Ho appena terminato di leggere uno dei libri più appassionanti degli ultimi anni. Di quelli che porti con te come una coperta di Linus: sempre nella borsa, estratto furtivamente durante le ore in ufficio, letto la sera sotto il piumone con la mia abat-jour à la carte, come l'ho battezzata - un filo di lucine distribuito sul petto a illuminare perfettamente le pagine.
Il libro s'intitola Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto, dell'americana Katie Hafner. Non la definirei una scrittrice, è più una giornalista. La bellezza non stava nella forma, pulita ma senza voli pindarici lessicali, quanto nel contenuto: questo libro è come una favola. Di più: un piccolo film. Tre i protagonisti principali: Glenn Gould, uno dei pianisti più straordinari del XX secolo, il suo accordatore semicieco Verne Edquist e il pianoforte CD 318 di Steinway & Sons. La storia è quella di una ricerca, un amore, un'ossessione fatta di sfumature inimmaginabili ed equilibri delicatissimi.
Tutto quello che posso fare è consigliarvelo. E' un libro che ti prende, racconta e insegna. Da esso ho potuto conoscere anche la storia della Steinway & Sons, uno dei più importanti produttori di pianoforti al mondo, nata dal capostipite di una famiglia tedesca che si trasferì a New York nel 1850. Questo per me ha un significato del tutto particolare, perchè richiama un'altra storia che mi riguarda più da vicino: quella del mio Steinway. Mia nonna paterna aveva studiato al Conservatorio e ha sempre suonato sul pianoforte che si trova nel salotto della casa dove sono cresciuta: un mezzacoda in palissandro del 1909, proveniente dalla fabbrica Steinway di Amburgo e quindi precedente la produzione americana dei più commercializzati pianoforti della Steinway & Sons. Di esso so solo che il suo primo proprietario fu, appunto, un tedesco, ma non ho idea di come sia finito nel salotto dei nonni. Sta di fatto che per anni ho suonato anche io su quel pianoforte, e ricordo quelle tante ore con particolare dolcezza. Lo usavo anche per studiare, nonostante la sua meccanica fosse molto leggera e non fosse quindi adatto a fortificare le dita - per questa sua caratteristica sono sicura che sarebbe molto piaciuto a Glenn Gould, che instaurò un rapporto simbiotico con il suo CD 318 perchè era l'unico ad avere le caratteristiche tecniche fondamentali per suonare come voleva lui. Leggendo di questa spasmodica ricerca mi è venuto spontaneo fare un parallelismo con la fotografia, che invece non è così maniacalmente legata allo strumento attraverso il quale si oggettivizza. Certo, l'ottica è importante; la stampa anche; ma il colore e il respiro della musica è qualcosa che non può prescindere dallo strumento, e quanto più l'orecchio è sensibile (come lo erano, e straordinariamente, quelli di Gould e di Edquist) tanto più importante è la perfezione qualitativa del suono. Suono dal quale io amavo farmi riempire, aprendo la cassa armonica ogni volta che mi sedevo al pianoforte: quando lo suonavo io aveva una sonorità calda, morbida, quasi aromatica: io ricercavo nel suono la stessa misteriosa delicatezza che metto nelle mie foto oggi. Quel pianoforte mi offriva invece gli altri lati della sua personalità quando veniva suonato da pianisti professionisti. Mio nonno infatti spesso assisteva a svariati concorsi e, in un modo che ebbi a sperimentare direttamente una volta perchè fui io ad accompagnarlo, andava a pescarsi i vincitori a fine serata e li scritturava per dei concerti da tenere a casa sua, dove invitava una sessantina di suoi amici appassionati di musica. La casa diventava un piccolo teatro: sedie, poltrone e divani venivano disposti a T intorno al pianoforte, sul quale si accendevano le uniche luci. Il nonno faceva la sua presentazione, che era sempre abbastanza teatrale - solenne ma anche ironica e divertente - e tra gli applausi il pianista di turno entrava nella sala, per deliziare il ristretto pubblico con oltre un'ora di splendide esecuzioni. Era lì che quel pianoforte poteva sfogare pienamente la voce delle sue corde, e io fui abituata a questo spettacolo fin da quando ero bambina, quando insieme a mio fratello mi mettevo seduta su un cuscino a terra, abbastanza vicino al pianoforte da riuscire a vedere il volo delle dita sulla tastiera. Le serate organizzate dal nonno furono un centinaio, e ne fece fino ai suoi ultimi anni di vita.
Quando tornerò a Milano la prossima volta aprirò lo Steinway con occhi diversi. Non ci saranno più soltanto il nonno, i pianisti e le mie ore sulla tastiera, quando l'unico modo per ricordare un pezzo che non suonavo da tempo era chiudere gli occhi senza pensare a quello che stavo facendo. Ora vedrò anche Gould, Edquist e il CD 318. Guarderò dentro la cassa armonica, le corde, i martelletti e le caviglie, e proverò ad ascoltare davvero il suono di quel gioiello meraviglioso.
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