È stato un attimo. Una fotografia non scattata.
Camminavo per una via qualsiasi, con una musica nota nelle orecchie. Senza borsa né ombrello, mentre l'asfalto continuava a punteggiarsi di un'acqua indecisa. Scattavo foto, cercavo negli angoli cose non viste. Finché un'invisibile ha visto me, come se mi avesse chiamato da qualche metro più in alto. Di colpo ho alzato la testa e ho visto una vecchia dentro una casa. Guardava giù attraverso una finestra sul lato di un palazzo. La stanza buia, nessuna tenda. Avrei giurato che non suonasse alcuna musica, né che ci fosse un televisore acceso. Quasi spettrale.
La donna era seduta, ma non aveva l'aria di essere comoda. Probabilmente aveva avvicinato una sedia alla finestra, una poltrona non sarebbe stata abbastanza alta. Quella nei suoi occhi non era proprio tristezza, ma l'ombra della solitudine. Nei tre secondi in cui i nostri sguardi si sono incrociati, il suo piccolo mondo vuoto mi si è mostrato in tutta la sua disperata verità. Come un riflesso incondizionato, ho alzato impercettibilmente le sopracciglia, mentre lei non staccava gli occhi da me. Io, con i miei trent'anni, i jeans e il giacchetto di pelle, una sciarpetta di lino chiara che svolazzava mossa dal ritmo di passi decisi, con le grandi cuffie bianche sulla testa a dettarmi il mood. Io, che cosa avrei potuto saperne di una sedia accostata alla finestra per vedere la vita degli altri. Ho accennato un sorriso, aperto quanto bastava per non sembrare indiscreta. Lei è rimasta immobile, il viso di pietra. Mi è passato per la mente di suonare al citofono, schiacciare tutti i nomi fino a quello giusto, per salire da lei. Per, non lo so, bere un tè insieme. Raccontarle qualcosa, dirle che l'avevo vista e che non era così sola, o forse sì ma non in quel momento.
Ma il tempo di fare quei pochi metri prima che il lato del palazzo scomparisse dietro i miei passi, e tutto ciò che sono stata capace di pensare è che avrei scritto di lei, di quello che mi ha passato. Tre secondi bastano per immaginare, ma per capire occorre più coraggio.
In fotografia, f/64 è il valore di minima apertura del diaframma. Massimo dettaglio, visione profonda.
sabato 27 aprile 2013
lunedì 22 aprile 2013
Ilaria M.
Si chiamava - si chiama ancora, che io sappia - Ilaria M.
Il suo colore preferito era l'azzurro, e io mi chiedevo come mai a una bambina piacesse il colore dei maschi. Io ho sempre odiato il rosa e il fatto che alle bambine dovesse essere per forza associato il rosa, ma, ecco, l'azzurro mi sembrava un po' tanto. Per anni presi quindi le parti del verde - cosa che ora, politicamente parlando, non sarei proprio più in grado di fare - e quello rimase a lungo il mio colore preferito. Il colore dei dollari, mica scema.
Ilaria M. era una bambina viziata. Insopportabile. Capricciosa. Egoista. Smorfiosa. Pettegola. La odiavano tutti, ma qualche strana congiunzione astrale la designò mia amichetta del cuore. Con me, passava da fiele a miele. Capelli castani, lisci e lunghi, tirati indietro con quelle mollettine clic-clac che tanto andavano di moda negli anni '80. Sapete, quelle di metallo colorate con gli smalti, che ogni tanto si vedono ancora oggi in testa a qualche ragazzina stile unghie in gel squadrate, brillantini spalmati sul corpo e minigonna girofiga.
