In fotografia, f/64 è il valore di minima apertura del diaframma. Massimo dettaglio, visione profonda.
lunedì 23 gennaio 2012
Calafuria '12
Erano anni che non scendevo a Roma in macchina. L'ho fatto ieri, con i miei genitori, ed è stato un viaggio lungo, rilassante, fatto di quelle cose che amo tanto dell'andare su quattro ruote: strada che scorre, sole che scalda, musica che trasporta, risate, rievocazioni di vecchi ricordi e contemporanea coscienza della creazione di nuovi. Arriviamo alla mitica curva toscana di Calafuria che fu de Il sorpasso, esattamente quando il sole sta tramontando sul mare. Mio padre scavalca il guard rail e s'incammina un po' sulla discesa sdrucciolevole. Lo fotografo: lui mi sorride con dietro solo il mare colorato a grosse pennellate cangianti azzurro e arancio. Mia madre lo raggiunge correndo a braccia aperte, mentre lui l'aspetta con la stessa apertura alare. Fotografo anche questo, perchè voglio che si rivedano così. Poi scavalco il guard rail e vado verso il mare, che si sbatte contro la scogliera con l'entusiasmo furioso di un uomo innamorato della donna sbagliata. E penso che il mare non mi è mai stato visceralmente necessario, ma quando ce l'ho davanti è sempre un arrivo. Ecco il mare! Siamo stati lì una decina di minuti, fermi, a respirarlo e ad aspettare l'onda più fragorosa - arriva... guarda, è questa... no, niente, forse la prossima...
sabato 21 gennaio 2012
Within #17
Ci sono volte in cui i Within vanno bene. Non è questo il caso. Quello di oggi è andato più che bene. Andrea Pugiotto non lo conoscevo se non attraverso le sue foto e qualche scambio, e ci siamo subito trovati. Non ho molte parole da concedere questa volta: quando sono tornata all'aria aperta ho avuto la netta sensazione di voler proteggere quegli istanti di verità e purezza da qualunque altra sollecitazione esterna, visiva o sonora che fosse. Il Within è rimasto intatto in me mentre attraversavo a piedi, con la stessa serena e imperturbabile espressione, una soleggiata ed elegante Milano.
James Blake - Limit to your love
James Blake - Limit to your love
sabato 14 gennaio 2012
Il pianoforte perfetto
Ho appena terminato di leggere uno dei libri più appassionanti degli ultimi anni. Di quelli che porti con te come una coperta di Linus: sempre nella borsa, estratto furtivamente durante le ore in ufficio, letto la sera sotto il piumone con la mia abat-jour à la carte, come l'ho battezzata - un filo di lucine distribuito sul petto a illuminare perfettamente le pagine.
Il libro s'intitola Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto, dell'americana Katie Hafner. Non la definirei una scrittrice, è più una giornalista. La bellezza non stava nella forma, pulita ma senza voli pindarici lessicali, quanto nel contenuto: questo libro è come una favola. Di più: un piccolo film. Tre i protagonisti principali: Glenn Gould, uno dei pianisti più straordinari del XX secolo, il suo accordatore semicieco Verne Edquist e il pianoforte CD 318 di Steinway & Sons. La storia è quella di una ricerca, un amore, un'ossessione fatta di sfumature inimmaginabili ed equilibri delicatissimi.
