che un ritratto per il mio progetto sarebbe stata un'esperienza interessante per entrambi, ma glielo proposi solo qualche mese dopo, qui a Roma: accettò, lusingato e incuriosito dal mio tentativo di sganciarlo dalle sue strutture razionali.
Doug non è mai stato abituato a che gli si prestasse completa attenzione: cresciuto con un fratello gemello, per lui il concetto di individuo a sè stante ha preso corpo solo con il progressivo allontanamento da quell'assetto famigliare. Nel tempo ha sviluppato una personalità fortemente ancorata allo scegliere con la testa, piuttosto che con la pancia. Questo è il motivo per cui l'ho ritratto: fare sì che si concedesse una corsa fuori dal recinto, giusto per sentire che aria tirasse.
Non ho scattato molto e parlato un po' di più del solito: era come se le fotografie in realtà fossero solo appunti che si collocavano negli spazi di mezzo, a completare i dialoghi nel silenzio dello sguardo.
Quando la persona ritratta non solo è lì ma vuole anche esserci, la foto arriva quasi subito.
Simon & Garfunkel - The Boxer.
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Doug is a photographer with a capital P. We have been collaborating for years on projects for my company - he was the one who opened my eyes on the world of still-life photography, unknown to me until then.
This summer in New York, where he lives, we talked of my photography, different approaches to it and how they reflect each one's personality. From what he told me of himself, I thought that a portrait for my project would be an interesting experience for both of us, but I suggested it to him only a few months later, here in Rome. He accepted, flattered and intrigued by my attempt to let him disengage from rational structures.Doug has never been accustomed to being paid full attention to: grown up with a twin brother, for him the concept of the individual in its own right has taken shape only with the gradual detachment from that familiar arrangement. Over time he developed a personality strongly anchored to choosing with the brain, rather than with the guts. This is the reason why I portrayed him: I wanted him to take a ride out of the fence and breathe that kind of air.
I haven't shot a lot and talked a little more than I usually do: it was as if the photographs were actually only notes filling the spaces inbetween, completing dialogues in the silence of the gaze.
When the person portrayed is not only there but also wants to be there, the photo comes almost immediately.
Simon & Garfunkel - The Boxer.
lunedì 19 dicembre 2011
Lungolungotevere
Lungolungotevere, il mio primo libro fotografico, è in vendita online a questo link.
Vagare per la città, come consumati dalla consuetudine, vedendo senza vedere e lasciandosi attraversare dai suoni, in un unico muto tumulto di vibrazioni. Un flusso di coscienza visivo in cui nulla rimane pienamente impresso, se non per qualche elemento che riconduce a strascichi di lucidità mentale.
Lungolungotevere, my first photo book, is available online for sale at this link.
Wandering through the city as if consumed by habit, seeing without seeing and letting sounds through the body, in one silent tumult of vibrations. A visual stream of consciousness in which nothing remains fully impressed, except for some elements that lead back to an aftermath of mental lucidity.
Vagare per la città, come consumati dalla consuetudine, vedendo senza vedere e lasciandosi attraversare dai suoni, in un unico muto tumulto di vibrazioni. Un flusso di coscienza visivo in cui nulla rimane pienamente impresso, se non per qualche elemento che riconduce a strascichi di lucidità mentale.
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Lungolungotevere, my first photo book, is available online for sale at this link.
Wandering through the city as if consumed by habit, seeing without seeing and letting sounds through the body, in one silent tumult of vibrations. A visual stream of consciousness in which nothing remains fully impressed, except for some elements that lead back to an aftermath of mental lucidity.
domenica 11 dicembre 2011
Within #12, 13, 14.
#12
Ovvero quando, con un'intera casa a disposizione, finisci per scattare dentro un armadio, sull'onda di una battuta presa sul serio. Inizialmente sto fuori, poi entro anch'io. Fa caldo, maniche di giacche e cappotti scendono su di noi, schiacciati in un metro quadrato. E' quasi buio, illumino Edoardo con l'iPhone e a tratti lo lascio fare a lui. L'oppressione dello spazio non soffoca la fiamma, che alla fine gli sfiora la bocca in una sigaretta. Depeche Mode - Personal Jesus.
#13
Alessandra Tecla Gerevini è una che pensa con la propria testa. Quel modo caparbio di seguire il filo delle sue inclinazioni mi ha conquistato immediatamente. Non ascolta mai una canzone più di un paio di volte e spera che alla fine della sessione fotografica non odierà quella che ha scelto. Parliamo a lungo bevendo tè verde, il tempo di capire che mi sto ascoltando allo specchio. Non scattiamo molto. Mi guarda dalle tessere del pavimento mosaicato e, nel giro di poco, trovo il suo sguardo sincero. Mi basta, è lo stesso delle sue parole. John Frusciante - Murderers.
#14
Valeria ha diciannove anni ed è un'aspirante fotografa di Kiev. Ci incontriamo per la prima volta davanti a un bicchiere di vino, che ci scende in gola per oltre un'ora mentre le parole fanno il percorso inverso. Ha un bel temperamento e una voglia tutta giovane di scoprire il mondo. E' di una bellezza disarmante: pelle di seta, lunghi capelli lisci e scuri, grandi occhi verdi, bocca carnosa e nasino a punta. Oggi, prima di fotografarla, l'ho guardata mentre si truccava con la cura di un pittore fiammingo. Ho cercato di andare oltre alla sua fisicità, chissà dove mi ha portato il magnetismo di quegli occhi. Dopo sette rulli ho dovuto smettere: non ne avevo più. Radiohead - A wolf at the door.
Ovvero quando, con un'intera casa a disposizione, finisci per scattare dentro un armadio, sull'onda di una battuta presa sul serio. Inizialmente sto fuori, poi entro anch'io. Fa caldo, maniche di giacche e cappotti scendono su di noi, schiacciati in un metro quadrato. E' quasi buio, illumino Edoardo con l'iPhone e a tratti lo lascio fare a lui. L'oppressione dello spazio non soffoca la fiamma, che alla fine gli sfiora la bocca in una sigaretta. Depeche Mode - Personal Jesus.
#13
Alessandra Tecla Gerevini è una che pensa con la propria testa. Quel modo caparbio di seguire il filo delle sue inclinazioni mi ha conquistato immediatamente. Non ascolta mai una canzone più di un paio di volte e spera che alla fine della sessione fotografica non odierà quella che ha scelto. Parliamo a lungo bevendo tè verde, il tempo di capire che mi sto ascoltando allo specchio. Non scattiamo molto. Mi guarda dalle tessere del pavimento mosaicato e, nel giro di poco, trovo il suo sguardo sincero. Mi basta, è lo stesso delle sue parole. John Frusciante - Murderers.
#14
Valeria ha diciannove anni ed è un'aspirante fotografa di Kiev. Ci incontriamo per la prima volta davanti a un bicchiere di vino, che ci scende in gola per oltre un'ora mentre le parole fanno il percorso inverso. Ha un bel temperamento e una voglia tutta giovane di scoprire il mondo. E' di una bellezza disarmante: pelle di seta, lunghi capelli lisci e scuri, grandi occhi verdi, bocca carnosa e nasino a punta. Oggi, prima di fotografarla, l'ho guardata mentre si truccava con la cura di un pittore fiammingo. Ho cercato di andare oltre alla sua fisicità, chissà dove mi ha portato il magnetismo di quegli occhi. Dopo sette rulli ho dovuto smettere: non ne avevo più. Radiohead - A wolf at the door.
venerdì 9 dicembre 2011
Sopprimere il rettile
Qualche giorno fa mi sono soffermata su un paio di pagine del libro che sto leggendo.
In queste parole ritrovo molto di quello su cui ho lavorato in fotografia, e senz'altro anche la mia futura scrittura ne sarà ispirata.
Se c'è una cosa che ho capito cestinando in un attimo di lucida irritazione lunghi file su cui ero stato per ore intere, è che si nota subito se chi scrive è disinteressato o persegue uno scopo. Perché nel primo caso la scrittura si capisce, anche se è difficile. Nel secondo, invece, hai bisogno di rileggere, e anche dopo la rilettura ti resta un certo margine di confusione, così vai avanti ancora un po' pensando che capirai meglio strada facendo (come succede per i giochi di società, quando all'inizio ti spiegano le regole, tu non hai voglia di concentrarti e la tagli corta dicendo: "Vabe', iniziamo a giocare"), e alla fine, visto che comunque non capisci (o meglio: non ti fidi di quello che ti sembra di aver capito), provi dell'autentico fastidio per lo sforzo che hai dovuto compiere, come avessi cercato di fare un favore a qualcuno che non lo meritava.
Quando uno scrive così, cioè perseguendo uno scopo, infarcendo le frasi di sinonimi, avverbi e concetti allusi ma mai completamente espressi, vuol dire che sta cercando d'imbrogliare qualcuno (se stesso o gli altri, poco conta).
Facciamo un bell'esempio concreto di scrittura utilitaristica e di scrittura disinteressata. Un esempio che mi riguarda, essendone io l'autore: ma mi esaminerò come un entomologo esamina un insetto, giuro.
Es. di scrittura utilitaristica:
Dovremmo forse iniziare a pensare che questa relazione non migliora le nostre vite, anzi le complica. Proviamo allora a domandarci cosa fra noi si è rotto, e perché. Poi, insieme, troviamo la soluzione meno dolorosa per entrambi.
Come risulta evidente, la scrittura che governa queste frasi striscia su un'ipocrisia dissimulata in modo anche piuttosto grossolano. E' una scrittura rettile, che prende alla lontana il suo oggetto e gli gira intorno aspettando il momento opportuno per addentarlo.
L'autore finge di partire dalla prospettiva di un dubbio (prima di atterrare sul verbo pensare - già di per sé poco impegnativo - si para il culo con un "forse", e poi se lo blinda ulteriormente con un "iniziare a", come se neanche quello del pensare fosse uno sforzo che è disposto a compiere fino in fondo), mentre si capisce benissimo che ha le idee molto chiare al riguardo; quindi, siccome il fardello della separazione (che poi è il vero obiettivo del rettile) non vuol caricarselo tutto lui, cerca subdolamente di smollarne metà all'altra parte del rapporto sentimentale in crisi, invitandola finanche a un metaforico protocollo d'intesa, un briefing sentimentale finalizzato a discutere di un problema che in realtà sa già esattamente come risolvere (cioè mollando la tipa facendole però credere che la separazione sia avvenuta di comune accordo).
Insomma, una roba ignobile.
Proviamo adesso a scrivere la stessa cosa (più esattamente: a trattare il medesimo tema dell'Amore Alla Frutta) in modalità gratuita.
Ecco un esempio del testo che potrebbe venir fuori (o meglio: il testo che ho scritto dopo lo scuorno provato in seguito alla rilettura di quello che avevo precedentemente steso in modalità utilitaristica):
Accetta la stronzissima realtà, Vince'. Vi siete impantanati. Stare lì a chiederti come e quando è successo è una perdita di tempo. La realtà è che vi guardate in faccia e parlate d'altro. L'unico problema a questo punto è: chi parla per primo?
Come vedete, il cambio di registro è stato così repentino da indurre l'autore a rinunciare di schianto all'ipocrisia della prima persona, dandosi addirittura del tu. Uno sdoppiamento necessario per pervenire alla soppressione del rettile (un insegnamento da trarre, a questo punto, potrebbe essere: "Se vuoi scrivere, sopprimi il rettile che è in te"), riacquistare il controllo degli eventi in corso e quindi rompere l'omertà che governava la sua scrittura in modalità utilitaristica.
Da qui in avanti, è tutta discesa: l'autore prende il toro per le corna, e senza tanti giri di parole scrive: "Vi siete impantanati"; quindi, con una sola battuta, sputtana il cliché del risalire all'origine del guasto, limitandosi all'accettazione della sua irreparabilità (perché uno, ci sono guasti che non si riparano; e due, anche ammesso, di questi tempi non vale la pena spendere in riparazioni). A quel punto, la ritrovata fiducia nella verità gli permette di lanciare sul tavolo la metafora, cinica ma eloquente come la scena di un film, del "guardarsi in faccia e parlare d'altro", che poi è la descrizione puntuale dell'imbarazzo che si crea fra due persone che hanno smesso di amarsi.
Ora, anche se mi rendo conto che è una domanda viziata, riconfrontate gli esempi sopra riportati, e dite quale delle due modalità di scrittura preferite.
Secondo me, i libri veramente belli sono tutti scritti in modalità gratuita.
Prendete Il giovane Holden. E' uno dei libri più disinteressati che abbia mai letto.
Per questo vende ancora così tanto.
Penso.
(da Mia suocera beve, Diego De Silva, 2010)
In queste parole ritrovo molto di quello su cui ho lavorato in fotografia, e senz'altro anche la mia futura scrittura ne sarà ispirata.
Se c'è una cosa che ho capito cestinando in un attimo di lucida irritazione lunghi file su cui ero stato per ore intere, è che si nota subito se chi scrive è disinteressato o persegue uno scopo. Perché nel primo caso la scrittura si capisce, anche se è difficile. Nel secondo, invece, hai bisogno di rileggere, e anche dopo la rilettura ti resta un certo margine di confusione, così vai avanti ancora un po' pensando che capirai meglio strada facendo (come succede per i giochi di società, quando all'inizio ti spiegano le regole, tu non hai voglia di concentrarti e la tagli corta dicendo: "Vabe', iniziamo a giocare"), e alla fine, visto che comunque non capisci (o meglio: non ti fidi di quello che ti sembra di aver capito), provi dell'autentico fastidio per lo sforzo che hai dovuto compiere, come avessi cercato di fare un favore a qualcuno che non lo meritava.
Quando uno scrive così, cioè perseguendo uno scopo, infarcendo le frasi di sinonimi, avverbi e concetti allusi ma mai completamente espressi, vuol dire che sta cercando d'imbrogliare qualcuno (se stesso o gli altri, poco conta).
Facciamo un bell'esempio concreto di scrittura utilitaristica e di scrittura disinteressata. Un esempio che mi riguarda, essendone io l'autore: ma mi esaminerò come un entomologo esamina un insetto, giuro.
Es. di scrittura utilitaristica:
Dovremmo forse iniziare a pensare che questa relazione non migliora le nostre vite, anzi le complica. Proviamo allora a domandarci cosa fra noi si è rotto, e perché. Poi, insieme, troviamo la soluzione meno dolorosa per entrambi.
Come risulta evidente, la scrittura che governa queste frasi striscia su un'ipocrisia dissimulata in modo anche piuttosto grossolano. E' una scrittura rettile, che prende alla lontana il suo oggetto e gli gira intorno aspettando il momento opportuno per addentarlo.