Gli occhi di Ilaria M. erano scuri e penetranti, stretti. Parevano quelli di un roditore, ma più cattivi. Aveva tutte le cose più belle, e io gliele invidiavo. Tranne gli astucci, che erano azzurri - cioè, le invidiavo anche gli astucci, ma non il fatto che fossero azzurri. Erano di quelli piatti, che si aprivano su entrambi i lati con dei battenti a calamita - forse qualcuno di voi li ricorderà, a quell'epoca li avevano tutte. Io riuscii a ottenerne uno dai miei genitori un paio di anni dopo, e ricordo che continuavo ad aprirne e chiuderne i battenti come fossero un antistress. Mi piaceva il suono di quella chiusura, così definitivo, e l'impressione di compattezza che trasmetteva. TLAC. Punto e a capo.
Ilaria M. era la nipote dell'allora preside dell'istituto - una scuola privata, tra le espressioni massime della borghesia milanese. Io in realtà non c'entravo molto con quell'ambiente, noi cugini ci andavamo tutti perchè la mia famiglia materna occupava diverse caselle del corpo insegnante e veniva comodo accompagnarci la mattina. Credo anche che i figli dei docenti pagassero una retta più bassa, non potrei giurarci ma questo spiegherebbe molte cose. Sta di fatto che quella cosiddetta crème milanese l'ho conosciuta fin dai tempi in cui non ci si può ancora rendere conto di molte cose, e i bambini che frequenti sono solo quello: bambini, appunto. Sta di fatto però che la bambina Ilaria M. era una per cui bisognava adoperare il verbo "smazzare", e lo facevo io.
I nostri rapporti s'interruppero quando con la mia famiglia partimmo armi e bagagli per l'Africa, all'epoca della seconda elementare. Però un ricordo vivido Ilaria M. me lo lasciò. Voglio dire, più vivido delle sue gommine profumate, gli astucci magnetici azzurri e le cattiverie su Anna P., la grassottella della classe che lei si lisciava comunque, nella sua lungimirante strategia sociale in vista dell'imminente solitudine dopo la mia partenza.
Era il mio sesto compleanno. Organizzammo una festa a casa di mia nonna, che abitava vicino alla scuola. Giochi, torta, regali. Il suo fu una roulette - grande intuizione, io sono sempre stata molto fortunata al gioco, che peraltro non ho mai praticato coi soldi veri. La roulette era ovviamente giocattolo, ma bella. Ricordo questa scatola grande, colorata. Manco sapevo cosa fosse, la roulette. Dovette spiegarmelo mia madre sul momento. Io annuii poco convinta, ma incuriosita. E' ovvio che l'acquisto l'aveva fatto la madre di Ilaria M., ma probabilmente era avvenuto del tutto a sua insaputa, perchè non appena scartai il regalo la mia amichetta fu trafitta a morte dal fulmine del dio dell'invidia. Cominciò a piangnucolare, dicendo quanto fosse bella, e io a stento riuscii a tenere in mano la scatola per qualche secondo. Voglio la roulette, voglio la roulette! Mamma la vogliooo!!! Fin qui, rimaneva tutto in un accettabile range di imbarazzo, nulla che non sembrasse appianabile con un Ma sì Ilaria, ne prenderemo una anche per te!
E invece.
La mossa successiva fu memorabile: il lamento diventò insopportabile, e culminò con un Ma io voglio quella! Non ne voglio un'altra! Mamma, portiamola a casa!!! Io non mi capacito di come una madre possa essere tanto rammollita con un figlio, ma finì che io quella roulette non la vidi mai più. Così come del resto Ilaria M., sulla quale anni dopo, quando tornai a Milano, mi furono riferite cose piuttosto amare. Un manuale di terra bruciata. Abitava ancora nei dintorni di casa mia, e un giorno la incontrai. Mi fece tristezza. Era magra, insulsa, aveva perso il carattere negli occhi. Girava con la solita Luis Vuitton al braccio, e chissà se dentro ci teneva ancora qualcosa di azzurro.