Tutto quello che posso fare è consigliarvelo. E' un libro che ti prende, racconta e insegna. Da esso ho potuto conoscere anche la storia della Steinway & Sons, uno dei più importanti produttori di pianoforti al mondo, nata dal capostipite di una famiglia tedesca che si trasferì a New York nel 1850. Questo per me ha un significato del tutto particolare, perchè richiama un'altra storia che mi riguarda più da vicino: quella del mio Steinway. Mia nonna paterna aveva studiato al Conservatorio e ha sempre suonato sul pianoforte che si trova nel salotto della casa dove sono cresciuta: un mezzacoda in palissandro del 1909, proveniente dalla fabbrica Steinway di Amburgo e quindi precedente la produzione americana dei più commercializzati pianoforti della Steinway & Sons. Di esso so solo che il suo primo proprietario fu, appunto, un tedesco, ma non ho idea di come sia finito nel salotto dei nonni. Sta di fatto che per anni ho suonato anche io su quel pianoforte, e ricordo quelle tante ore con particolare dolcezza. Lo usavo anche per studiare, nonostante la sua meccanica fosse molto leggera e non fosse quindi adatto a fortificare le dita - per questa sua caratteristica sono sicura che sarebbe molto piaciuto a Glenn Gould, che instaurò un rapporto simbiotico con il suo CD 318 perchè era l'unico ad avere le caratteristiche tecniche fondamentali per suonare come voleva lui. Leggendo di questa spasmodica ricerca mi è venuto spontaneo fare un parallelismo con la fotografia, che invece non è così maniacalmente legata allo strumento attraverso il quale si oggettivizza. Certo, l'ottica è importante; la stampa anche; ma il colore e il respiro della musica è qualcosa che non può prescindere dallo strumento, e quanto più l'orecchio è sensibile (come lo erano, e straordinariamente, quelli di Gould e di Edquist) tanto più importante è la perfezione qualitativa del suono. Suono dal quale io amavo farmi riempire, aprendo la cassa armonica ogni volta che mi sedevo al pianoforte: quando lo suonavo io aveva una sonorità calda, morbida, quasi aromatica: io ricercavo nel suono la stessa misteriosa delicatezza che metto nelle mie foto oggi. Quel pianoforte mi offriva invece gli altri lati della sua personalità quando veniva suonato da pianisti professionisti. Mio nonno infatti spesso assisteva a svariati concorsi e, in un modo che ebbi a sperimentare direttamente una volta perchè fui io ad accompagnarlo, andava a pescarsi i vincitori a fine serata e li scritturava per dei concerti da tenere a casa sua, dove invitava una sessantina di suoi amici appassionati di musica. La casa diventava un piccolo teatro: sedie, poltrone e divani venivano disposti a T intorno al pianoforte, sul quale si accendevano le uniche luci. Il nonno faceva la sua presentazione, che era sempre abbastanza teatrale - solenne ma anche ironica e divertente - e tra gli applausi il pianista di turno entrava nella sala, per deliziare il ristretto pubblico con oltre un'ora di splendide esecuzioni. Era lì che quel pianoforte poteva sfogare pienamente la voce delle sue corde, e io fui abituata a questo spettacolo fin da quando ero bambina, quando insieme a mio fratello mi mettevo seduta su un cuscino a terra, abbastanza vicino al pianoforte da riuscire a vedere il volo delle dita sulla tastiera. Le serate organizzate dal nonno furono un centinaio, e ne fece fino ai suoi ultimi anni di vita.
Quando tornerò a Milano la prossima volta aprirò lo Steinway con occhi diversi. Non ci saranno più soltanto il nonno, i pianisti e le mie ore sulla tastiera, quando l'unico modo per ricordare un pezzo che non suonavo da tempo era chiudere gli occhi senza pensare a quello che stavo facendo. Ora vedrò anche Gould, Edquist e il CD 318. Guarderò dentro la cassa armonica, le corde, i martelletti e le caviglie, e proverò ad ascoltare davvero il suono di quel gioiello meraviglioso.
Il libro s'intitola Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto, dell'americana Katie Hafner. Non la definirei una scrittrice, è più una giornalista. La bellezza non stava nella forma, pulita ma senza voli pindarici lessicali, quanto nel contenuto: questo libro è come una favola. Di più: un piccolo film. Tre i protagonisti principali: Glenn Gould, uno dei pianisti più straordinari del XX secolo, il suo accordatore semicieco Verne Edquist e il pianoforte CD 318 di Steinway & Sons. La storia è quella di una ricerca, un amore, un'ossessione fatta di sfumature inimmaginabili ed equilibri delicatissimi.