L'autore finge di partire dalla prospettiva di un dubbio (prima di atterrare sul verbo pensare - già di per sé poco impegnativo - si para il culo con un "forse", e poi se lo blinda ulteriormente con un "iniziare a", come se neanche quello del pensare fosse uno sforzo che è disposto a compiere fino in fondo), mentre si capisce benissimo che ha le idee molto chiare al riguardo; quindi, siccome il fardello della separazione (che poi è il vero obiettivo del rettile) non vuol caricarselo tutto lui, cerca subdolamente di smollarne metà all'altra parte del rapporto sentimentale in crisi, invitandola finanche a un metaforico protocollo d'intesa, un briefing sentimentale finalizzato a discutere di un problema che in realtà sa già esattamente come risolvere (cioè mollando la tipa facendole però credere che la separazione sia avvenuta di comune accordo).
Insomma, una roba ignobile.
Proviamo adesso a scrivere la stessa cosa (più esattamente: a trattare il medesimo tema dell'Amore Alla Frutta) in modalità gratuita.
Ecco un esempio del testo che potrebbe venir fuori (o meglio: il testo che ho scritto dopo lo scuorno provato in seguito alla rilettura di quello che avevo precedentemente steso in modalità utilitaristica):
Accetta la stronzissima realtà, Vince'. Vi siete impantanati. Stare lì a chiederti come e quando è successo è una perdita di tempo. La realtà è che vi guardate in faccia e parlate d'altro. L'unico problema a questo punto è: chi parla per primo?
Come vedete, il cambio di registro è stato così repentino da indurre l'autore a rinunciare di schianto all'ipocrisia della prima persona, dandosi addirittura del tu. Uno sdoppiamento necessario per pervenire alla soppressione del rettile (un insegnamento da trarre, a questo punto, potrebbe essere: "Se vuoi scrivere, sopprimi il rettile che è in te"), riacquistare il controllo degli eventi in corso e quindi rompere l'omertà che governava la sua scrittura in modalità utilitaristica.
Da qui in avanti, è tutta discesa: l'autore prende il toro per le corna, e senza tanti giri di parole scrive: "Vi siete impantanati"; quindi, con una sola battuta, sputtana il cliché del risalire all'origine del guasto, limitandosi all'accettazione della sua irreparabilità (perché uno, ci sono guasti che non si riparano; e due, anche ammesso, di questi tempi non vale la pena spendere in riparazioni). A quel punto, la ritrovata fiducia nella verità gli permette di lanciare sul tavolo la metafora, cinica ma eloquente come la scena di un film, del "guardarsi in faccia e parlare d'altro", che poi è la descrizione puntuale dell'imbarazzo che si crea fra due persone che hanno smesso di amarsi.
Ora, anche se mi rendo conto che è una domanda viziata, riconfrontate gli esempi sopra riportati, e dite quale delle due modalità di scrittura preferite.
Secondo me, i libri veramente belli sono tutti scritti in modalità gratuita.
Prendete Il giovane Holden. E' uno dei libri più disinteressati che abbia mai letto.
Per questo vende ancora così tanto.
Penso.
(da Mia suocera beve, Diego De Silva, 2010)
martedì 6 dicembre 2011
L'intuito
Stasera mi sono iscritta a un corso di scrittura per sceneggiatura cinematografica: una cosa che avevo in mente da tempo e per la quale si è finalmente presentata l'occasione.
Per pura coincidenza proprio poco fa mi sono ritrovata a parlare con un amico di vecchia data che fa lo scrittore, e sul finale mi ha detto questo.
"Mica semplice..."
"Più di quel che credi. Si lascia che l'inizio detti il ritmo. L'intuito riempie gli spazi."
Il bello è che non stavamo nemmeno parlando di scrittura.
Queste poche righe sono per chiunque si appresti a iniziare un percorso ignoto e non ha certezza del proprio passo: soli oppure accompagnati nel cammino, bisogna scegliere da dove cominciare e lasciarsi andare al ritmo. Poi l'intuito riempirà gli spazi.
martedì 8 novembre 2011
Sassolini
Ultimamente ho così tanti sassolini nella scarpa che ci potrei far orinare un gatto. Di più: i miei livelli d'insofferenza stanno raggiungendo picchi everestiani. Sostengo sempre che non mi piace lamentarmi, ma un paio di cose le vorrei proprio dire.
- Voglio vedere cose che non ho già visto e sentire cose che non ho già sentito: impresa a quanto pare molto difficile in un'era di vomito ininterrotto e copioso di banalità e imitazioni che, veramente, BASTA.
- Ogni giorno siamo esposti a una quantità spaventosamente eccessiva di informazioni di ogni genere. Siamo talmente abituati ai vantaggi che questo abuso ci porta, che non siamo più in grado di apprezzarne un temporaneo o parziale distacco. I filtri sono ingorgati e non si capisce più niente. Senza contare che quello che avremmo invece il diritto di sapere non ce lo dicono, ma questo è un altro discorso.
- Roma è un muro di gomma. Continuo ad andarle incontro e lei non fa che rimbalzarmi. Inizio a pensare che veramente io e lei non ce la faremo mai, è peggio che accanirsi con una fidanzata nevrotica.
- Ne ho abbastanza dei senzapalle a cui mi sono avvicinata negli ultimi anni. Abbiate il coraggio dei vostri pensieri e delle vostre azioni.
- Io sinceramente non lo so dove andrà a finire quest'Italia. Sono arrabbiata e non credo più a niente e a nessuno.
- Non ne posso più di sentire la parola "geniale" ogni volta che qualcuno se ne esce con una trovata un po' insolita. Le persone geniali sono veramente poche al mondo. Così come gli artisti: la maggior parte di quelli che vengono chiamati tali non sono altro che dei bravi artigiani.
- I cosiddetti comici non mi fanno ridere. Men che meno i cabarettisti o le macchiette. Che uno ci si metta d'impegno per far ridere qualcun altro mi sembra la cosa più forzata e triste che possa esserci. Pura presunzione egocentrica: ne fanno persino una professione! E tutti i pecoroni a ridergli appresso, che pena. In compenso mi sbellico letteralmente per certi scrittori (in questo momento sto leggendo Diego De Silva, una verve scoppiettante), blogger e un solo regista: Woody Allen.
Ecco fatto, non è molto ma almeno il gatto cambierà scarpa per un po'.
- Voglio vedere cose che non ho già visto e sentire cose che non ho già sentito: impresa a quanto pare molto difficile in un'era di vomito ininterrotto e copioso di banalità e imitazioni che, veramente, BASTA.
- Ogni giorno siamo esposti a una quantità spaventosamente eccessiva di informazioni di ogni genere. Siamo talmente abituati ai vantaggi che questo abuso ci porta, che non siamo più in grado di apprezzarne un temporaneo o parziale distacco. I filtri sono ingorgati e non si capisce più niente. Senza contare che quello che avremmo invece il diritto di sapere non ce lo dicono, ma questo è un altro discorso.
- Roma è un muro di gomma. Continuo ad andarle incontro e lei non fa che rimbalzarmi. Inizio a pensare che veramente io e lei non ce la faremo mai, è peggio che accanirsi con una fidanzata nevrotica.
- Ne ho abbastanza dei senzapalle a cui mi sono avvicinata negli ultimi anni. Abbiate il coraggio dei vostri pensieri e delle vostre azioni.
- Io sinceramente non lo so dove andrà a finire quest'Italia. Sono arrabbiata e non credo più a niente e a nessuno.
- Non ne posso più di sentire la parola "geniale" ogni volta che qualcuno se ne esce con una trovata un po' insolita. Le persone geniali sono veramente poche al mondo. Così come gli artisti: la maggior parte di quelli che vengono chiamati tali non sono altro che dei bravi artigiani.
- I cosiddetti comici non mi fanno ridere. Men che meno i cabarettisti o le macchiette. Che uno ci si metta d'impegno per far ridere qualcun altro mi sembra la cosa più forzata e triste che possa esserci. Pura presunzione egocentrica: ne fanno persino una professione! E tutti i pecoroni a ridergli appresso, che pena. In compenso mi sbellico letteralmente per certi scrittori (in questo momento sto leggendo Diego De Silva, una verve scoppiettante), blogger e un solo regista: Woody Allen.
Ecco fatto, non è molto ma almeno il gatto cambierà scarpa per un po'.
martedì 1 novembre 2011
Within #11
Con lui avevo già fatto una specie di Within, ai tempi del corso di comunicazione visiva. In mezzo a queste due sessioni sono passati due anni e molta vita. Allora si trattò di fare 36 foto in un'ora, senza parlare ma con la musica. Oggi di scatti ne abbiamo fatti 288 in tre ore, parlando a tratti ma senza musica. Sì, perché la sua scelta sonora è stato il silenzio. Ti pareva se non cambiava subito le regole del mio gioco, Donato il sovvertitore. Abituato per indole a mettere in dubbio ogni cosa, aveva una serie di perplessità anche rispetto all'idea sottostante il mio progetto, al quale ha accettato di partecipare per una ragione diversa da quella del contatto empatico. Devo però dargli atto che nonostante tutto non si è posto sulla difensiva, prestandosi pienamente all'esperimento.
Donato è faticoso, lo è sempre stato e oggi si è confermato nel suo essere instancabilmente dialettico, cosa che peraltro ho sempre apprezzato. A lui piace metterti all'angolo, ma ormai conosco le ragioni che lo spingono a comportarsi in un certo modo e so che non c'è cattiveria nei suoi intenti, anzi. Tant'è vero che nelle foto, all'interno dell'elastico che definiva i movimenti della sua apertura, in realtà mi ha dato molto.
Uno sguardo carico, silenzioso, lungo e profondo: questo è il Within che volevo con Donato, e l'ho avuto. Alle stampe l'ardua sentenza.
Donato è faticoso, lo è sempre stato e oggi si è confermato nel suo essere instancabilmente dialettico, cosa che peraltro ho sempre apprezzato. A lui piace metterti all'angolo, ma ormai conosco le ragioni che lo spingono a comportarsi in un certo modo e so che non c'è cattiveria nei suoi intenti, anzi. Tant'è vero che nelle foto, all'interno dell'elastico che definiva i movimenti della sua apertura, in realtà mi ha dato molto.
Uno sguardo carico, silenzioso, lungo e profondo: questo è il Within che volevo con Donato, e l'ho avuto. Alle stampe l'ardua sentenza.
lunedì 31 ottobre 2011
Within #10
Dopo nove uomini, una donna. Anzi, la donna: Anna. Avrete sicuramente già letto di lei in questo blog, ma se siete nuovi da queste parti vi basti sapere che è la mia Musa. E' l'unica persona che ho bisogno di fotografare sempre, ogni volta che la vedo. Mi prudono proprio le mani. Perchè voglio portarla con me anche quando non condividiamo lo stesso spazio fisico, e anche per rendere evidente, sulla carta, quanto meriti di essere fotografata. Almeno, da me. Quando mi accorgo di aver catturato qualcosa di suo provo una sensazione di orgogliosa vittoria, perchè sento di averla immortalata per sempre - cosa che generalmente non è il mio scopo nel fotografare. Più è importante chi ho davanti, più avverto quel senso di rapimento dell'altro.
Questo è il brano che ha scelto. Un pezzo grintoso, bello rock. Altro che canzoncina melodica da donnette. Eppure nelle pose non c'era nessuno degli stereotipi che la musica potrebbe suggerire: niente pose aggressive, nessuna recitazione. Anna come sempre si è rapportata pienamente con me, non con la musica o qualunque altro elemento dell'ambiente circostante. Nel fotografarla ero un po' come un animale: mi accovacciavo, strisciavo, gattonavo, mi avvicinavo e mi allontanavo trascinando il mio corpo come se non fosse che un'appendice di me. Tanto che a un certo punto lei ha iniziato a farmi da specchio, assumendo le mie stesse posizioni, e allora mi sono accorta che più che scattare foto sembrava che io facessi pilates... In generale, più mi dimentico di me stessa e più mi metto in gioco nelle foto, quindi ben venga il pilates.
Oggi Anna era felice, non aveva mai sorriso così tanto. Le ho scaricato addosso cinque rulli, a un ritmo piuttosto sostenuto. Ho posato la macchina solo per un momento, breve e lungo al tempo stesso.
Devo ammettere che in questo caso non mi è così chiaro quale sarà la foto che sceglierò, perchè i momenti rivelatori sono stati molti.
Quando ho finito, Anna mi ha mostrato le tavole con i suoi disegni: è stato come trovare la coincidenza dei tratti grafici con quelli caratteriali. I suoi acquerelli mi sono piaciuti molto, così come gli schizzi a matita. Le ho chiesto di ritrarmi. Ha preso carta e grafite e per una ventina di minuti siamo state ferme e in silenzio, studiandoci a vicenda. Lei alzava e abbassava gli occhi a intervalli regolari e dalla direzione del suo sguardo cercavo di indovinare quale parte del mio viso stesse disegnando. Intanto pensavo alle foto fatte poco prima, a quello che ci eravamo trasmesse, a ciò che ne avrei scritto in seguito - poco, rispetto a quello che è stato e a ciò che lei è per me. Il fatto è che alla fine la fotografia la capisce fino in fondo solo chi genera lo scatto, da entrambe le parti. E a volte non la si capisce neanche: accade e basta, come la sintonia tra due persone.
Questo è il brano che ha scelto. Un pezzo grintoso, bello rock. Altro che canzoncina melodica da donnette. Eppure nelle pose non c'era nessuno degli stereotipi che la musica potrebbe suggerire: niente pose aggressive, nessuna recitazione. Anna come sempre si è rapportata pienamente con me, non con la musica o qualunque altro elemento dell'ambiente circostante. Nel fotografarla ero un po' come un animale: mi accovacciavo, strisciavo, gattonavo, mi avvicinavo e mi allontanavo trascinando il mio corpo come se non fosse che un'appendice di me. Tanto che a un certo punto lei ha iniziato a farmi da specchio, assumendo le mie stesse posizioni, e allora mi sono accorta che più che scattare foto sembrava che io facessi pilates... In generale, più mi dimentico di me stessa e più mi metto in gioco nelle foto, quindi ben venga il pilates.
Oggi Anna era felice, non aveva mai sorriso così tanto. Le ho scaricato addosso cinque rulli, a un ritmo piuttosto sostenuto. Ho posato la macchina solo per un momento, breve e lungo al tempo stesso.
Devo ammettere che in questo caso non mi è così chiaro quale sarà la foto che sceglierò, perchè i momenti rivelatori sono stati molti.