Il suo colore preferito era l'azzurro, e io mi chiedevo come mai a una bambina piacesse il colore dei maschi. Io ho sempre odiato il rosa e il fatto che alle bambine dovesse essere per forza associato il rosa, ma, ecco, l'azzurro mi sembrava un po' tanto. Per anni presi quindi le parti del verde - cosa che ora, politicamente parlando, non sarei proprio più in grado di fare - e quello rimase a lungo il mio colore preferito. Il colore dei dollari, mica scema.
Ilaria M. era una bambina viziata. Insopportabile. Capricciosa. Egoista. Smorfiosa. Pettegola. La odiavano tutti, ma qualche strana congiunzione astrale la designò mia amichetta del cuore. Con me, passava da fiele a miele. Capelli castani, lisci e lunghi, tirati indietro con quelle mollettine clic-clac che tanto andavano di moda negli anni '80. Sapete, quelle di metallo colorate con gli smalti, che ogni tanto si vedono ancora oggi in testa a qualche ragazzina stile unghie in gel squadrate, brillantini spalmati sul corpo e minigonna girofiga.
Gli occhi di Ilaria M. erano scuri e penetranti, stretti. Parevano quelli di un roditore, ma più cattivi. Aveva tutte le cose più belle, e io gliele invidiavo. Tranne gli astucci, che erano azzurri - cioè, le invidiavo anche gli astucci, ma non il fatto che fossero azzurri. Erano di quelli piatti, che si aprivano su entrambi i lati con dei battenti a calamita - forse qualcuno di voi li ricorderà, a quell'epoca li avevano tutte. Io riuscii a ottenerne uno dai miei genitori un paio di anni dopo, e ricordo che continuavo ad aprirne e chiuderne i battenti come fossero un antistress. Mi piaceva il suono di quella chiusura, così definitivo, e l'impressione di compattezza che trasmetteva. TLAC. Punto e a capo.
Ilaria M. era la nipote dell'allora preside dell'istituto - una scuola privata, tra le espressioni massime della borghesia milanese. Io in realtà non c'entravo molto con quell'ambiente, noi cugini ci andavamo tutti perchè la mia famiglia materna occupava diverse caselle del corpo insegnante e veniva comodo accompagnarci la mattina. Credo anche che i figli dei docenti pagassero una retta più bassa, non potrei giurarci ma questo spiegherebbe molte cose. Sta di fatto che quella cosiddetta crème milanese l'ho conosciuta fin dai tempi in cui non ci si può ancora rendere conto di molte cose, e i bambini che frequenti sono solo quello: bambini, appunto. Sta di fatto però che la bambina Ilaria M. era una per cui bisognava adoperare il verbo "smazzare", e lo facevo io.
I nostri rapporti s'interruppero quando con la mia famiglia partimmo armi e bagagli per l'Africa, all'epoca della seconda elementare. Però un ricordo vivido Ilaria M. me lo lasciò. Voglio dire, più vivido delle sue gommine profumate, gli astucci magnetici azzurri e le cattiverie su Anna P., la grassottella della classe che lei si lisciava comunque, nella sua lungimirante strategia sociale in vista dell'imminente solitudine dopo la mia partenza.
Era il mio sesto compleanno. Organizzammo una festa a casa di mia nonna, che abitava vicino alla scuola. Giochi, torta, regali. Il suo fu una roulette - grande intuizione, io sono sempre stata molto fortunata al gioco, che peraltro non ho mai praticato coi soldi veri. La roulette era ovviamente giocattolo, ma bella. Ricordo questa scatola grande, colorata. Manco sapevo cosa fosse, la roulette. Dovette spiegarmelo mia madre sul momento. Io annuii poco convinta, ma incuriosita. E' ovvio che l'acquisto l'aveva fatto la madre di Ilaria M., ma probabilmente era avvenuto del tutto a sua insaputa, perchè non appena scartai il regalo la mia amichetta fu trafitta a morte dal fulmine del dio dell'invidia. Cominciò a piangnucolare, dicendo quanto fosse bella, e io a stento riuscii a tenere in mano la scatola per qualche secondo. Voglio la roulette, voglio la roulette! Mamma la vogliooo!!! Fin qui, rimaneva tutto in un accettabile range di imbarazzo, nulla che non sembrasse appianabile con un Ma sì Ilaria, ne prenderemo una anche per te!