Tutto quello che posso fare è consigliarvelo. E' un libro che ti prende, racconta e insegna. Da esso ho potuto conoscere anche la storia della Steinway & Sons, uno dei più importanti produttori di pianoforti al mondo, nata dal capostipite di una famiglia tedesca che si trasferì a New York nel 1850. Questo per me ha un significato del tutto particolare, perchè richiama un'altra storia che mi riguarda più da vicino: quella del mio Steinway. Mia nonna paterna aveva studiato al Conservatorio e ha sempre suonato sul pianoforte che si trova nel salotto della casa dove sono cresciuta: un mezzacoda in palissandro del 1909, proveniente dalla fabbrica Steinway di Amburgo e quindi precedente la produzione americana dei più commercializzati pianoforti della Steinway & Sons. Di esso so solo che il suo primo proprietario fu, appunto, un tedesco, ma non ho idea di come sia finito nel salotto dei nonni. Sta di fatto che per anni ho suonato anche io su quel pianoforte, e ricordo quelle tante ore con particolare dolcezza. Lo usavo anche per studiare, nonostante la sua meccanica fosse molto leggera e non fosse quindi adatto a fortificare le dita - per questa sua caratteristica sono sicura che sarebbe molto piaciuto a Glenn Gould, che instaurò un rapporto simbiotico con il suo CD 318 perchè era l'unico ad avere le caratteristiche tecniche fondamentali per suonare come voleva lui. Leggendo di questa spasmodica ricerca mi è venuto spontaneo fare un parallelismo con la fotografia, che invece non è così maniacalmente legata allo strumento attraverso il quale si oggettivizza. Certo, l'ottica è importante; la stampa anche; ma il colore e il respiro della musica è qualcosa che non può prescindere dallo strumento, e quanto più l'orecchio è sensibile (come lo erano, e straordinariamente, quelli di Gould e di Edquist) tanto più importante è la perfezione qualitativa del suono. Suono dal quale io amavo farmi riempire, aprendo la cassa armonica ogni volta che mi sedevo al pianoforte: quando lo suonavo io aveva una sonorità calda, morbida, quasi aromatica: io ricercavo nel suono la stessa misteriosa delicatezza che metto nelle mie foto oggi. Quel pianoforte mi offriva invece gli altri lati della sua personalità quando veniva suonato da pianisti professionisti. Mio nonno infatti spesso assisteva a svariati concorsi e, in un modo che ebbi a sperimentare direttamente una volta perchè fui io ad accompagnarlo, andava a pescarsi i vincitori a fine serata e li scritturava per dei concerti da tenere a casa sua, dove invitava una sessantina di suoi amici appassionati di musica. La casa diventava un piccolo teatro: sedie, poltrone e divani venivano disposti a T intorno al pianoforte, sul quale si accendevano le uniche luci. Il nonno faceva la sua presentazione, che era sempre abbastanza teatrale - solenne ma anche ironica e divertente - e tra gli applausi il pianista di turno entrava nella sala, per deliziare il ristretto pubblico con oltre un'ora di splendide esecuzioni. Era lì che quel pianoforte poteva sfogare pienamente la voce delle sue corde, e io fui abituata a questo spettacolo fin da quando ero bambina, quando insieme a mio fratello mi mettevo seduta su un cuscino a terra, abbastanza vicino al pianoforte da riuscire a vedere il volo delle dita sulla tastiera. Le serate organizzate dal nonno furono un centinaio, e ne fece fino ai suoi ultimi anni di vita.
Quando tornerò a Milano la prossima volta aprirò lo Steinway con occhi diversi. Non ci saranno più soltanto il nonno, i pianisti e le mie ore sulla tastiera, quando l'unico modo per ricordare un pezzo che non suonavo da tempo era chiudere gli occhi senza pensare a quello che stavo facendo. Ora vedrò anche Gould, Edquist e il CD 318. Guarderò dentro la cassa armonica, le corde, i martelletti e le caviglie, e proverò ad ascoltare davvero il suono di quel gioiello meraviglioso.