Quando ho finito, Anna mi ha mostrato le tavole con i suoi disegni: è stato come trovare la coincidenza dei tratti grafici con quelli caratteriali. I suoi acquerelli mi sono piaciuti molto, così come gli schizzi a matita. Le ho chiesto di ritrarmi. Ha preso carta e grafite e per una ventina di minuti siamo state ferme e in silenzio, studiandoci a vicenda. Lei alzava e abbassava gli occhi a intervalli regolari e dalla direzione del suo sguardo cercavo di indovinare quale parte del mio viso stesse disegnando. Intanto pensavo alle foto fatte poco prima, a quello che ci eravamo trasmesse, a ciò che ne avrei scritto in seguito - poco, rispetto a quello che è stato e a ciò che lei è per me. Il fatto è che alla fine la fotografia la capisce fino in fondo solo chi genera lo scatto, da entrambe le parti. E a volte non la si capisce neanche: accade e basta, come la sintonia tra due persone.
domenica 30 ottobre 2011
Within #9
Alek è uno dei miei migliori amici. Abbiamo fatto insieme il percorso attraverso la fotografia: lui, ben più giovane di me, ha sempre avuto le idee chiarissime, mentre io per lungo tempo ho brancolato nel buio prima di trovare la mia strada. Siamo stati fianco a fianco per un anno intero e anche dopo la fine dell'Accademia il nostro rapporto è cresciuto nonostante la distanza fisica. E' una delle poche persone di cui mi fido ciecamente e gli voglio un bene enorme e incondizionato.
Da tempo volevamo ritrarci a vicenda, ognuno a modo proprio. Laddove io ho optato per l'assenza di parole, lui ha scelto di non illuminarmi. Ci siamo trovati l'uno di fronte all'altra nel buio più totale, con la macchina sul cavalletto. Un solo scatto, trenta secondi di esposizione. Due scintille di fuoco sono state la sola fonte di luce per catturare le mie espressioni. L'unico suono era quello della sua voce, in sette brevissime frasi. Guardatela, ma non capirete ugualmente quel mentre. Rimarrà nostro per sempre.
E poi è venuto il mio turno. Alek non solo ha scelto i Coldplay, uno dei miei gruppi preferiti, ma anche una traccia alla quale sono molto affezionata: Fix you. Con lui non ho davvero emesso una sola sillaba. Ci siamo messi sul suo letto, abbiamo scattato e cantato insieme. Ci siamo abbracciati e tenuti per mano.
Io un amore così lo invidierei, se non lo avessi.
Da tempo volevamo ritrarci a vicenda, ognuno a modo proprio. Laddove io ho optato per l'assenza di parole, lui ha scelto di non illuminarmi. Ci siamo trovati l'uno di fronte all'altra nel buio più totale, con la macchina sul cavalletto. Un solo scatto, trenta secondi di esposizione. Due scintille di fuoco sono state la sola fonte di luce per catturare le mie espressioni. L'unico suono era quello della sua voce, in sette brevissime frasi. Guardatela, ma non capirete ugualmente quel mentre. Rimarrà nostro per sempre.
E poi è venuto il mio turno. Alek non solo ha scelto i Coldplay, uno dei miei gruppi preferiti, ma anche una traccia alla quale sono molto affezionata: Fix you. Con lui non ho davvero emesso una sola sillaba. Ci siamo messi sul suo letto, abbiamo scattato e cantato insieme. Ci siamo abbracciati e tenuti per mano.
Io un amore così lo invidierei, se non lo avessi.
mercoledì 26 ottobre 2011
Chi sono
Pensare, osservare, cercare, studiare, analizzare, discutere, confrontare, provare, sbagliare, piangere, ricominciare. Tutto così per mesi, anni. Un giorno ti svegli, riesci a vedere quel percorso in tutta la sua interezza e capisci quanto sei cresciuto. Sai che anche in quel momento sei pur sempre nel mezzo tra il tuo passato e il tuo futuro, che molte cose ancora cambieranno. Ma non importa, resti concentrato su quello che hai lì con te: la tua identità. Dico sempre che ogni ritratto di Within/Dentro è un'esperienza che mi fa scoprire un pezzetto di me stessa, dei miei soggetti e del nostro rapporto, ma devo ammettere che probabilmente nessuna finora era stata determinante quanto l'ultima. Il che è abbastanza paradossale, perchè fino a sabato Moreno per me era un completo sconosciuto. Prendete una persona che non avete mai visto, chiudetevici in una stanza per tre ore e raccontatevi a lei senza filtri. Ascoltatela, provate a capire cos'ha dentro. Ma soprattutto guardatela fisso negli occhi, senza abbassarli. Vincere la paura di rivelarsi agli altri è un passo fondamentale per qualunque essere umano. Lo è ancora di più quando si vuole comunicare attraverso mezzi come la fotografia. E' arrivato il momento di guardarvi negli occhi come se foste tutti in una stanza con me. Quello che penso un po' lo conoscete già; chi sono è qui.
lunedì 24 ottobre 2011
Within #8
Entro in casa sua e subito mi accorgo che non è né l'abitazione di un single né quella di una coppia, ma un mondo che, plasmato sulla dimensione dei bambini, restituisce nitidezza al ricordo dell'infanzia di ognuno di noi. Alla mia destra c'è lo spazio dei giocattoli, delimitato da un piccolo recinto di legno, ma le tracce dell'universo piccolo sono dappertutto. Tutti dormono, ma si respirano vita e calore ovunque mi giri. Mi rinfresco in bagno e l'occhio cade immediatamente su una piccola libreria di fianco al lavandino, dove, tra gli altri, stazionano Epicuro e Manzoni. Non c'è dubbio, qui abita uno scrittore: Moreno Pisto.
Questo suo post è la ragione per cui ho deciso di contattarlo, una settimana fa. Così, senza pensarci un momento di più, via e-mail. A istinto ho pensato che in un certo senso parlavamo la stessa lingua e infatti ha subito accettato di fare questo ritratto. Per me era il primo Within con una persona del tutto sconosciuta - abbiamo solo qualche conoscenza in comune, tramite cui sono arrivata al suo blog. Era tempo che volevo misurarmi su questo terreno: mettermi alla prova senza il vantaggio della confidenza amicale - sebbene quest'ultima non sia sempre una facilitazione, quando si fa un ritratto.
Parto da Roma in tarda mattinata e Moreno viene a prendermi alla stazione di Pescia, il paese in provincia di Pistoia dove vive. La prima cosa che noto della sua persona è che è ha una gentilezza genuina, un fare aperto e curioso. Ancora prima di salire in macchina ho già la sensazione che il ritratto riuscirà. Scegliamo di scattare nel suo regno: il posto dove scrive. E' una stanza al piano di sotto, in pietra grezza e muratura bianca, con una lampadina al centro, una scrivania, i due quadri di Love appesi alle pareti e una piccola finestra che illumina i contorni di un divano in broccato color ocra. Il contrasto tra la ricchezza visiva del tessuto e l'essenzialità dell'ambiente circostante mi conquista immediatamente. Decido di restare nella penombra, perché quella poca luce naturale è perfetta per i miei scatti. Carico la pellicola, imposto il tiraggio e poso la macchina sul tavolo. Parliamo a lungo, intanto che mi abituo a quello spazio. Ovunque proteggi di Vinicio Capossela si ripete all'infinito, amalgamandosi con discrezione alle pareti. Osservo i movimenti di Moreno, le sue espressioni. Le parole si accavallano, i fili dei discorsi s'intrecciano, inerpicandosi fino a perdersi - come siamo arrivati a parlare di questo? La cifra è da subito introspettiva e i pensieri affiorano stimolati dalla densità del confronto. Lui ci registra dal primo momento: parole, passi, pause. I miei appunti sono invece negli occhi e, poi, nella macchina fotografica - a ognuno il suo. Il silenzio arriva quando deve, lentamente, senza fretta. Scattiamo per un tempo indefinito, un'ora, forse due: non me ne rendo conto. Ci mettiamo qua, ci spostiamo là. In piedi, seduto, inginocchiato. Moreno capisce perfettamente quello che sto facendo nel momento in cui lo sto facendo. Tiene lo sguardo quando intuisce che è giusto per me, ripete un gesto, mi asseconda. Non prevarica, nè lo faccio io con lui: siamo sullo stesso piano, anche perchè senza parole è molto più difficile chiedere all'altro: deve quasi nascere da sè. E' questa la sfida del mio progetto, il senso del contatto sta qui: tutto si trasferisce su un altro livello, e se lì non c'è intesa è finita. Quando arriva lo scatto ce ne accorgiamo entrambi e istintivamente emetto un suono gutturale, a cui lui risponde nello stesso modo. Ogni tanto ci raggiunge sua figlia, che pare aver perso la testa per me perchè da quando mi ha visto non ha smesso un momento di farmi le feste. E' tenera da sciogliersi. Li ritraggo insieme, poi ci fotografa lui. Finisco i miei cinque rulli sapendo di avere già le foto che voglio, ma andrei avanti ancora, c'è troppo gusto. Mi passa la sua G12 e ricomincio a scattare, ora in maniera completamente diversa, tecnicamente più sporca: uso il flash, il mosso; la luce è accesa, fredda, la metto in controluce o appena sopra di lui, a indurire le ombre. Sfoco il primo piano, compongo in maniera solo apparentemente disattenta. Anche il mood delle foto cambia, esce un altro dentro di Moreno, più aggressivo e determinato. Sapeva che avevo un'idea rimasta ancora irrealizzata e me ne regala il gesto senza che nemmeno glielo chieda. Stiamo giocando, ormai. Il tempo passa, e noi ancora là sotto con le macchinette. Smettiamo solo quando ci vengono a reclamare dal piano di sopra, tre ore dopo il mio arrivo. Prima di risalire, mi regala il suo libro appena pubblicato e un altro che gli prometto di recensire, sul rapporto tra fotografia e letteratura.
Questi alcuni degli scatti con la G12, le altre in pellicola arriveranno tra qualche tempo.
Questo è quanto, almeno per ciò che riguarda le foto. Tanto altro ci sarebbe da dire su quella famiglia, sull'amore che girava, sul molto che ho intuito senza che nessuno lo verbalizzasse, su di lui e sui messaggi che passano nel suo libro, che ho divorato in meno di ventiquattro ore. Ma queste cose rimarranno tra noi, vere e piene. Qui riporterò solo ciò che ho detto anche a lui ieri, al termine della mia lettura: Moreno fa sembrare il coraggio più a portata di mano di quanto non si pensi.
Adoro non sbagliarmi sulle persone: quelle autentiche si lasciano riconoscere subito, con una generosità priva di reticenze, persino da poche righe su un blog.
Questo suo post è la ragione per cui ho deciso di contattarlo, una settimana fa. Così, senza pensarci un momento di più, via e-mail. A istinto ho pensato che in un certo senso parlavamo la stessa lingua e infatti ha subito accettato di fare questo ritratto. Per me era il primo Within con una persona del tutto sconosciuta - abbiamo solo qualche conoscenza in comune, tramite cui sono arrivata al suo blog. Era tempo che volevo misurarmi su questo terreno: mettermi alla prova senza il vantaggio della confidenza amicale - sebbene quest'ultima non sia sempre una facilitazione, quando si fa un ritratto.
Parto da Roma in tarda mattinata e Moreno viene a prendermi alla stazione di Pescia, il paese in provincia di Pistoia dove vive. La prima cosa che noto della sua persona è che è ha una gentilezza genuina, un fare aperto e curioso. Ancora prima di salire in macchina ho già la sensazione che il ritratto riuscirà. Scegliamo di scattare nel suo regno: il posto dove scrive. E' una stanza al piano di sotto, in pietra grezza e muratura bianca, con una lampadina al centro, una scrivania, i due quadri di Love appesi alle pareti e una piccola finestra che illumina i contorni di un divano in broccato color ocra. Il contrasto tra la ricchezza visiva del tessuto e l'essenzialità dell'ambiente circostante mi conquista immediatamente. Decido di restare nella penombra, perché quella poca luce naturale è perfetta per i miei scatti. Carico la pellicola, imposto il tiraggio e poso la macchina sul tavolo. Parliamo a lungo, intanto che mi abituo a quello spazio. Ovunque proteggi di Vinicio Capossela si ripete all'infinito, amalgamandosi con discrezione alle pareti. Osservo i movimenti di Moreno, le sue espressioni. Le parole si accavallano, i fili dei discorsi s'intrecciano, inerpicandosi fino a perdersi - come siamo arrivati a parlare di questo? La cifra è da subito introspettiva e i pensieri affiorano stimolati dalla densità del confronto. Lui ci registra dal primo momento: parole, passi, pause. I miei appunti sono invece negli occhi e, poi, nella macchina fotografica - a ognuno il suo. Il silenzio arriva quando deve, lentamente, senza fretta. Scattiamo per un tempo indefinito, un'ora, forse due: non me ne rendo conto. Ci mettiamo qua, ci spostiamo là. In piedi, seduto, inginocchiato. Moreno capisce perfettamente quello che sto facendo nel momento in cui lo sto facendo. Tiene lo sguardo quando intuisce che è giusto per me, ripete un gesto, mi asseconda. Non prevarica, nè lo faccio io con lui: siamo sullo stesso piano, anche perchè senza parole è molto più difficile chiedere all'altro: deve quasi nascere da sè. E' questa la sfida del mio progetto, il senso del contatto sta qui: tutto si trasferisce su un altro livello, e se lì non c'è intesa è finita. Quando arriva lo scatto ce ne accorgiamo entrambi e istintivamente emetto un suono gutturale, a cui lui risponde nello stesso modo. Ogni tanto ci raggiunge sua figlia, che pare aver perso la testa per me perchè da quando mi ha visto non ha smesso un momento di farmi le feste. E' tenera da sciogliersi. Li ritraggo insieme, poi ci fotografa lui. Finisco i miei cinque rulli sapendo di avere già le foto che voglio, ma andrei avanti ancora, c'è troppo gusto. Mi passa la sua G12 e ricomincio a scattare, ora in maniera completamente diversa, tecnicamente più sporca: uso il flash, il mosso; la luce è accesa, fredda, la metto in controluce o appena sopra di lui, a indurire le ombre. Sfoco il primo piano, compongo in maniera solo apparentemente disattenta. Anche il mood delle foto cambia, esce un altro dentro di Moreno, più aggressivo e determinato. Sapeva che avevo un'idea rimasta ancora irrealizzata e me ne regala il gesto senza che nemmeno glielo chieda. Stiamo giocando, ormai. Il tempo passa, e noi ancora là sotto con le macchinette. Smettiamo solo quando ci vengono a reclamare dal piano di sopra, tre ore dopo il mio arrivo. Prima di risalire, mi regala il suo libro appena pubblicato e un altro che gli prometto di recensire, sul rapporto tra fotografia e letteratura.
Questi alcuni degli scatti con la G12, le altre in pellicola arriveranno tra qualche tempo.
Adoro non sbagliarmi sulle persone: quelle autentiche si lasciano riconoscere subito, con una generosità priva di reticenze, persino da poche righe su un blog.
giovedì 6 ottobre 2011
Mind.eejay
Domenica 11 settembre mi trovo in una camera d'albergo a Cesena. Come di consueto, mi sveglio con una musica in testa e questa volta si tratta di Rain dei Beatles. Prima di truccarmi indosso le cuffie e accendo l'iPod in riproduzione casuale, con l'intenzione di ascoltare quella canzone più tardi. 2 Gb di musica, con una probabilità su oltre 200 che quel pezzo suoni. Alle prime note riconosco Rain e rimango immobile di fronte allo specchio a chiedermi come sia possibile che me la sia "chiamata" in quel modo.