E invece.
La mossa successiva fu memorabile: il lamento diventò insopportabile, e culminò con un Ma io voglio quella! Non ne voglio un'altra! Mamma, portiamola a casa!!! Io non mi capacito di come una madre possa essere tanto rammollita con un figlio, ma finì che io quella roulette non la vidi mai più. Così come del resto Ilaria M., sulla quale anni dopo, quando tornai a Milano, mi furono riferite cose piuttosto amare. Un manuale di terra bruciata. Abitava ancora nei dintorni di casa mia, e un giorno la incontrai. Mi fece tristezza. Era magra, insulsa, aveva perso il carattere negli occhi. Girava con la solita Luis Vuitton al braccio, e chissà se dentro ci teneva ancora qualcosa di azzurro.
martedì 9 aprile 2013
L'esperienza del ritratto
La fotografia è il territorio del desiderio, tanto del fotografo quanto del soggetto. Il ritratto ne è la liberazione, è quel qualcosa che succede quando si è disposti a stabilire un contatto. E' anche un rischio - se non accetti la possibilità di fallire, non puoi riuscire. Lo scopo del ritratto non è il disvelamento del soggetto: poi magari lo fa anche, ma di per sè non pretende di mostrare la persona, quanto la relazione. Quel momento, quell'incontro, quel ritaglio di vita.
Nel workshop "L'esperienza del ritratto", tenuto da Toni Thorimbert presso la Fondazione Fotografia di Modena, si è parlato molto di queste cose.
Il secondo giorno era previsto un set dove ciascun partecipante aveva cinque minuti per scattare un ritratto. Nello specifico, a me. Stare dall'altra parte della lente mi ha aperto quindici mondi diversi. Li ho sentiti fremere, alcuni tremavano come foglie. In certi casi è successo qualcosa di vero, in altri non è successo nulla. Troppa concentrazione sul cosa fare, troppi escamotage, troppa testa. Soprattutto troppe aspettative. Dice Toni:
Il secondo giorno era previsto un set dove ciascun partecipante aveva cinque minuti per scattare un ritratto. Nello specifico, a me. Stare dall'altra parte della lente mi ha aperto quindici mondi diversi. Li ho sentiti fremere, alcuni tremavano come foglie. In certi casi è successo qualcosa di vero, in altri non è successo nulla. Troppa concentrazione sul cosa fare, troppi escamotage, troppa testa. Soprattutto troppe aspettative. Dice Toni:
Noi sviluppiamo una passione per la fotografia perchè lei non ci dà tutto quello che noi ci aspettiamo da lei. Se ce lo desse ci stuferemmo molto presto, come con un amante che ci ha annoiato, di cui non sappiamo più vedere gli aspetti interessanti e intriganti. E' chiaro che se ho cinque minuti per svelare qualcosa è poco, ma se ho cinque minuti per vivere qualcosa, sono cinque minuti di vita. Cinque minuti non sono nè pochi nè tanti, sono quello che sono. Se tu accetti questo, la tua vita diventa molto ricca, e questi cinque minuti diventano pieni di esperienza. In fondo si tratta di essere molto aperti alla relazione. Se il tuo cuore si apre, qualcosa entrerà. Se il tuo cuore è chiuso, anche in decine di ore non entrerà nulla.
Toni non parla, per così dire, con la testa: i concetti fluiscono perchè appartengono al suo sentire, non al suo ragionare. Porta la sua esperienza, se stesso, ciò che ha capito della vita, delle situazioni, delle persone.
