Differenza d'altitudine tra i miei occhi e i tuoi,
che seppero farmi mancare l'ossigeno
quando con i desideri m'avvicinai a te.
Nel tempo scrivesti sulla pelle
storie che non esistevano, allora.
Cicatrici mute,
che imparai a conoscere volendoti bene.
E quella frase lasciata a metà,
come un invito a venirmi a prendere il resto.
Che tenevi stretto tra i denti
come il tuo unico nutrimento.
Riposando, non sapevo se quella calma
fosse il verde di un prato o l'azzurro dell'acqua.
Ma non importava, perchè entrambi erano occhi tuoi.
E mai risveglio fu più incerto nella sua bellezza
di quando quella volta ti amai in inglese,
prima di volarti via.
In fotografia, f/64 è il valore di minima apertura del diaframma. Massimo dettaglio, visione profonda.
venerdì 24 agosto 2012
martedì 21 agosto 2012
Ubiquità temporale
Ci sono molte donne che io non sono. E altrettante ragazzine che io non sono stata.
Mi è chiaro più che mai guardando le foto degli altri. Tempi che si mischiano mostrandomi l'oggi di un'età che per me era ieri. Il dove, il come, il cosa i ventenni fanno nel tempo presente.
Sullo sfondo, la scenografia di una Milano che è lì com'è sempre stata, come io la ricordo. Con i suoi palazzi fatti proprio in quel modo, i colori privi di dubbi, la cura indifferente. Altezzosa e mesta, fredda e vecchia la mia città.
Pensavo di non ricordare più. Di aver salvato solo alcuni fotogrammi, spesso gli stessi di una macchina fotografica che andava a pellicola per necessità e non per feticismo.
E invece subito m'invade la sensazione dello stare insieme al compagno, al complice, al giovane esploratore, immersi in quello che sembrava tutto.
Le mie scelte sono sempre state, per la me di oggi, un po' opinabili in fatto di compagnia maschile. Così rassicuranti, spesso brillanti più per l'intelletto che per l'indole, così presentabili.
Di allora, dei miei diciotto o vent'anni ricordo soprattutto questa Milano sicura. Spiritualmente elitaria, se possibile. E dall'altra parte della linea da non valicare, che neanche vedevo, la paura. La minaccia. Gli uomini sporchi, che non avevano nulla da perdere, che non lasciavano intentata l'occasione di aggredirti verbalmente con le loro fantasie. Occhi bassi, orecchie distratte, e passare via come se non esistessero. Ma intanto il cuore batteva forte, nei passi o nella corsa a cui qualcuno mi ha costretto. Questa Milano la temevo, e odiavo il fatto che le lasciassi limitare la mia azione.
Per anni sono uscita con lo stesso gruppo di amici, ogni venerdì e sabato. C'è stato un periodo in cui tutte le settimane facevo dolci per loro. Mi piaceva invalidare la proprietà commutativa con gli ingredienti: gli stessi addendi davano ogni volta una somma diversa. A volte il posto per mangiarli c'era, sul tavolo di quello che chiamavamo l'ufficio. Che poi un ufficio era, in effetti. Del padre di uno di loro. Altre volte capitava che li mangiassimo in piedi per strada, o a casa di qualcuno.
Era tutto semplice. Ogni cosa si faceva ancora prima di averla pensata. Le opzioni erano tante, e il tempo rendeva possibile il non doverne scartare nessuna, o quasi.
I marciapiedi di Milano - mi accorgo ora vedendoli in foto - sono come solo lei li sa trattare. Quello che succede sul loro asfalto si riconosce al volo, come se fossero parte di un film già visto ma non ancora girato. La pietra dei suoi palazzi, il disegno delle facciate. L'odore della pioggia che riesci a sentire anche solo con il pensiero.
Di tutto questo non si accorge chi continua ad abitare quel luogo e quel tempo.
Chi non è cambiato come ho fatto io in questi sette e passa anni.
Chi non è costretto, ora, a rendersi conto che di quel mondo non fa più parte. Anche se vorrebbe non avere interrotto i rapporti con esso, solo per mettersi insieme a un'esperienza diversa che l'ha infine tradito.
C'è ancora una possibilità, Milano? Come ti troverò, invecchiata come me di qualche anno ma con le stesse energie di un tempo? Da te voglio tornare da donna che ti ama, e che solo adesso sa che non si stancherà delle tue rughe. Che riderà con tenerezza del tuo sforzo di essere sempre perfetta nonostante i tuoi abitanti. Che inveiscono contro il tuo rassicurante grigiore, la pioggia che non dà tregua. Quell'essere sempre tutta bagnata e impietosa, che quando arriva il weekend va via quel poco sole che ti aveva preso in giro mentre dovevi stare rinchiuso a studiare o a lavorare. Quei manichini che dall'alto dei loro privilegi in carta velina popolano i tuoi bei locali pretenziosi, contraltare dei ragazzi che si siedono per terra nei pressi dei Navigli mentre fumano sigarette arrotolate intorno al vero tabacco e bevono birra dalle bottiglie.