Questa mattina apro gli occhi nella mia casa romana e subito inizia a suonarmi in testa Occhiali rotti di Samuele Bersani. Sollevo lo schermo del Mac, attacco le cuffie senza fili, faccio partire iTunes, sempre in riproduzione casuale, e vado a mettere su la colazione. Finisce l'ultimo brano di ieri sera e, tempo trenta secondi, inizia Occhiali rotti. Ok i 2 Gb dell'iPod, ma sul Mac ho veramente migliaia di brani musicali: com'è possibile che fra tutte sia partita proprio quella canzone?
Mentre bevo il caffè mi viene da fare una riflessione forse poco lucida vista l'ora, però mi chiedo: non è che questo mio "chiamare" certi brani musicali - ho fatto questi due esempi perchè più recenti e relativamente ravvicinati, ma non sono certo le prime volte che mi capita - ha qualcosa a che fare con l'energia del pensiero? Io sono un tipo mediamente fatalista, nel senso che per certi versi credo che esista qualche forma di attività cosciente all'interno delle nostre vite da parte di quello che possiamo chiamare caso - qua dentro il concetto di Dio non ha i documenti in regola per circolare - ma onestamente non ho mai letto nulla in materia, nonostante essa sia stata oggetto di studio un po' in tutte le salse. Penso però che le convinzioni che abbiamo finiscano spesso per influenzare gli eventi e questa mattina, mentre ancora incredula ascoltavo Occhiali rotti, ho provato ad allargare il ragionamento: se iniziassi a "chiamare" davvero quello che dico di volere, probabilmente prima o poi mi arriverebbe. Il mio problema è che in realtà continuo ad attrarre l'esatto contrario, perchè sotto sotto non credo veramente nella possibilità che possa accadere ciò cui aspiro. Nel momento in cui imparerò a sconfiggere la paura di realizzarmi e perderò l'abitudine di dirmi di no, sarò anche in grado mixare col pensiero come una provetta Mind.eejay.
Questa mattina apro gli occhi nella mia casa romana e subito inizia a suonarmi in testa Occhiali rotti di Samuele Bersani. Sollevo lo schermo del Mac, attacco le cuffie senza fili, faccio partire iTunes, sempre in riproduzione casuale, e vado a mettere su la colazione. Finisce l'ultimo brano di ieri sera e, tempo trenta secondi, inizia Occhiali rotti. Ok i 2 Gb dell'iPod, ma sul Mac ho veramente migliaia di brani musicali: com'è possibile che fra tutte sia partita proprio quella canzone?
Mentre bevo il caffè mi viene da fare una riflessione forse poco lucida vista l'ora, però mi chiedo: non è che questo mio "chiamare" certi brani musicali - ho fatto questi due esempi perchè più recenti e relativamente ravvicinati, ma non sono certo le prime volte che mi capita - ha qualcosa a che fare con l'energia del pensiero? Io sono un tipo mediamente fatalista, nel senso che per certi versi credo che esista qualche forma di attività cosciente all'interno delle nostre vite da parte di quello che possiamo chiamare caso - qua dentro il concetto di Dio non ha i documenti in regola per circolare - ma onestamente non ho mai letto nulla in materia, nonostante essa sia stata oggetto di studio un po' in tutte le salse. Penso però che le convinzioni che abbiamo finiscano spesso per influenzare gli eventi e questa mattina, mentre ancora incredula ascoltavo Occhiali rotti, ho provato ad allargare il ragionamento: se iniziassi a "chiamare" davvero quello che dico di volere, probabilmente prima o poi mi arriverebbe. Il mio problema è che in realtà continuo ad attrarre l'esatto contrario, perchè sotto sotto non credo veramente nella possibilità che possa accadere ciò cui aspiro. Nel momento in cui imparerò a sconfiggere la paura di realizzarmi e perderò l'abitudine di dirmi di no, sarò anche in grado mixare col pensiero come una provetta Mind.eejay.
lunedì 3 ottobre 2011
Arma bianca
Se è vero che ne uccide più la lingua che la spada, oserei aggiungere che peggio della lingua fa solo una bocca chiusa.
If it is true that the tongue is more to be feared than the sword, I would add that worse than the tongue does only a shut mouth.
If it is true that the tongue is more to be feared than the sword, I would add that worse than the tongue does only a shut mouth.
domenica 2 ottobre 2011
L'eccezione
Ieri sono stata su fino alle 4.30, perchè nel pomeriggio avevo ritirato i provini del Within #7 e a tarda notte mi sono dedicata a una delle mie operazioni preferite in assoluto: seduta sul lettone con della buona musica, dispongo tutte le foto e faccio la mia selezione. In questo caso, su tre rulli scattati tutta la vera "ciccia" stava nel secondo. Ora, io sono estremamente severa nel giudicare le mie foto, ma tra quelle ne ho tirate fuori ben 3+3 buone. Sei? Non proprio. Perchè tre sono molto simili tra loro e sono state scattate a pochi secondi l'una dall'altra, eppure raccontano tre cose diverse. Fra queste tre c'è la mia scelta: è sfocata e anche leggermente mossa. Tutte le altre foto sono tecnicamente giuste e questa è l'unica sbagliatina. Forse è per questo che l'ho scelta? Può essere, perchè in realtà con l' "errore" si è amplificata la tensione emozionale della foto. Per me questa foto si muove. Viene verso di me, in quegli occhi c'è qualcosa di indecifrabile: è la luce che segue un sorriso, ma non è neanche un sorriso che muore. E' vibrazione, è un dentro che esce: per questo l'ho scelta. E anche perchè lui non guardava in macchina, ma l'altro mio occhio libero dal mirino.
Faccio un'eccezione alla regola per cui tutti i Within/Dentro sarebbero stati pubblicati insieme e a tempo debito, ma mi sento di condividere adesso e qua dentro il piacere di guardare questo ritratto, che forse mi avrà già stancato fra tre giorni, ma ora mi pare uno dei migliori che abbia fatto.
Cliccare per ingrandire.
Faccio un'eccezione alla regola per cui tutti i Within/Dentro sarebbero stati pubblicati insieme e a tempo debito, ma mi sento di condividere adesso e qua dentro il piacere di guardare questo ritratto, che forse mi avrà già stancato fra tre giorni, ma ora mi pare uno dei migliori che abbia fatto.
Cliccare per ingrandire.
mercoledì 28 settembre 2011
Paolo Gioli
Vi propongo un'interessante (quanto datata: 1991) conversazione tra Paolo Costantini e il pittore, fotografo e regista Paolo Gioli, che inaugura domani la sua mostra "Naturae" qui a Roma, presso Studio Orizzonte, del fotografo e amico Antonio Barrella.
La commistione di mezzi espressivi che Gioli utilizza mi è vicina e familiare: mi sono ritrovata molto in ciò che afferma, perchè anche per me (soprattutto adesso) non sono mai state nette le demarcazioni tra un mezzo e l'altro. Dalle parole dell'artista emerge un'incontenibile passione per la materia e ciò che essa è in grado di partorire; è tutto un divorare, ricevere, restituire, scambiare. Leggendo dell'uso e del significato di quest'ultima, mi è risultata immediata l'associazione con Alberto Burri, uno degli artisti italiani che mi prendono più visceralmente. Ricordo perfettamente quello che provai quando vidi per la prima volta dal vero i suoi "Cretti", in particolare quelli neri: quel senso così estremo di residuo, di consunzione, che è poi molto simile a ciò di cui parla anche Gioli quando accenna alla tavola dopo il pasto (vd. infra).
Ma non voglio ora dilungarmi troppo, perchè il testo che segue è già molto lungo. Non ho voluto tagliare nulla, affinchè rimanesse intatta la sensazione che ho provato nel leggerlo, come se l'artista fosse seduto accanto a me raccontandosi in maniera molto genuina e diretta.
La commistione di mezzi espressivi che Gioli utilizza mi è vicina e familiare: mi sono ritrovata molto in ciò che afferma, perchè anche per me (soprattutto adesso) non sono mai state nette le demarcazioni tra un mezzo e l'altro. Dalle parole dell'artista emerge un'incontenibile passione per la materia e ciò che essa è in grado di partorire; è tutto un divorare, ricevere, restituire, scambiare. Leggendo dell'uso e del significato di quest'ultima, mi è risultata immediata l'associazione con Alberto Burri, uno degli artisti italiani che mi prendono più visceralmente. Ricordo perfettamente quello che provai quando vidi per la prima volta dal vero i suoi "Cretti", in particolare quelli neri: quel senso così estremo di residuo, di consunzione, che è poi molto simile a ciò di cui parla anche Gioli quando accenna alla tavola dopo il pasto (vd. infra).
Ma non voglio ora dilungarmi troppo, perchè il testo che segue è già molto lungo. Non ho voluto tagliare nulla, affinchè rimanesse intatta la sensazione che ho provato nel leggerlo, come se l'artista fosse seduto accanto a me raccontandosi in maniera molto genuina e diretta.
martedì 27 settembre 2011
Within #7
La prima certezza che ho è che non ascolterò più "Again" degli Archive per un po'. E' una canzone che nell'album dura sedici minuti e temo di aver perso il conto di quante volte abbia suonato dal momento in cui il mio settimo soggetto è arrivato a quando se n'è andato. Ancora un fotografo - e uno non da poco: Fausto Podavini. Forse ha voluto il destino che lui fosse il settimo, numero che notoriamente identifica la crisi. Con Fausto siamo amici ed era un po' che c'era in ballo di fare questo ritratto: in effetti era già da qualche giorno che avevo la spinta giusta per farlo, eppure proprio quando è arrivato il momento quella più agitata era la sottoscritta, mentre lui, che è un altro di quelli che non si fanno mai fotografare, era completamente a suo agio. Abbiamo provato a capire le ragioni di quella mia inquietudine e la risposta paradossale è che era proprio il fatto di essere a casa mia a destabilizzarmi. Questo probabilmente perchè non ho mai ritratto nessuno qui, almeno non per un progetto personale. Su questa cosa ci sarebbe da aprire un capitolo piuttosto ampio, ma mi è sufficiente averlo capito da me e non vi tedierò oltre. Per un bel po' abbiamo parlato e - altro ribaltamento - la conversazione è servita più a me per concentrarmi (o forse per smettere di cercare di farlo) che a lui per rilassarsi. Poi, pian piano, è arrivato il silenzio ed è rimasta solo la musica. Con la comunicazione non verbale sono entrata di nuovo nel ritratto e, again, è stato Within.
sabato 24 settembre 2011
Sull'artista
L'unica missione di chi prova a fare "arte" dovrebbe essere quella di scollarsi dalla mediocrità e dall'omologazione stordita e incosciente del pubblico. Nella migliore delle ipotesi questo porterà anche gli altri a saper vedere oltre, ma è solo una (neanche così certa) conseguenza e non una causa efficiente. L'artista non opera per elevare le masse, ma al contrario è prima di tutto un essere egoista; gli si deve persino perdonare una certa arroganza, perchè in qualche modo si finirà comunque per dargli ragione o, se non altro, per capirlo. E' più che altro una questione di tempo e di evoluzione culturale - il che spesso tramuta la missione dell'artista in una vera e propria lotta sul filo di una penna, di un pennello, di una pellicola, etc. Onestamente non so se io abbia il coraggio di credere nell'elevazione (o ricostruzione, se guardo all'Italia di oggi) della cultura di massa, ma ci provo perchè sono troppo insofferente per accettare il contrario. In sostanza, esercito una forza in virtù di una debolezza.
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About the artist
The sole mission of those who try to make "art" should be to try coming unstuck from the mediocrity and the numb and unconscious standardization of the public. At best this will lead others to be able to look beyond, but this is only a (possible) consequence and not an efficient cause. The artist doesn't work to raise the masses, but instead is first of all a selfish person to whom should even be forgiven a certain arrogance, because somehow people will end up agreeing with him or, at least, understand him. It's most of all a matter of time and cultural evolution - which often transforms the artist's mission in a real struggle on the edge of a pen, a brush, a film, etc. I honestly don't know if I have the courage to believe in the elevation (or reconstruction, if I look at Italy nowadays) of mass culture, but I try because I'm too intolerant to accept otherwise. Essentially, I exercise a strength by virtue of a weakness.
mercoledì 14 settembre 2011
Within #6
Non so se il SI Fest di Savignano sul Rubicone sia stato il pretesto per scattare il sesto Within o viceversa, ma tant'è: ho portato a casa un altro ritratto e incontrato quei pazzi romagnoli che non vedevo da tempo. Di nuovo un uomo, di nuovo un fotografo: Giorgio Fochesato. Come sempre accade, scrivo dell'esperienza prima di vedere le foto, sulle quali poserò gli occhi tra un paio di giorni.
Non conoscevo Giorgio di persona, cosa che nelle nostre intenzioni avrebbe costituito un dato interessante: avevamo deciso di non parlarci prima di scattare, per mantenere una sorta di tensione curiosa nell'avvicinamento del ritratto. Purtroppo sono stata vittima del più incredibile degli imprevisti, ovvero la batteria dell'analogica che mi ha abbandonato appena caricato il rullino. Il progetto è tutto in pellicola e ho preferito non scattare in digitale nonostante la disponibilità di alternative in tal senso. Abbiamo quindi atteso che aprisse il negozio di fotografia per acquistare la batteria; a quel punto non spiccicare parola per tre ore sarebbe stato un po' eccessivo. E' finita che ci siamo raccontati un sacco di cose e col senno di poi credo che sia stato meglio così. Giorgio non è tanto timido, quanto chiuso. Sembra una contraddizione, ma in realtà non lo è: ha un modo di porsi gioviale e spiritoso, ma una volta giunti al citofono di casa sua non ti apre se gli dici semplicemente "sono io". Fai prima ad appoggiare una scala al muro e tentare l'entrata dalla finestra. Abbiamo scelto un set naturalistico, sotto un ponte in mezzo al verde, con l'insolito contrasto di alcune grosse casse nere contenenti, presumibilmente, materiale elettrico. Come sono poi andate le cose rimane tra noi; qui dico solo che il momento in cui mi ha, per così dire, aperto la porta principale non sarà durato più di quindici secondi - il tempo di due o tre scatti, su circa quarantacinque minuti di shooting. Una volta finito, abbiamo entrambi avvertito una sensazione di pace, mista a una strana stanchezza emotiva che si scaricava ora anche sul corpo. Se il terreno non fosse stato così melmoso, mi sarei volentieri sdraiata sul prato a godermi il contatto con la natura. E' stata una sessione molto piacevole, in cui il silenzio ha creato dialoghi interessanti.