Nella prima sessione di scatti ho avvertito tanta negazione. Di desideri, di libertà. L'autocritica spara sui bersagli sbagliati. Il problema sono i cinque minuti? Allora facciamo un esperimento: ribaltiamo le regole. C'è tutto il tempo che serve, ma un solo colpo in canna. E' quello, e te lo devi giocare bene. I fotografi iniziano a respirare diversamente. A guardarmi davvero. A stabilire una relazione con me, e io con loro. Li cerco, li lascio, torno nei loro occhi. Nella stanza comincia a circolare un'energia diversa, concatenata. Si parla, si tace, si scava. Si scatta solo quando si è pronti, e a fare la foto in sè ci si mette pochissimo tempo. Spesso anche meno dei cinque minuti di prima. Mi accorgo che anche stando dall'altra parte capisco qual è il momento, come se ad avere la macchina in mano fossi io. Non a caso, comincio ad avvertire io stessa la necessità di fotografare. Scatto dei ritratti a mia volta, con l'iPhone. Ne ho voluto uno per ciascuno di loro, in momenti diversi.
Il confronto successivo tra le due immagini realizzate è spiazzante. Le foto "one shot" sono forse meno belle in senso estetico, meno compiacenti delle prime, ma hanno un valore molto maggiore perchè testimoniano che qualcosa è successo: il ritratto ha assunto le sembianze di un momento di relazione e non di una mera rappresentazione esteriore. Sono accadute anche cose strane, imprevedibili. Esattamente come nelle relazioni, dove il risultato non è mai in linea con le aspettative - infatti è sempre in rapporto a queste che si crea il conflitto. Quando si allenta il controllo, la vita ha modo di dire la sua.
Ora qualche ringraziamento. Inizio con Francesca Lazzarini, coordinatrice del workshop presso la Fondazione, per l'organizzazione resa perfetta dal suo sorriso e da quello di Annalisa, sempre gentile ed entusiasta.
Grazie a tutti i fotografi per il bellissimo clima che hanno creato, per l'energia e la vulnerabilità, per avermi aperto i loro mondi, tutti diversi e misteriosi.
Grazie a Gianluca Guaitoli, eufemisticamente hair stylist. Il suo apporto umano lascia sempre un segno significativo.
Last but not least, ringrazio Toni per avermi regalato l'opportunità di capire tutto questo e molto altro. Ne avevo bisogno e me lo porterò dentro a lungo.
Vi lascio con alcune mie immagini del workshop, a seguire i ritratti individuali dei presenti.
(cliccare per ingrandire)
venerdì 5 aprile 2013
Rando
Ho l'iPhone da qualche mese. Con esso è rinata una parte della mia fotografia che avevo accantonato, o forse mai esplorato. Inutile parlare delle infinite possibilità che questo apparecchio dà, ma ce n'è una che ho scoperto da pochi giorni e sulla quale vorrei spendere due parole.
Si tratta di un'applicazione di nome Rando. Funziona così: scatti una foto, che è sempre e solo tonda - dunque immediatamente riconoscibile. Non ci sono filtri come su Instagram, solo uno leggero già incorporato direttamente nello scatto. L'effetto è quello di una pellicola colore non particolarmente contrastata. Dopo aver scattato la foto la invii. Dove? Lo sai, ma non lo sai. Nell'etere, certo, ma a una sola persona nel mondo, scelta a caso dall'algoritmo dell'applicazione. Questo tizio/a non sa niente di te, se non da dove mandi la foto. Non può commentare, taggare, mettere "mi piace", contattarti. Nulla. Solo guardare l'immagine e decidere se mantenerla nella propria collezione di foto "rando" oppure cancellarla, o eventualmente segnalarla come inopportuna. Un po' di tempo dopo il tuo invio, ricevi a tua volta una foto da un'altra persona. Così, random.