giovedì 12 gennaio 2012
Notte complice
Sono al caffè con alcuni colleghi e tutti raccontano dei loro prossimi (ma anche degli ultimi) viaggi. Mi allontano mentalmente dal nauseante contorno di tariffe aeree per bambini, luoghi più o meno adatti alla gestione della figliolanza, ecc. e mi ritrovo a fare una constatazione: per tutta la vita i media ci costruiscono miti su questo e quel posto, che in teoria dovrebbe essere meraviglioso, avventuroso, con colori stupendi, animali esotici, architetture ultramoderne o monumenti pieni di storia. Nessun problema, il turismo è un business enorme e chi ci lavora fa bene a promuoverlo. Il problema probabilmente è mio: non ho potuto fare a meno di ammettere che è veramente tanto tempo che non rimango senza fiato in un luogo nuovo. Giuro. Con il risultato che viaggiare mi è diventato quasi più un peso che un piacere. Ho lacune importanti - Parigi, Barcellona, Praga, Berlino, Amsterdam e Stoccolma per citare solo alcune città europee dove vorrei andare - ma ho visto e vissuto parecchio mondo fin da quando ero piccola, in posti dei quali probabilmente solo una minima parte di voi conosce l'esistenza. E' tanto che non provo quell'ineffabile senso di ricongiungimento con qualcosa di sconosciuto ma al tempo stesso accogliente. Una meta che non amo alla follia causa turisti, ma che per varie vicissitudini da alcuni mesi continua a parlarmi di sè, è Venezia. Ci sono stata molte volte, eppure ora, proprio mentre sono al caffè coi colleghi, mi rendo conto di non averci mai passato una notte. Lo vorrei fare per come sono ora, camminando, fermandomi a scrivere, filmando, ascoltando musica, spegnendola. Senza dovermi guardare le spalle, senza preoccuparmi di nulla se non di quel momento regalato a me stessa, di quella serenità nascosta, sentendomi protetta da un complice invisibile.
lunedì 9 gennaio 2012
La foto di Nicola
Tra fotografi, ho notato, c'è l'uso di regalarsi stampe per determinate ricorrenze - festività, compleanni, ecc. Sarà che non mi sono mai azzardata a chiamarmi fotografa, ma io di stampe non ne avevo ancora mai ricevute. Fino a oggi. So che quelle di Giangiacomo sono in viaggio - non ha saputo trattenersi e mi ha svelato la sorpresa un paio di giorni fa - e infatti credevo che la busta trovata oggi sulla mia scrivania fosse sua. La giro e scopro che invece il mittente è un altro. All'improvviso ricordo che anche lui non molto tempo fa mi aveva anticipato la spedizione di un pensiero per il mio compleanno, e so per esperienza che da lui ci si può aspettare di tutto. Strappo delicatamente la carta e ne estraggo una bustina trasparente che contiene una stampa in bianconero di un profilo femminile. L'immagine mi piace in un modo che non so spiegare: mi ci ritrovo, i tratti ricordano i miei, l'atmosfera è intimista e un po' malinconica. Quello che mi pare un dato significativo tanto quanto il tipo di foto è il fatto che nella bustina trasparente ci sia anche il negativo. Lo guardo in controluce e noto che nella stampa si è scelto di scurire completamente il viso della ragazza, i cui lineamenti sono invece lievemente visibili sulla pellicola. Insieme alla foto, un biglietto. Di nuovo, Nicola mi ha lasciato senza parole. Non mi ha regalato una stampa, una riproduzione, ma proprio la sua fotografia. Qualcosa che lui adesso non ha più perchè l'ha data a me, tutta. E a parole, in poche righe, parte della sua poetica fotografica.
Grazie davvero, per la tua generosità e quel modo sempre delicato che hai di comunicare con coloro che contano per te. Sei una persona che sa fermarsi e fare di quel tempo piccolo un'estensione grande.
Grazie davvero, per la tua generosità e quel modo sempre delicato che hai di comunicare con coloro che contano per te. Sei una persona che sa fermarsi e fare di quel tempo piccolo un'estensione grande.
martedì 3 gennaio 2012
FareWell Poetry
The brackish wind beats at the blinds like a vatic cudgel counting down the last of the day.
On the final strike the night comes vaulting over the village,
bursting with a thick dye to hood the sky,
an eyelid closing over an eye,
my hands feeling expectant,
opening as if to receive something.
My heart comes fast over the ridge like a drunk taxi.
You're already a quarter of an hour later than your morning promise.
I am as silent as the chicken roasting in the oven,
all trussed up with string and clogged and bogged with heavy stuffing.
For their proximity in my imagination,
your features are indistinguishable from how they fit into mine.
For a black moment I doubt your return...
but the port calls to you like to all the other ships.
The walls thin, I can hear you swing the latch;
I can hear your heal catch the uneven brick;
I can hear your feet court the hackle of our welcome mat.
You are here, and the day falls from me like mature fruit.
Iscriviti a:
Post (Atom)