Qui la sua versione.
Non conoscevo Giorgio di persona, cosa che nelle nostre intenzioni avrebbe costituito un dato interessante: avevamo deciso di non parlarci prima di scattare, per mantenere una sorta di tensione curiosa nell'avvicinamento del ritratto. Purtroppo sono stata vittima del più incredibile degli imprevisti, ovvero la batteria dell'analogica che mi ha abbandonato appena caricato il rullino. Il progetto è tutto in pellicola e ho preferito non scattare in digitale nonostante la disponibilità di alternative in tal senso. Abbiamo quindi atteso che aprisse il negozio di fotografia per acquistare la batteria; a quel punto non spiccicare parola per tre ore sarebbe stato un po' eccessivo. E' finita che ci siamo raccontati un sacco di cose e col senno di poi credo che sia stato meglio così. Giorgio non è tanto timido, quanto chiuso. Sembra una contraddizione, ma in realtà non lo è: ha un modo di porsi gioviale e spiritoso, ma una volta giunti al citofono di casa sua non ti apre se gli dici semplicemente "sono io". Fai prima ad appoggiare una scala al muro e tentare l'entrata dalla finestra. Abbiamo scelto un set naturalistico, sotto un ponte in mezzo al verde, con l'insolito contrasto di alcune grosse casse nere contenenti, presumibilmente, materiale elettrico. Come sono poi andate le cose rimane tra noi; qui dico solo che il momento in cui mi ha, per così dire, aperto la porta principale non sarà durato più di quindici secondi - il tempo di due o tre scatti, su circa quarantacinque minuti di shooting. Una volta finito, abbiamo entrambi avvertito una sensazione di pace, mista a una strana stanchezza emotiva che si scaricava ora anche sul corpo. Se il terreno non fosse stato così melmoso, mi sarei volentieri sdraiata sul prato a godermi il contatto con la natura. E' stata una sessione molto piacevole, in cui il silenzio ha creato dialoghi interessanti.
Qui la sua versione.
venerdì 9 settembre 2011
Cuts
E' paradossale, ma spesso diamo più peso alle mutilazioni che facciamo a parti di noi che sono già morte, come i capelli, piuttosto che a quelle che sono ancora vive, come i sogni.
It's paradoxical, but often we give more importance to mutilations we operate on parts of ourselves that are already dead, as hair, rather than those that are still alive, like dreams.
It's paradoxical, but often we give more importance to mutilations we operate on parts of ourselves that are already dead, as hair, rather than those that are still alive, like dreams.
mercoledì 7 settembre 2011
Within #5
(english translation below)
Luglio 2010, TPW con Settimio. Tra i suoi sette "tizi capitali" c'è anche lui, Mario Zanaria alias Zamario. Apro il suo portfolio e capisco subito di trovarmi davanti a qualcosa che mi piace - e manco poco. C'è più d'una di quelle che io chiamo foto degne di questo nome, che rispondono a un mio personale criterio: dopo averle viste, non posso più vivere senza, perchè mi s'incastonano dentro per qualche ragione e lì rimangono, magari scorrendo su piani mobili per sistemarsi laddove la mia maturazione visiva trasla con il passare del tempo.
Non avevo mai pensato di posare per lui: è un'idea che non ha più di una settimana di età e, come tutte le migliori intuizioni, ha trovato immediata realizzazione. L'aspetto curioso è che in realtà nello stesso momento gli ho chiesto di partecipare a sua volta al mio progetto di ritratto. Within numero cinque, dunque. Ma facciamo un passo indietro. Posare per Mario è stata un'esperienza di elettrizzante serenità: divertente, giocosa ma al tempo stesso dal respiro pieno e profondo. Un tessuto di trasparente familiarità impunturato di tanti momenti rivelatori, a sfociare ogni tanto in un'asola dal piglio più deciso.
Finita la sessione di lui a me, è iniziata quella di me a lui. Ciò che ho sperimentato questa volta è stata la sensazione di essere al contempo dietro e davanti all'obiettivo: il fatto di essere appena stata ritratta da lui ha fatto in modo che la demarcazione tra soggetto e oggetto subisse una specie di annacquamento. La natura del mio progetto, peraltro, ha proprio a che fare con il contatto, che in questo caso ha assunto una veste del tutto inedita rispetto ai precedenti. Anche quando avevo scattato Sinapsi - il secondo del progetto - c'era stata una sessione fotografica reciproca, ma il tipo di avvicinamento era stato diverso, cosa che si è infatti riflessa nella foto che ho scelto. Quelle a Mario devo ancora svilupparle, ma anche in questo caso penso di sapere già quale selezionerò. Intanto, questo è l'ultimo scatto della giornata, che mi piace in modo particolare perchè racconta la gioia che in quell'occasione ho riscoperto nel fotografare senza pensieri. Era tanto che non mi vedevo così.
Per chiudere, una segnalazione fresca di giornata: la mostra di Mario, che inaugura il 16 settembre alla galleria Bluorg di Bari e che potrete visitare fino al 16 ottobre.
July 2010, TPW workshop with Settimio. Among the "seven deadly dudes" of the class there is also Mario Zanaria, aka Zamario.
Luglio 2010, TPW con Settimio. Tra i suoi sette "tizi capitali" c'è anche lui, Mario Zanaria alias Zamario. Apro il suo portfolio e capisco subito di trovarmi davanti a qualcosa che mi piace - e manco poco. C'è più d'una di quelle che io chiamo foto degne di questo nome, che rispondono a un mio personale criterio: dopo averle viste, non posso più vivere senza, perchè mi s'incastonano dentro per qualche ragione e lì rimangono, magari scorrendo su piani mobili per sistemarsi laddove la mia maturazione visiva trasla con il passare del tempo.
Non avevo mai pensato di posare per lui: è un'idea che non ha più di una settimana di età e, come tutte le migliori intuizioni, ha trovato immediata realizzazione. L'aspetto curioso è che in realtà nello stesso momento gli ho chiesto di partecipare a sua volta al mio progetto di ritratto. Within numero cinque, dunque. Ma facciamo un passo indietro. Posare per Mario è stata un'esperienza di elettrizzante serenità: divertente, giocosa ma al tempo stesso dal respiro pieno e profondo. Un tessuto di trasparente familiarità impunturato di tanti momenti rivelatori, a sfociare ogni tanto in un'asola dal piglio più deciso.
Finita la sessione di lui a me, è iniziata quella di me a lui. Ciò che ho sperimentato questa volta è stata la sensazione di essere al contempo dietro e davanti all'obiettivo: il fatto di essere appena stata ritratta da lui ha fatto in modo che la demarcazione tra soggetto e oggetto subisse una specie di annacquamento. La natura del mio progetto, peraltro, ha proprio a che fare con il contatto, che in questo caso ha assunto una veste del tutto inedita rispetto ai precedenti. Anche quando avevo scattato Sinapsi - il secondo del progetto - c'era stata una sessione fotografica reciproca, ma il tipo di avvicinamento era stato diverso, cosa che si è infatti riflessa nella foto che ho scelto. Quelle a Mario devo ancora svilupparle, ma anche in questo caso penso di sapere già quale selezionerò. Intanto, questo è l'ultimo scatto della giornata, che mi piace in modo particolare perchè racconta la gioia che in quell'occasione ho riscoperto nel fotografare senza pensieri. Era tanto che non mi vedevo così.
Per chiudere, una segnalazione fresca di giornata: la mostra di Mario, che inaugura il 16 settembre alla galleria Bluorg di Bari e che potrete visitare fino al 16 ottobre.
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July 2010, TPW workshop with Settimio. Among the "seven deadly dudes" of the class there is also Mario Zanaria, aka Zamario.
martedì 23 agosto 2011
Erwoody
(english translation below)
Ah, che arroganza scrivere di Elliott Erwitt, non trovate? Sì, perchè al cospetto di costui ci si dovrebbe limitare a raggomitolarsi in un angolo con la propria reflex in grembo e accarezzarla consolandola del fatto che non partorirà mai cotante meraviglie. Questa in effetti è stata più o meno la mia reazione qualche giorno fa, al mio ritorno dalla mostra di Erwitt all'International Center of Photography (ICP) di New York. Più di un centinaio di stampe esposte e altrettanti colpi al cuore. Scegliere una foto (ma pure cinque o sei) da inserire in questo post sarebbe veramente arduo, quindi provo a passare dall'altra parte e metto questa.
E' l'autoritratto che campeggia alla fine del libro "Personal best", che peraltro è anche il nome della mostra. L'ho ripreso in mano per richiamare i sorrisi che le immagini in esso contenute mi hanno strappato quando le ho viste per la prima volta dal vero. Grandi, materiche, oltremodo parlanti. Guardando questa foto, seppur ricca di elementi distraenti, ciò che mi sono ritrovata a fissare erano quegli occhi dietro alle lenti. Viene da chiedersi quale magia sia ad essi sottesa, perchè è proprio da lì che è passato tutto quello che egli ha prodotto - dico "passato" perchè le immagini in realtà nascono ben al di sotto di quell'altezza. La fotografia è l'arte di osservare - dice Erwitt. Si tratta di trovare qualcosa d'interessante in un posto ordinario... ho capito che non è questione di cosa si vede ma di come lo si vede. Ecco, quelli qua sopra sono gli occhi con cui vedeva lui il mondo. Si legge nell'introduzione del libro: Erwitt captava situazioni della condizione umana che sapevano evocare tutto, dai sorrisi sardonici alle sghignazzate sincere. Quanti me ne sono usciti alla mostra, una volta terminata la visione della quale mi sono seduta al piano superiore, al grande tavolo bianco dove erano consultabili le cinque raccolte delle sue immagini edite da TeNeues. Prendendomi il mio tempo, ho letto le prefazioni e guardato tutte le fotografie, soffermandomi ogni tanto per trascrivere qualche nota, che riporto.
How arrogant it is to write about Elliott Erwitt... 'Cause in his presence one should only curl up in a corner, fondling his camera in his lap trying to cheer it up for not giving birth to such wonders. in fact more or less my reaction a few days ago when I got out of Erwitt's exhibition at the International Center of Photography (ICP) in New York. More than a hundred prints on display and as many heart attacks. It would be really difficult to choose a photo (or even five or six) to include in this post, so I'll try the other way around and put this one.
Ah, che arroganza scrivere di Elliott Erwitt, non trovate? Sì, perchè al cospetto di costui ci si dovrebbe limitare a raggomitolarsi in un angolo con la propria reflex in grembo e accarezzarla consolandola del fatto che non partorirà mai cotante meraviglie. Questa in effetti è stata più o meno la mia reazione qualche giorno fa, al mio ritorno dalla mostra di Erwitt all'International Center of Photography (ICP) di New York. Più di un centinaio di stampe esposte e altrettanti colpi al cuore. Scegliere una foto (ma pure cinque o sei) da inserire in questo post sarebbe veramente arduo, quindi provo a passare dall'altra parte e metto questa.
East Hampton, New York, 1998 |
E' l'autoritratto che campeggia alla fine del libro "Personal best", che peraltro è anche il nome della mostra. L'ho ripreso in mano per richiamare i sorrisi che le immagini in esso contenute mi hanno strappato quando le ho viste per la prima volta dal vero. Grandi, materiche, oltremodo parlanti. Guardando questa foto, seppur ricca di elementi distraenti, ciò che mi sono ritrovata a fissare erano quegli occhi dietro alle lenti. Viene da chiedersi quale magia sia ad essi sottesa, perchè è proprio da lì che è passato tutto quello che egli ha prodotto - dico "passato" perchè le immagini in realtà nascono ben al di sotto di quell'altezza. La fotografia è l'arte di osservare - dice Erwitt. Si tratta di trovare qualcosa d'interessante in un posto ordinario... ho capito che non è questione di cosa si vede ma di come lo si vede. Ecco, quelli qua sopra sono gli occhi con cui vedeva lui il mondo. Si legge nell'introduzione del libro: Erwitt captava situazioni della condizione umana che sapevano evocare tutto, dai sorrisi sardonici alle sghignazzate sincere. Quanti me ne sono usciti alla mostra, una volta terminata la visione della quale mi sono seduta al piano superiore, al grande tavolo bianco dove erano consultabili le cinque raccolte delle sue immagini edite da TeNeues. Prendendomi il mio tempo, ho letto le prefazioni e guardato tutte le fotografie, soffermandomi ogni tanto per trascrivere qualche nota, che riporto.
Michele Serra, ne "Le fotografie di Erwitt": Erwitt riesce a dare l'impressione di essere perfettamente cosciente della violenza irreparabile di ogni scatto. E che in forza di questa coscienza cerca di usare la sua arma con sorprendente delicatezza. Se dovessi essere fucilato, vorrei che fosse Erwitt a comandare il plotone di esecuzione.
Adam Gopnik, in "Erwitt a Parigi": Il tratto distintivo di Erwitt è l'humour, l'arguzia: non ritrae il momento decisivo, ma quello di felice scoperta. Un istante in cui due cose che sembrano non avere nulla in comune si trovano improvvisamente insieme in una fotografia che diventa silenziosa esplosione.
Ora, due frasi che per qualche motivo mi hanno preso letteralmente all'amo. La prima è dello stesso Erwitt, che descrive i suoi soggetti come persone che stanno andando altrove, con i loro sogni ben serrati dentro. Non solo la trovo una caratterizzazione di grande attualità, ma la sento anche molto mia. Sarei un buon soggetto per zio Elliott!