A volte sono foto inutili (vedi tastiere di pc e tutto ciò che è assimilabile al "proviamo a vedere come funziona"), altre sono interessanti. Immagino che con il diffondersi dell'applicazione, la prima tipologia andrà a scemare. Il bello è che non sono mai foto carine, compiacenti. Chi scatta rando non cerca di fare una bella foto. Perchè? Perchè vuole solo fare una foto, e questo allontana immediatamente dal discorso estetico. E' molto più importante cosa stai fotografando che come. Provare per credere.
Innanzitutto consideriamo l'inquadratura: scattare un cerchio è tutta un'altra cosa rispetto a un rettangolo o un quadrato. Come fosse il mirino di un'arma, focalizza l'attenzione su qualcosa di specifico. Non si è portati a includere più del necessario, e questo spesso è un bene. Less is more, e qui è già l'inquadratura a suggerirtelo. E poi non so, nell'inquadratura circolare c'è qualcosa che rimanda allo spioncino, al buco della serratura. Guardare una foto rando, per di più sapendo in quale parte del mondo sia stata scattata, è un po' come sbirciare qualcosa di vagamente misterioso. C'è un certo sapore voyeuristico, secondo me. Sei proprio portato a chiederti cos'altro ci sia intorno che ti è stato celato. Molto interessante. Perchè se questo discorso dell'escludere dall'inquadratura è proprio di qualsiasi fotografia, qui risulta evidente perchè una foto tonda è qualcosa di inusuale e desta attenzione per forza di cose.
In secondo luogo, l'idea di condividere qualcosa senza che il discorso diventi per forza di cose social è qualcosa d'inedito, di questi tempi. Diventa come un dialogo anonimo istantaneo e unilaterale. Roba strana. Soprattutto manca uno scopo. Non ottieni follower, feedback o altro. Immagine pura. Qualcosa che si è ormai perso. Di quella persona ti è dato sapere solo quello, di vedere un frammento del suo mondo e poi basta. Se si scatta con questo approccio, la foto può diventare un messaggio più forte di quanto spesso avvenga. Come in tutte le cose, dipende da come le si fa. I risultati sono i più disparati, e proprio la curiosità di vedere i propri e quelli degli altri induce sia a scattare per ricevere che a ricevere per scattare ancora. Perchè più scatti più vedi che anche tu cambi in quello che vuoi dire. Tutto è immediato, e allo stesso tempo pieno di letture.
Altro aspetto importante: ti limiti a guardare una foto. Non sei influenzato dall'identità del mittente e non ti è richiesto alcun giudizio. Ecco allora che la fruizione si addensa, perchè hai solo quel tondo su cui concentrarti. Ti piace? Non ti piace? Perchè? Cosa ti cattura? Cosa ti respinge? Se stai guardando quell'unica foto, non puoi non pensarci. Soprattutto perchè siamo abituati a dedicare un secondo o due a un'immagine prima di passare a quella successiva, presi dentro a un sistema a dir poco bulimico. E invece lì hai solo quella, finchè non decidi di chiudere l'applicazione. Ti dai il tempo che occorre(rebbe).
Rando è come una vecchia cassetta delle lettere. Pur essendo digitale, ha in sè qualcosa di analogico. Non ha orpelli, solo un tasto rosso e dei piccoli pallini per segnalarti le foto in arrivo. Tutto è ridotto all'osso, eppure ciò che deve arriva. La semplicità vince sempre, e cattura in modi inaspettati.
Si tratta di un'applicazione di nome Rando. Funziona così: scatti una foto, che è sempre e solo tonda - dunque immediatamente riconoscibile. Non ci sono filtri come su Instagram, solo uno leggero già incorporato direttamente nello scatto. L'effetto è quello di una pellicola colore non particolarmente contrastata. Dopo aver scattato la foto la invii. Dove? Lo sai, ma non lo sai. Nell'etere, certo, ma a una sola persona nel mondo, scelta a caso dall'algoritmo dell'applicazione. Questo tizio/a non sa niente di te, se non da dove mandi la foto. Non può commentare, taggare, mettere "mi piace", contattarti. Nulla. Solo guardare l'immagine e decidere se mantenerla nella propria collezione di foto "rando" oppure cancellarla, o eventualmente segnalarla come inopportuna. Un po' di tempo dopo il tuo invio, ricevi a tua volta una foto da un'altra persona. Così, random.