La seconda è sempre di Michele Serra ed è una sorta di ponte verso la seconda parte del post, che vi renderà chiaro anche il titolo dello stesso. Più bella è una fotografia, più grande è la nostalgia della vita che essa provoca. Il nuovo film di Woody Allen, Midnight in Paris, è una splendida rappresentazione della nostalgia della vita. Non voglio certo rovinarvi la sorpresa - mi pare che il film esca in Italia a dicembre - ma lasciare per lo meno una sorta di riflessione-teaser. Avrei sempre desiderato vivere negli anni '30, un po' come il protagonista del film, che trova la chiave di lettura alle sue insoddisfazioni presenti in un percorso di (potenzialmente infinita) rincorsa a ritroso delle diverse "epoche d'oro" di Parigi, muovendosi in uno stato di continua tensione all'interno delle illusioni nostalgiche che sono connaturate a ogni epoca della storia dell'arte. Io trovo che la nostalgia, dolce e amara allo stesso tempo, sia uno dei sentimenti più affascinanti che possano essere rappresentati, tanto in una fotografia quanto in un quadro, un film, una poesia, una musica e via dicendo. E' il ricordo di qualcosa che forse non abbiamo nemmeno vissuto, un sogno che desideriamo portare nella realtà ma non completamente. La nostalgia è questo movimento oscillatorio tra le rassicurazioni del presente e le illusioni del passato. Questa foto di Erwitt, per me, è nostalgia della vita.How arrogant it is to write about Elliott Erwitt... 'Cause in his presence one should only curl up in a corner, fondling his camera in his lap trying to cheer it up for not giving birth to such wonders. in fact more or less my reaction a few days ago when I got out of Erwitt's exhibition at the International Center of Photography (ICP) in New York. More than a hundred prints on display and as many heart attacks. It would be really difficult to choose a photo (or even five or six) to include in this post, so I'll try the other way around and put this one.
giovedì 18 agosto 2011
Non si scappa
Oggi, seduto davanti a un negozio a Soho questo ragazzo parlava con un amico. Gli ho chiesto di fotografarlo. Due scatti per prendere le misure, e poi questo. Dal contatto visivo non si scappa.
martedì 9 agosto 2011
Tuesday in NY
Terzo giorno a NY: diluvio universale. Segregati nel World Financial Center, dopo una lunga attesa e svariate secchiate di acqua dalla testa ai piedi, veniamo tratti in salvo da uno stormo di ombrelli neri. Atterrati a Soho, siamo gentilmente introdotti da Renato D'Agostin nella sua segreta (alias camera oscura) piena di foto da urlo. Il mio desiderio di imparare a stampare raggiunge un picco inedito. Birretta con racconti da pelle d'oca, ovviamente in tema di fotografia. Sfacciatamente richiesto dalla sottoscritta di una copia del suo libro "Tokyo untitled", il D'Agostin vi appone dedica autografata che ha l'indecifrabilità delle ricette mediche di mio padre. A occhio e croce sembra "A Francesca, vaffanculo Renato" ma ho il sospetto di sbagliarmi. Giovane dai colori chiari sia nei capelli che negli occhi, è di una gentilezza genuina e senza fronzoli. Tra le sue parole fa capolino una timidezza composta, accompagnata da una fine consapevolezza di sè. Pur dedicandoci a generi fotografici in parte diversi, il terreno comune è vasto. Un incontro molto interessante, da ripetere sicuramente prima del ritorno in patria. Thumbs up.
domenica 31 luglio 2011
TPW 2011
Bisogno di fare silenzio, adesso. Solo due musiche hanno il permesso di romperlo: A light so dim dei Black Heart Procession e Il cigno dal Carnevale degli animali di Saint Saens. Ognuna ha una storia e questo sarà il mio modo di raccontarvi il TPW di quest'anno. Vi parlerò di ciò che ho recepito, di Anders, delle persone che ho incontrato, delle fotografie che ho fatto.
A LIGHT SO DIM
Provo a tornare nel pozzo lungo il quale mi sono calata negli ultimi cinque giorni. Intorno a me nè buio nè luce, ma una penombra nella quale scorrono immagini forti, parlanti. In esse non c'è nè esasperazione nè contenimento, nè cupezza nè gioiosità: nulla è classificabile univocamente, perché tutto è sogno, visione, demoni, fantasia, mistero. Quelle fotografie sono eterne perché provocano altre domande invece di fornire risposte. E' una dimensione senza geografia nè orologi, dove e quando ogni rappresentazione è possibile e i concetti di definizione e giudizio non trovano ragione d'essere. Si tratta semmai di richiami, bisbigli, echi scomposti, guizzi improvvisi del nostro essere profondo.
A light so dim è stato l'accompagnamento musicale dello slideshow finale, che come lo scorso anno è stato un momento di grande emozione e coesione del gruppo. Surprised by the unpredictable era il titolo del workshop di Anders Petersen e devo dire che ha mantenuto ben più di quanto promesso. Di seguito alcuni dei miei appunti, che lascio così come li ho presi per far sì che rimanga intatto nella mia mente il suono della voce chiara e squillante di Anders, come in un film in lingua originale.
Photography is not about answers but about questions. And even when you find answers you have to question those answers.
Photography is not about being nice: photography is cutting. You have to be sharp like a razor blade. Be horrible, in a human way. Be stupid. Leave obviousness and go for emotion in an animalistic, primitive way. You have to photograph like a dog, be on your knees. Be a thief of what surrounds you, get rid of safety, sharpen your pyramid and get to the acme where the tension is. And act.
Don't complicate things, keep it simple and straight. Don't think.
Be very strong or even very weak. Be naive, be afraid. Put in your pictures your longings, your dreams and nightmares.
Keep a close distance when taking pictures: teach yourself to be inside and outside things at the same time.
Tear down, destroy and re-build beauty. Don't be seduced by the beauty of a woman or man. The spectator shouldn't be invited by beauty, but by the magic, by your demons.
Be cruel, true to yourself, honest to the world. Go down in the dirt to find the vitamins there. You just have to trust yourself and something extraordinary will happen. You have to understand you are unique.
ANDERS PETERSEN
Ha sessantasei anni, è svedese e parla inglese con un accento un po' duro. Quando analizza le foto ha una serie di formule tutte sue, che noi abbiamo imparato rapidamente e che inevitabilmente ora fanno parte anche del nostro vocabolario quotidiano. I suoi movimenti sono insoliti, è come se fosse in una costante torsione, il suo corpo si tende e si piega continuamente, ai limiti del grottesco. Le sue espressioni facciali sono uno spettacolo, le sue esclamazioni indimenticabili. Ogni volta che qualcosa in una foto lo colpisce è come se all'improvviso scoprisse qualcosa che non aveva mai conosciuto prima: si lascia sorprendere e con istinto fulmineo capisce se una foto funzioni oppure no.
A LIGHT SO DIM
Provo a tornare nel pozzo lungo il quale mi sono calata negli ultimi cinque giorni. Intorno a me nè buio nè luce, ma una penombra nella quale scorrono immagini forti, parlanti. In esse non c'è nè esasperazione nè contenimento, nè cupezza nè gioiosità: nulla è classificabile univocamente, perché tutto è sogno, visione, demoni, fantasia, mistero. Quelle fotografie sono eterne perché provocano altre domande invece di fornire risposte. E' una dimensione senza geografia nè orologi, dove e quando ogni rappresentazione è possibile e i concetti di definizione e giudizio non trovano ragione d'essere. Si tratta semmai di richiami, bisbigli, echi scomposti, guizzi improvvisi del nostro essere profondo.
A light so dim è stato l'accompagnamento musicale dello slideshow finale, che come lo scorso anno è stato un momento di grande emozione e coesione del gruppo. Surprised by the unpredictable era il titolo del workshop di Anders Petersen e devo dire che ha mantenuto ben più di quanto promesso. Di seguito alcuni dei miei appunti, che lascio così come li ho presi per far sì che rimanga intatto nella mia mente il suono della voce chiara e squillante di Anders, come in un film in lingua originale.
Photography is not about answers but about questions. And even when you find answers you have to question those answers.
Photography is not about being nice: photography is cutting. You have to be sharp like a razor blade. Be horrible, in a human way. Be stupid. Leave obviousness and go for emotion in an animalistic, primitive way. You have to photograph like a dog, be on your knees. Be a thief of what surrounds you, get rid of safety, sharpen your pyramid and get to the acme where the tension is. And act.
Don't complicate things, keep it simple and straight. Don't think.
Be very strong or even very weak. Be naive, be afraid. Put in your pictures your longings, your dreams and nightmares.
Keep a close distance when taking pictures: teach yourself to be inside and outside things at the same time.
Tear down, destroy and re-build beauty. Don't be seduced by the beauty of a woman or man. The spectator shouldn't be invited by beauty, but by the magic, by your demons.
Be cruel, true to yourself, honest to the world. Go down in the dirt to find the vitamins there. You just have to trust yourself and something extraordinary will happen. You have to understand you are unique.
ANDERS PETERSEN
Ha sessantasei anni, è svedese e parla inglese con un accento un po' duro. Quando analizza le foto ha una serie di formule tutte sue, che noi abbiamo imparato rapidamente e che inevitabilmente ora fanno parte anche del nostro vocabolario quotidiano. I suoi movimenti sono insoliti, è come se fosse in una costante torsione, il suo corpo si tende e si piega continuamente, ai limiti del grottesco. Le sue espressioni facciali sono uno spettacolo, le sue esclamazioni indimenticabili. Ogni volta che qualcosa in una foto lo colpisce è come se all'improvviso scoprisse qualcosa che non aveva mai conosciuto prima: si lascia sorprendere e con istinto fulmineo capisce se una foto funzioni oppure no.
Tutti noi ci siamo affezionati moltissimo a lui, era un po' come uno zio. Piuttosto che separarcene ci saremmo attaccati chi a un polpaccio chi a un braccio... Ha uno sguardo penetrante: mentre parla - ma anche quando è in silenzio - i suoi occhi esercitano un magnetismo irresistibile. La sua capacità di osservare e la sua sensibilità sono fuori dal comune. E' estremamente aperto, ascolta moltissimo, sa calarsi nelle storie e accogliere la visione altrui pur rimanendo sempre coerente con se stesso. E' una delle persone più autenticamente "di pancia" che abbia mai incontrato. Gli voglio bene e lui lo sa.
LA CLASSE
Quest'anno eravamo in tredici, un numero decisamente alto per un workshop di questo tipo, in cui si va molto in profondità nel lavoro individuale. Sette uomini e sei donne; sette italiani e sei stranieri provenienti da Turchia, Estonia, Brasile, Norvegia. Età dai 17 ai 50 anni. Un gruppo quindi eterogeneo ma straordinariamente coeso. Marco C. e Marco O. li conoscevo già bene, mentre dei nuovi ho legato in modo particolare con Sara, architetto di Roma che tra l'altro abita a due passi da me e con la quale potrò continuare a vedermi. Anche con Valeria, coetanea di Milano, ho trovato una bella sintonia e c'incontreremo sicuramente ancora.
Ecco la foto di gruppo che abbiamo scattato l'ultimo giorno, mentre teniamo in mano dei cartelli con scritte tutte le frasi che Anders usava per commentare i lavori (cliccare per ingrandire).
Oltre ai compagni di corso, voglio qui parlare anche dell'assistente del nostro gruppo, Mika. Essendo sempre presa dal lavoro, non abbiamo avuto modo di parlare moltissimo, ma ci sono bastati pochi gesti e parole per capirci. Con lei è nato uno di quegli amori che non si possono spiegare perchè non hanno una ragione precisa. A volte nella vita gli incontri più speciali nascono quasi dal nulla, grazie a un'intuizione improvvisa. Avremmo voluto fare il ritratto per il mio progetto dei Musi, ma non abbiamo avuto il tempo materiale e la tranquillità che meritava. A settembre tornerà a vivere a New York, dove fa da assistente a un fotografo, ma prima di allora ci rivedremo sicuramente per le foto e molto altro. Mi dispiace non poterla frequentare facilmente, ma per me è già bellissimo averla conosciuta. Eccoci, prima della partenza.
THE FEVER
Durante i primi due giorni Anders ha letto i nostri portfoli con grande attenzione, ascoltando la nostra presentazione. Ho mostrato alcuni miei più recenti lavori, nei quali mi ritrovo di più, raccontando il mio rapporto con i soggetti o come fossero nate le foto. Mi ha fatto le debite critiche, e alla fine mi ha detto questo.
You have the fever. Not many people have that kind of fever, that vibration you have in telling stories and feelings through images. People actually train to have that fever, without reaching it. You have talent.
FAKE PLASTIC TREES - WITHIN #4
All'ora del tramonto di venerdì, prima della proiezione, ho scattato il terzo Within: Marco. La musica scelta da lui è un pezzo dei Radiohead, Fake plastic trees. La location era splendida, una specie di rimessa degli attrezzi da giardino con un lato a tutta vetrata. Ho fatto sedere il mio soggetto per terra, appoggiato a delle assi di legno. Questo ritratto non è stato semplice, perchè conosco Marco abbastanza bene e so che questo è un periodo piuttosto difficile per lui, per svariate ragioni. L'avevo già fotografato un paio di sere prima, ma questo caso era molto diverso, almeno per me. Essendo un fotografo professionista, conosce molto bene le dinamiche del ritratto ed è stato come se lui fosse in un certo senso sempre dietro all'obiettivo con me, invece che davanti ad esso. La luce era fantastica, la location anche, la musica era la sua, io c'ero al 100%... ma non sono certa che l'esperimento sia riuscito. Voglio dire, le foto ci sono, non ho alcun dubbio, anche se non le ho ancora portate a sviluppare. E credo che siano anche belle. Però non sono sicura che ci fosse pienamente lui e, di conseguenza, il noi che cerco in questo progetto. Vedremo tra qualche giorno. Ho smaltito le sensazioni di questo ritratto standomene da sola per un po' nel grande giardino del monastero, finchè non è sceso il sole dietro le colline alla mia destra.
ANDERS E JULIA - WITHIN #3
Per tutta la settimana è stata a Cortona anche la fidanzata di Anders, Julia, una svedese con il viso da giapponese. Ricorda lontanamente Bjork, come tipo. Erano bellissimi da vedere insieme. Il primo giorno ho chiesto ad Anders di posare per il mio progetto Within. L'idea - che peraltro molti di voi ancora non conoscono - gli è piaciuta molto e ha acconsentito. Ho voluto aspettare la tranquillità dell'ultima sera, anche per poter mettere in pratica gli insegnamenti della settimana. E così, dopo la proiezione finale e il brindisi di rito, si è reso disponibile per le foto. Inaspettatamente si è unita a noi due anche Julia e a quel punto ho realizzato che il ritratto one-to-one sarebbe diventato one-to-two. Ho scelto la semplicità di un muro all'interno della grande sala della proiezione - se c'è una pecca enorme in quell'edificio è la qualità indecente dell'illuminazione artificiale, quasi del tutto al neon - e ho portato con me il Mac per la musica e la macchina analogica con le pellicole. Qualche ora prima avevo chiesto ad Anders che musica gli piacesse e mi ha risposto "I love listening to cello". Qualcuno di voi saprà del mio amore per il violoncello, ragion per cui il mio iTunes ne era discretamente fornito. Avevo quindi selezionato alcuni brani abbastanza vivaci, che secondo me potevano ben adattarsi a lui, e come unico pezzo lento ho inserito Il cigno di Saint Saens, nella versione suonata dal celebre violoncellista Yo-Yo Ma. Appena ho capito che li avrei ritratti insieme, non ho avuto dubbi e ho fatto partire proprio quella musica. L'acustica della sala era tale per cui la scarsa potenza delle casse del mio Mac venisse in realtà enormemente amplificata. Immaginate quindi questa grande sala, con una luce abbastanza fioca e uniforme, due sedie contro il muro, il silenzio di rito da me imposto durante gli scatti, questa musica stupenda e davanti a me Anders e Julia. Otto minuti per una trentina di scatti in tutto. Lui ascoltava ad occhi chiusi, e la sola cosa che ha detto è stata "This is really a beautiful music. What you are doing is very difficult, my friend. Very difficult to picture this". Julia guardava un po' in basso e un po' me, per poi alzare timidamente lo sguardo su di lui, che la cingeva con il braccio. Ricordo con precisione uno scatto, che potrebbe essere quello che sceglierò per il progetto, in cui mi sono spostata di fianco a lei in modo da avere sulla stessa linea anche Anders. Stavo fotografando la mano di lui sul braccio di lei, quando d'un tratto lui ha guardato in macchina. In quell'istante brevissimo ho spostato il fuoco su di lui e ho scattato. Sono tornata in posizione frontale e ho fatto qualche altra foto, lasciandomi il trentaseiesimo fotogramma libero. La sessione a due era finita e lei si era alzata, ma lui era rimasto ancora un istante seduto per finire di ascoltare la musica. Mi sono quindi avvicinata mentre stavamo ringraziandoci reciprocamente e ho alzato di nuovo la macchina per quell'ultimo scatto. Lui mi stava già guardando e avrei potuto premere il pulsante dell'otturatore, ma ho voluto osare e mettere in pratica uno dei consigli che ci ha dato in settimana: provare, a un certo punto, a fare o far fare qualcosa d'insolito al soggetto. Qualcosa di inaspettato, che induca in lui una reazione. Senza staccare la macchina dal viso ho allungato una mano verso di lui, che l'ha presa e stretta nella sua. A quel punto ho scattato. Mi ha detto "Take care", entrambi mi hanno ringraziato e chiesto di mandargli poi le foto. Ho chiuso la porta della grande sala, mi sono lasciata cadere sulla sedia con ancora la musica che andava e ho pianto a lungo. Lo faccio ancora ogni volta che la sento.
lunedì 4 luglio 2011
Rock on!
Sono le 5.50 del mattino di lunedì, ma se vogliamo anche notte fonda di domenica. Scrivo ora perchè domani non sarà più lo stesso. Ho la musica bassissima, ma c'è, come sempre: suona Oren Lavie. Ho chiacchierato tutta notte e delirato allegramente con Anna e Jules, dopo aver provato un'emozione intensa e inaspettata nel leggere il post di Toni su Claudio. Prendete questi pensieri con il beneficio dell'orario (ma ha senso quest'espressione? boh, prendete anch'essa con il beneficio dell'orario), ma ciò che ho letto mi è arrivato dritto come un fuso. Come ogni volta che Toni si esprime, del resto - e non lo dico per piaggeria.
Io non posso dire di conoscere Claudio così bene, il mio è più un averlo intuito, una questione di sintonia, un ascolto partito da lontano e avvicinatosi in tempi recenti. Il ritratto che ne ha fatto Toni - e parlo sia di quello a parole che in foto - mi è sembrato totalmente in linea con quanto ho intravisto in questo cavallo ancora un po' imbizzarrito, per riprendere la metafora usata nel post.
Sì, mi mancherà.
Sì, ci si rivedrà.
Sì, ci si sentirà.
Però quando uno parte, parte. Non è mai la stessa cosa, seppur abitassimo anche prima in città diverse. E in questo strano dispiacere, in realtà temperato dall'idea di saperlo felice e nel suo elemento a Barcellona, c'è però una certezza che mi fa sorridere: il fatto che manterrà sempre quella freschezza che gli è propria, la sana incoscienza, quell'essere un po' cazzaro e un po' saggio, proprio con quel sorriso che campeggia nella foto di Toni. Abbiamo in sospeso delle fotografie da scattare per un mio progetto e anche prima di averle fatte io me lo immagino già mentre si esalta ascoltando gli AC/DC a tutto volume. Che adesso quel ragazzo avrà anche le spalle dritte, ma sempre rock rimane.
Io non posso dire di conoscere Claudio così bene, il mio è più un averlo intuito, una questione di sintonia, un ascolto partito da lontano e avvicinatosi in tempi recenti. Il ritratto che ne ha fatto Toni - e parlo sia di quello a parole che in foto - mi è sembrato totalmente in linea con quanto ho intravisto in questo cavallo ancora un po' imbizzarrito, per riprendere la metafora usata nel post.
Sì, mi mancherà.
Sì, ci si rivedrà.
Sì, ci si sentirà.
Però quando uno parte, parte. Non è mai la stessa cosa, seppur abitassimo anche prima in città diverse. E in questo strano dispiacere, in realtà temperato dall'idea di saperlo felice e nel suo elemento a Barcellona, c'è però una certezza che mi fa sorridere: il fatto che manterrà sempre quella freschezza che gli è propria, la sana incoscienza, quell'essere un po' cazzaro e un po' saggio, proprio con quel sorriso che campeggia nella foto di Toni. Abbiamo in sospeso delle fotografie da scattare per un mio progetto e anche prima di averle fatte io me lo immagino già mentre si esalta ascoltando gli AC/DC a tutto volume. Che adesso quel ragazzo avrà anche le spalle dritte, ma sempre rock rimane.
martedì 21 giugno 2011
"Yes, that's it"
Intervista del fotografo Frank Horvat a Sarah Moon, una delle mie più apprezzate figure di riferimento. Molti i temi toccati, uno dei quali mi è particolarmente vicino ora che mi appresto a partecipare al workshop "Surprised by the unpredictable" di Anders Petersen al TPW.
martedì 7 giugno 2011
Michel (rac)Comte
Pacco per me, questa mattina. Amazon.it scritto sul cartone. Apro, estraggo il pesante Michel Comte - Thirty years and five minutes già con l'acquolina in bocca. Qualche giorno fa sono andata a vedere la sua mostra alla Triennale ed è stata un'autentica goduria. Ottantasei fotografie (più una stanzetta coi provini di vari servizi a celebrities), delle quali conoscevo già la maggior parte ma che non avevo mai visto stampate in quelle dimensioni. Ben tredici immagini hanno come co-protagonista la sigaretta, in perfetto stile nineties. E' stato anche un po' un tuffo nel passato, perchè alcune di quelle immagini le avevo scoperte ai tempi in cui furono pubblicate per la prima volta. Ahimè, la mia collezione di Vogue Italia dal 1991 in poi è finita al macero grazie all'insistenza di mio padre, che non sapeva più dove mettere tutte quelle copie di cui non capiva il valore - ok, lo ammetto: ho perso quelle foto per mia negligenza nel non ritagliarmi almeno i redazionali... ma ero giovane e stupida (ora sono rimasta solo stupida e lo considero un complimento). Comunque, torniamo al libro. Non sono qui per raccontarlo - chiunque lo voglia vedere e apprezzare, come senz'altro merita, lo può acquistare - quanto per commentare un fatto che riscontro praticamente ogni volta che leggo la biografia di un artista famoso. E' tutta gente che molto spesso non cresce con il background necessario alla professione in cui avrà poi successo, ma (solo) con una grande e innata passione per qualcosa; a quel punto, un genitore o una figura simile fornisce all'artista in erba uno strumento per sviluppare il suo talento. Fin qui tutto bene. Poi succede questo: "La prima occasione gliela offre, nel 1979, Franca Sozzani che lo impiegherà regolarmente per Lei e Per Lui". "Prima occasione" e "Franca Sozzani" nella stessa frase come ci sono finiti?! Questo buco temporale tra quando sta solo scattando un po' di foto e quando finisce alla corte della bionda signora come lo riempiamo?! E pensare che è lo stesso ragazzo che ha rifiutato un posto da assistente per David Bailey. Sia chiaro, non sto discutendo nè i modi nè il talento... però porca paletta, raccontalo come ci sei arrivato, almeno in un libro con il tuo nome stampato a caratteri cubitali! Ah già, non fa figo abbastanza. E non è per sapere come si fa, perchè sicuramente è un insieme di cose ben note a tutti - talento, gavetta e una bella botta alla dea bendata - ma perchè a me (e a buona parte del mondo, a giudicare da quel discreto business che si chiama editoria) piacciono le storie e queste persone ne hanno da vendere... E invece no, tutti a dare notizie scarne, fredda cronaca, elenchi di mostre/pubblicazioni ecc. Tizio nasce a X nel 19xx, poi si trasferisce a Y, dove conosce Caio e comincia a frequentare Sempronio. Diventa assistente di Richard Avedon. Espone al Moma. Dal suo primo matrimonio gli nasce Gesù. E così via. Raccontare gente, raccontare...
venerdì 3 giugno 2011
Collezionismo di curiosità
Gli uomini che inseguono una moltitudine di donne possono facilmente essere distinti in due categorie. Gli uni cercano in tutte le donne la donna dei loro sogni, un’idea soggettiva e sempre uguale. Gli altri sono mossi dal desiderio di impadronirsi dell’infinita varietà del mondo femminile oggettivo. L’ossessione dei primi è lirica: nelle donne essi cercano se stessi, il proprio ideale, e sono sempre e continuamente delusi perchè l’ideale, com’è noto, è ciò che non è mai possibile trovare. Poichè la delusione che li spinge da una donna all’altra dà alla loro incostanza una sorta di scusa romantica, molte donne sentimentali sono commosse dalla loro ostinata poligamia.
L’altra ossessione è un’ossessione epica e in essa le donne non trovano nulla di commovente: l’uomo non proietta sulle donne alcun ideale soggettivo, perciò ogni cosa lo interessa e nulla può deluderlo. E proprio questa incapacità di rimanere delusi ha in sé qualcosa di scandaloso. Agli occhi della gente, l’ossessione del donnaiolo epico appare senza riscatto (senza il riscatto della delusione). Poichè il donnaiolo lirico insegue sempre lo stesso tipo di donna, nessuno si accorge che egli cambia amante; gli amici gli causano continui malintesi, perchè non sono capaci di distinguere le sue amiche e le chiamano tutte con lo stesso nome. Nella loro caccia alla conoscenza, i donnaioli epici si allontanano sempre di più dalla bellezza femminile convenzionale, della quale si stancano presto, e finiscono irrimediabilmente per diventare dei collezionisti di curiosità.
(da "L'insostenibile leggerezza dell'essere", Milan Kundera)
L’altra ossessione è un’ossessione epica e in essa le donne non trovano nulla di commovente: l’uomo non proietta sulle donne alcun ideale soggettivo, perciò ogni cosa lo interessa e nulla può deluderlo. E proprio questa incapacità di rimanere delusi ha in sé qualcosa di scandaloso. Agli occhi della gente, l’ossessione del donnaiolo epico appare senza riscatto (senza il riscatto della delusione). Poichè il donnaiolo lirico insegue sempre lo stesso tipo di donna, nessuno si accorge che egli cambia amante; gli amici gli causano continui malintesi, perchè non sono capaci di distinguere le sue amiche e le chiamano tutte con lo stesso nome. Nella loro caccia alla conoscenza, i donnaioli epici si allontanano sempre di più dalla bellezza femminile convenzionale, della quale si stancano presto, e finiscono irrimediabilmente per diventare dei collezionisti di curiosità.
(da "L'insostenibile leggerezza dell'essere", Milan Kundera)
mercoledì 4 maggio 2011
venerdì 22 aprile 2011
Le rassicuranti mura di casa
Stasera ho passato un'oretta in compagnia dei video di Jan Švankmajer: l'ho trovato assolutamente geniale. Non spendo altre parole e lascio spazio alle immagini.
mercoledì 9 marzo 2011
Io e le formiche
Oggi mi è arrivato il pacco dei libri su musica e cinema. Mi sembra Natale. Li sfoglio impaziente cercando di capire da quale voglia cominciare: non so decidere. Intanto, mi concedo un po' del già iniziato Verbale scritto di Bruno Munari, perfetto per le piccole pause. Questa cosa, ad esempio, l'ho sempre pensata, guardando le formiche.
Guardo la processione delle formiche
tra erba e sassi nel loro sentiero privato
loro non mi vedono
non sanno che esisto
vanno continuamente avanti e indietro
in due colonne ordinate
chi porta un frammento di foglia
chi si ferma a chiacchierare con le antenne di un'altra formica
secondo i programmi della loro collettività.
Mi volto a guardare verso il cielo
per vedere se c'è qualche essere gigantesco e invisibile
come io sono per le formiche
che mi sta osservando ma che io non vedo
non vedo nessuno
ma non posso sapere se c'è o se non c'è.
(B. Munari)
Guardo la processione delle formiche
tra erba e sassi nel loro sentiero privato
loro non mi vedono
non sanno che esisto
vanno continuamente avanti e indietro
in due colonne ordinate
chi porta un frammento di foglia
chi si ferma a chiacchierare con le antenne di un'altra formica
secondo i programmi della loro collettività.
Mi volto a guardare verso il cielo
per vedere se c'è qualche essere gigantesco e invisibile
come io sono per le formiche
che mi sta osservando ma che io non vedo
non vedo nessuno
ma non posso sapere se c'è o se non c'è.
(B. Munari)
lunedì 7 marzo 2011
Interiors
Sono per i post brevi, ultimamente. E' tardi e devo riposare, se non voglio che questa settimana finisca (di nuovo) in un bagno di sangue. Però voglio ricordarmelo il giorno in cui ho rivisto Interiors di W. Allen. E' un film che ha press'a poco la mia età, e proprio ora che ho trentadue anni lo guardo e lo ascolto provando con esso una profonda affinità. Un contributo dello stesso regista, per chi di voi non avesse presente di cosa tratti.
Una delle cose che mi hanno colpito di più è la totale assenza di musica durante tutta la pellicola. Nemmeno sui titoli. Il solo rumore è quello del mare agitato e grigio. Quanto sentite sono le vicende umane delle protagoniste, quanto vere e ricorrenti esse possono essere nella vita di ognuno di noi. Il bisogno di controllare ogni cosa diventa nevrosi. Le conflittualità, le invidie, le frustrazioni, i sensi di colpa, i meccanismi che portano ad auto-punirsi e ad autocommiserarsi. Non ho mai pensato a come possano sentirsi le persone come Joey, incapace di esprimere quello che sente, né in grado di riconoscerlo. Ci sono un paio di passaggi molto intensi in cui lei parla proprio di questo e del modo in cui sente le emozioni esploderle dentro senza saperle esternare. E poi c'è Renata, interpretata da una fantastica Diane Keaton, che, è vero, sarà sempre uguale a se stessa ma qui la trovo particolarmente nella parte. All'inizio, appena dopo il passaggio ripreso nel video, dice: "Il risultato è la mia paralisi creativa". Ecco, io mi ci sono molto ritrovata in questa frase, perché è la situazione che spesso provo stando qui a Roma.
Le atmosfere di questo film, il cui titolo è così incredibilmente adatto e denso di significati, mi sono sembrate terribilmente reali. Pesanti, scolorite, spoglie, lente, imbrogliate l'una sull'altra. Questi interni che cercano di uscire allo scoperto con rabbia, senza mai riuscirci appieno se non provocando spaccature, ferimenti, tragedie. Non è cinema: è vita intima, interiore.