A volte sono foto inutili (vedi tastiere di pc e tutto ciò che è assimilabile al "proviamo a vedere come funziona"), altre sono interessanti. Immagino che con il diffondersi dell'applicazione, la prima tipologia andrà a scemare. Il bello è che non sono mai foto carine, compiacenti. Chi scatta rando non cerca di fare una bella foto. Perchè? Perchè vuole solo fare una foto, e questo allontana immediatamente dal discorso estetico. E' molto più importante cosa stai fotografando che come. Provare per credere.
Innanzitutto consideriamo l'inquadratura: scattare un cerchio è tutta un'altra cosa rispetto a un rettangolo o un quadrato. Come fosse il mirino di un'arma, focalizza l'attenzione su qualcosa di specifico. Non si è portati a includere più del necessario, e questo spesso è un bene. Less is more, e qui è già l'inquadratura a suggerirtelo. E poi non so, nell'inquadratura circolare c'è qualcosa che rimanda allo spioncino, al buco della serratura. Guardare una foto rando, per di più sapendo in quale parte del mondo sia stata scattata, è un po' come sbirciare qualcosa di vagamente misterioso. C'è un certo sapore voyeuristico, secondo me. Sei proprio portato a chiederti cos'altro ci sia intorno che ti è stato celato. Molto interessante. Perchè se questo discorso dell'escludere dall'inquadratura è proprio di qualsiasi fotografia, qui risulta evidente perchè una foto tonda è qualcosa di inusuale e desta attenzione per forza di cose.
In secondo luogo, l'idea di condividere qualcosa senza che il discorso diventi per forza di cose social è qualcosa d'inedito, di questi tempi. Diventa come un dialogo anonimo istantaneo e unilaterale. Roba strana. Soprattutto manca uno scopo. Non ottieni follower, feedback o altro. Immagine pura. Qualcosa che si è ormai perso. Di quella persona ti è dato sapere solo quello, di vedere un frammento del suo mondo e poi basta. Se si scatta con questo approccio, la foto può diventare un messaggio più forte di quanto spesso avvenga. Come in tutte le cose, dipende da come le si fa. I risultati sono i più disparati, e proprio la curiosità di vedere i propri e quelli degli altri induce sia a scattare per ricevere che a ricevere per scattare ancora. Perchè più scatti più vedi che anche tu cambi in quello che vuoi dire. Tutto è immediato, e allo stesso tempo pieno di letture.
Altro aspetto importante: ti limiti a guardare una foto. Non sei influenzato dall'identità del mittente e non ti è richiesto alcun giudizio. Ecco allora che la fruizione si addensa, perchè hai solo quel tondo su cui concentrarti. Ti piace? Non ti piace? Perchè? Cosa ti cattura? Cosa ti respinge? Se stai guardando quell'unica foto, non puoi non pensarci. Soprattutto perchè siamo abituati a dedicare un secondo o due a un'immagine prima di passare a quella successiva, presi dentro a un sistema a dir poco bulimico. E invece lì hai solo quella, finchè non decidi di chiudere l'applicazione. Ti dai il tempo che occorre(rebbe).
Rando è come una vecchia cassetta delle lettere. Pur essendo digitale, ha in sè qualcosa di analogico. Non ha orpelli, solo un tasto rosso e dei piccoli pallini per segnalarti le foto in arrivo. Tutto è ridotto all'osso, eppure ciò che deve arriva. La semplicità vince sempre, e cattura in modi inaspettati.
Iscriviti a:
Post (Atom)