Una delle cose che mi hanno colpito di più è la totale assenza di musica durante tutta la pellicola. Nemmeno sui titoli. Il solo rumore è quello del mare agitato e grigio. Quanto sentite sono le vicende umane delle protagoniste, quanto vere e ricorrenti esse possono essere nella vita di ognuno di noi. Il bisogno di controllare ogni cosa diventa nevrosi. Le conflittualità, le invidie, le frustrazioni, i sensi di colpa, i meccanismi che portano ad auto-punirsi e ad autocommiserarsi. Non ho mai pensato a come possano sentirsi le persone come Joey, incapace di esprimere quello che sente, né in grado di riconoscerlo. Ci sono un paio di passaggi molto intensi in cui lei parla proprio di questo e del modo in cui sente le emozioni esploderle dentro senza saperle esternare. E poi c'è Renata, interpretata da una fantastica Diane Keaton, che, è vero, sarà sempre uguale a se stessa ma qui la trovo particolarmente nella parte. All'inizio, appena dopo il passaggio ripreso nel video, dice: "Il risultato è la mia paralisi creativa". Ecco, io mi ci sono molto ritrovata in questa frase, perché è la situazione che spesso provo stando qui a Roma.
Le atmosfere di questo film, il cui titolo è così incredibilmente adatto e denso di significati, mi sono sembrate terribilmente reali. Pesanti, scolorite, spoglie, lente, imbrogliate l'una sull'altra. Questi interni che cercano di uscire allo scoperto con rabbia, senza mai riuscirci appieno se non provocando spaccature, ferimenti, tragedie. Non è cinema: è vita intima, interiore.
mercoledì 16 febbraio 2011
L'orologio in rosso
In giornate come questa scriverei un intero libro. Nonostante la luce al neon, la presenza dei colleghi nella stanza e un lavoro aberrante che si avvicina inesorabile come l'alta marea, cerco di ritornare là fuori, sul ponte Cavour; a quando, qualche ora fa, ero.
Finalmente a Roma piove e io trovo, nella calma rilassata del mio camminare sotto queste gocce, il perfetto accordo con il mio interno. "Com'è musicale tutto questo", penso. Sul ponte Cavour il vento soffia sempre, cambiando direzione ogni secondo. Ciocche di capelli si alzano come tirate da fili invisibili, finendomi immancabilmente sul viso, impedendomi la vista e prendendo pieghe inusuali. A volte capita che i capelli mi facciano sentire estranea a me stessa: basta che si sposti la riga, anche di poco, e percepisco un netto cambiamento sul mio cranio. Come se avessi confuso il sale con lo zucchero. Ora, mentre cammino sotto l'ombrello, vedo i miei riccioli volarmi davanti agli occhi e sento la gonna alzarsi a scoprire le gambe rosso fuoco. Questa mattina ho indossato il mio colore preferito e lo sento scaldarmi il pensiero anche da sotto la giacca. Le note di un pianoforte mi ticchettano nelle orecchie con sincopata regolarità, prima ancora che possa scoprire che il pezzo che sto ascoltando, adesso per la prima volta, s'intitola proprio L'orologio.
Finalmente a Roma piove e io trovo, nella calma rilassata del mio camminare sotto queste gocce, il perfetto accordo con il mio interno. "Com'è musicale tutto questo", penso. Sul ponte Cavour il vento soffia sempre, cambiando direzione ogni secondo. Ciocche di capelli si alzano come tirate da fili invisibili, finendomi immancabilmente sul viso, impedendomi la vista e prendendo pieghe inusuali. A volte capita che i capelli mi facciano sentire estranea a me stessa: basta che si sposti la riga, anche di poco, e percepisco un netto cambiamento sul mio cranio. Come se avessi confuso il sale con lo zucchero. Ora, mentre cammino sotto l'ombrello, vedo i miei riccioli volarmi davanti agli occhi e sento la gonna alzarsi a scoprire le gambe rosso fuoco. Questa mattina ho indossato il mio colore preferito e lo sento scaldarmi il pensiero anche da sotto la giacca. Le note di un pianoforte mi ticchettano nelle orecchie con sincopata regolarità, prima ancora che possa scoprire che il pezzo che sto ascoltando, adesso per la prima volta, s'intitola proprio L'orologio.
venerdì 21 gennaio 2011
Blind date
Ancora prima di uscire di casa sapevo che avrei passato il resto della serata a scrivere, perchè quello cui mi stavo dirigendo era l'appuntamento per me più atteso degli ultimi mesi: "Blind date", il concerto al buio di Cesare Picco. Ero emozionata quando ho spento la luce prima di chiudere la porta, consapevole che al mio ritorno nulla sarebbe stato lo stesso.
Mi trovo un po' in difficoltà nell'affrontare questo post. Innanzitutto perchè, ancora presa dallo scombussolamento dell'evento, non ho ancora pienamente recuperato il linguaggio verbale. In secondo luogo perchè mentre ero nel teatro ero una tela sulla quale le emozioni arrivavano addosso come secchiate di vernice, mentre adesso, per essere efficace nelle mie descrizioni, devo cercare di tornare in quel mondo dalla sedia su cui sono seduta, nella mia camera. Mi aiuta il fatto di essere venuta poco fa in possesso della registrazione del primo "Blind date" (avvenuto nel 2009 a Milano), in vendita all'uscita dal concerto insieme agli altri dischi di Picco, che in parte possedevo. Ma ora basta con tutti questi cappelli introduttivi... togliamoceli e vediamo di tornare a teatro.
"Si suona ad occhi chiusi, al buio e a memoria." (F. Chopin)
Le luci calde dei riflettori bagnano il palcoscenico per i primi minuti. Lentamente i volumi si perdono in semplici e sottili linee gialle. La tastiera del pianoforte diventa un mare calmo di piccole fiamme, le cui bave si alzano e si abbassano accarezzate dalle mani di Cesare. Rimane un solo occhio di bue verticalmente sopra alla sua testa. I miei bulbi si aggrappano agli ultimi centimetri di contorni rimasti, fino a perdersi del tutto nel buio più totale. Come se avessi mollato la presa del salvagente, mi lascio trasportare dalla corrente, con fiducia. Eppure sono distratta dall'assenza della vista. Non riesco a concentrarmi sulla musica, perchè sto sperimentando tutto il resto di me che normalmente dimentico. Capisco di essere presente con tutta me stessa lì, in quel momento. La mente continua a lavorare. Mentre le arti figurative come la pittura non godono dell'immediatezza dell'attimo - e nemmeno la fotografia lo fa completamente - l'improvvisazione musicale ha questo carattere d'indubitabile contemporaneità tra il concepimento e la nascita dell'idea. E' lì con te, sta accadendo in quel momento, e mai sarà uguale in un altro istante del mondo. Cesare è il tramite geniale di tutto questo: lo cerco - senza realmente cercarlo - con lo sguardo e mi accorgo di avere gli occhi spalancati. Non sento nemmeno il bisogno di sbatterli. La fronte è sollevata, la bocca contratta. Ogni parte di me è protesa all'ascolto di lui e di me stessa. La musica scivola da melodie morbide e delicate a sussulti gravi e dissonanti, lasciandosi fare a tratti compagnia da suoni quasi psichedelici, percussioni delle mani sul legno, graffiate direttamente sulle corde, forti respiri e deboli fischi del pianista. Le sonorità di Gershwin, Debussy e lo stile dei pezzi di Picco si mescolano in un insieme indefinibile. Sonaglietti agitati e quasi liquidi mi fanno pensare a branchi di piccoli pesci colorati. Ho gli occhi lucidi e lascio scendere le lacrime sulle guance. Le asciugo con le mani e mi rendo conto che nessuno ha potuto vedere questi gesti accadere. E' talmente buio che, se mi avvicinassi al volto di qualcuno senza far rumore, questi non potrebbe accorgersi della mia presenza. Sono libera. Di piangere, di sorridere, di toccare il mio viso. Senza essere vista. La percezione del tempo che passa mi fa temere il momento in cui tornerà la luce e quando questo avviene ne sono infastidita. Sarei rimasta al buio con la musica di Cesare per molte altre ore. La luce mi offre però un altro spunto: mentre suona, lui è la musica. Il suo corpo è a totale servizio di essa e si contorce, si alza e si siede, inquieto. Come se avesse dentro una forza che lo muove indipendentemente dalla sua volontà. Dall'inizio alla fine, non ha mai aperto gli occhi; non guarda nemmeno la tastiera. Le luci in sala si riaccendono e lui si appresta a suonare le ultime note. Sembra concludere sulle più alte, che rotolano lentamente una dietro l'altra come briciole. Ma poi decide di offrire loro un contraltare, con un unico tasto bassissimo. Insieme, terra e cielo si toccano, piano piano. Cesare tiene i tasti schiacciati fin quando le note non si addormentano, lasciando cadere le dita con la forza di gravità, sotto la tastiera. Silenzio in sala. Un miracolo di contemplazione della magia. E poi, gli applausi.
Dopo diverse uscite e rientri sul palco, Cesare prende la parola. E' visibilmente provato, io sono in terza fila e vedo le sue mani tremare leggermente. Muove nervosamente piedi e gambe, cercando di riprendere fiato mentre ringrazia tutti per l'energia che ha avvertito da parte di ciascuno di noi. Parla del suo concetto di "Blind date" e passa quindi al bis: "Hikari" (che in giapponese significa "luce"), un pezzo da lui composto e ispirato ad una leggenda secondo la quale una volta all'anno l'imperatore andava da solo nei giardini reali di Kyoto a contemplare il tramonto per tutto il suo popolo. Ecco quindi tornare la musica in una nuova veste, dopo un concerto che è già stato tramonto, notte e alba: una ciclicità di cui si diventa parte, come il naturale e quotidiano alternarsi della luce e del buio.
Mi trovo un po' in difficoltà nell'affrontare questo post. Innanzitutto perchè, ancora presa dallo scombussolamento dell'evento, non ho ancora pienamente recuperato il linguaggio verbale. In secondo luogo perchè mentre ero nel teatro ero una tela sulla quale le emozioni arrivavano addosso come secchiate di vernice, mentre adesso, per essere efficace nelle mie descrizioni, devo cercare di tornare in quel mondo dalla sedia su cui sono seduta, nella mia camera. Mi aiuta il fatto di essere venuta poco fa in possesso della registrazione del primo "Blind date" (avvenuto nel 2009 a Milano), in vendita all'uscita dal concerto insieme agli altri dischi di Picco, che in parte possedevo. Ma ora basta con tutti questi cappelli introduttivi... togliamoceli e vediamo di tornare a teatro.
"Si suona ad occhi chiusi, al buio e a memoria." (F. Chopin)
Le luci calde dei riflettori bagnano il palcoscenico per i primi minuti. Lentamente i volumi si perdono in semplici e sottili linee gialle. La tastiera del pianoforte diventa un mare calmo di piccole fiamme, le cui bave si alzano e si abbassano accarezzate dalle mani di Cesare. Rimane un solo occhio di bue verticalmente sopra alla sua testa. I miei bulbi si aggrappano agli ultimi centimetri di contorni rimasti, fino a perdersi del tutto nel buio più totale. Come se avessi mollato la presa del salvagente, mi lascio trasportare dalla corrente, con fiducia. Eppure sono distratta dall'assenza della vista. Non riesco a concentrarmi sulla musica, perchè sto sperimentando tutto il resto di me che normalmente dimentico. Capisco di essere presente con tutta me stessa lì, in quel momento. La mente continua a lavorare. Mentre le arti figurative come la pittura non godono dell'immediatezza dell'attimo - e nemmeno la fotografia lo fa completamente - l'improvvisazione musicale ha questo carattere d'indubitabile contemporaneità tra il concepimento e la nascita dell'idea. E' lì con te, sta accadendo in quel momento, e mai sarà uguale in un altro istante del mondo. Cesare è il tramite geniale di tutto questo: lo cerco - senza realmente cercarlo - con lo sguardo e mi accorgo di avere gli occhi spalancati. Non sento nemmeno il bisogno di sbatterli. La fronte è sollevata, la bocca contratta. Ogni parte di me è protesa all'ascolto di lui e di me stessa. La musica scivola da melodie morbide e delicate a sussulti gravi e dissonanti, lasciandosi fare a tratti compagnia da suoni quasi psichedelici, percussioni delle mani sul legno, graffiate direttamente sulle corde, forti respiri e deboli fischi del pianista. Le sonorità di Gershwin, Debussy e lo stile dei pezzi di Picco si mescolano in un insieme indefinibile. Sonaglietti agitati e quasi liquidi mi fanno pensare a branchi di piccoli pesci colorati. Ho gli occhi lucidi e lascio scendere le lacrime sulle guance. Le asciugo con le mani e mi rendo conto che nessuno ha potuto vedere questi gesti accadere. E' talmente buio che, se mi avvicinassi al volto di qualcuno senza far rumore, questi non potrebbe accorgersi della mia presenza. Sono libera. Di piangere, di sorridere, di toccare il mio viso. Senza essere vista. La percezione del tempo che passa mi fa temere il momento in cui tornerà la luce e quando questo avviene ne sono infastidita. Sarei rimasta al buio con la musica di Cesare per molte altre ore. La luce mi offre però un altro spunto: mentre suona, lui è la musica. Il suo corpo è a totale servizio di essa e si contorce, si alza e si siede, inquieto. Come se avesse dentro una forza che lo muove indipendentemente dalla sua volontà. Dall'inizio alla fine, non ha mai aperto gli occhi; non guarda nemmeno la tastiera. Le luci in sala si riaccendono e lui si appresta a suonare le ultime note. Sembra concludere sulle più alte, che rotolano lentamente una dietro l'altra come briciole. Ma poi decide di offrire loro un contraltare, con un unico tasto bassissimo. Insieme, terra e cielo si toccano, piano piano. Cesare tiene i tasti schiacciati fin quando le note non si addormentano, lasciando cadere le dita con la forza di gravità, sotto la tastiera. Silenzio in sala. Un miracolo di contemplazione della magia. E poi, gli applausi.
Dopo diverse uscite e rientri sul palco, Cesare prende la parola. E' visibilmente provato, io sono in terza fila e vedo le sue mani tremare leggermente. Muove nervosamente piedi e gambe, cercando di riprendere fiato mentre ringrazia tutti per l'energia che ha avvertito da parte di ciascuno di noi. Parla del suo concetto di "Blind date" e passa quindi al bis: "Hikari" (che in giapponese significa "luce"), un pezzo da lui composto e ispirato ad una leggenda secondo la quale una volta all'anno l'imperatore andava da solo nei giardini reali di Kyoto a contemplare il tramonto per tutto il suo popolo. Ecco quindi tornare la musica in una nuova veste, dopo un concerto che è già stato tramonto, notte e alba: una ciclicità di cui si diventa parte, come il naturale e quotidiano alternarsi della luce e del buio.
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