Non so se, non so quando ritroverò quella città.
Più di ogni altra cosa vorrei ritrovare me, e benchè si dica che non è il cambiamento di scenario a guarire certe infezioni dell'animo, io so che Milano un po' mi ha in sè. E so che posso riapplicare i suoi tessuti ai miei, innestandoli come piante per far ricrescere i germogli di quello che ero allora, da qualche parte immersa.
Là e ora, qua e ieri allo stesso modo. In ubiquità temporale.
Mi è chiaro più che mai guardando le foto degli altri. Tempi che si mischiano mostrandomi l'oggi di un'età che per me era ieri. Il dove, il come, il cosa i ventenni fanno nel tempo presente.
Sullo sfondo, la scenografia di una Milano che è lì com'è sempre stata, come io la ricordo. Con i suoi palazzi fatti proprio in quel modo, i colori privi di dubbi, la cura indifferente. Altezzosa e mesta, fredda e vecchia la mia città.
Pensavo di non ricordare più. Di aver salvato solo alcuni fotogrammi, spesso gli stessi di una macchina fotografica che andava a pellicola per necessità e non per feticismo.
E invece subito m'invade la sensazione dello stare insieme al compagno, al complice, al giovane esploratore, immersi in quello che sembrava tutto.
Le mie scelte sono sempre state, per la me di oggi, un po' opinabili in fatto di compagnia maschile. Così rassicuranti, spesso brillanti più per l'intelletto che per l'indole, così presentabili.
Di allora, dei miei diciotto o vent'anni ricordo soprattutto questa Milano sicura. Spiritualmente elitaria, se possibile. E dall'altra parte della linea da non valicare, che neanche vedevo, la paura. La minaccia. Gli uomini sporchi, che non avevano nulla da perdere, che non lasciavano intentata l'occasione di aggredirti verbalmente con le loro fantasie. Occhi bassi, orecchie distratte, e passare via come se non esistessero. Ma intanto il cuore batteva forte, nei passi o nella corsa a cui qualcuno mi ha costretto. Questa Milano la temevo, e odiavo il fatto che le lasciassi limitare la mia azione.
Per anni sono uscita con lo stesso gruppo di amici, ogni venerdì e sabato. C'è stato un periodo in cui tutte le settimane facevo dolci per loro. Mi piaceva invalidare la proprietà commutativa con gli ingredienti: gli stessi addendi davano ogni volta una somma diversa. A volte il posto per mangiarli c'era, sul tavolo di quello che chiamavamo l'ufficio. Che poi un ufficio era, in effetti. Del padre di uno di loro. Altre volte capitava che li mangiassimo in piedi per strada, o a casa di qualcuno.
Era tutto semplice. Ogni cosa si faceva ancora prima di averla pensata. Le opzioni erano tante, e il tempo rendeva possibile il non doverne scartare nessuna, o quasi.
I marciapiedi di Milano - mi accorgo ora vedendoli in foto - sono come solo lei li sa trattare. Quello che succede sul loro asfalto si riconosce al volo, come se fossero parte di un film già visto ma non ancora girato. La pietra dei suoi palazzi, il disegno delle facciate. L'odore della pioggia che riesci a sentire anche solo con il pensiero.
Di tutto questo non si accorge chi continua ad abitare quel luogo e quel tempo.
Chi non è cambiato come ho fatto io in questi sette e passa anni.
Chi non è costretto, ora, a rendersi conto che di quel mondo non fa più parte. Anche se vorrebbe non avere interrotto i rapporti con esso, solo per mettersi insieme a un'esperienza diversa che l'ha infine tradito.
C'è ancora una possibilità, Milano? Come ti troverò, invecchiata come me di qualche anno ma con le stesse energie di un tempo? Da te voglio tornare da donna che ti ama, e che solo adesso sa che non si stancherà delle tue rughe. Che riderà con tenerezza del tuo sforzo di essere sempre perfetta nonostante i tuoi abitanti. Che inveiscono contro il tuo rassicurante grigiore, la pioggia che non dà tregua. Quell'essere sempre tutta bagnata e impietosa, che quando arriva il weekend va via quel poco sole che ti aveva preso in giro mentre dovevi stare rinchiuso a studiare o a lavorare. Quei manichini che dall'alto dei loro privilegi in carta velina popolano i tuoi bei locali pretenziosi, contraltare dei ragazzi che si siedono per terra nei pressi dei Navigli mentre fumano sigarette arrotolate intorno al vero tabacco e bevono birra dalle bottiglie.
Non so se, non so quando ritroverò quella città.
Più di ogni altra cosa vorrei ritrovare me, e benchè si dica che non è il cambiamento di scenario a guarire certe infezioni dell'animo, io so che Milano un po' mi ha in sè. E so che posso riapplicare i suoi tessuti ai miei, innestandoli come piante per far ricrescere i germogli di quello che ero allora, da qualche parte immersa.
Là e ora, qua e ieri allo stesso modo. In ubiquità temporale.
sabato 18 agosto 2012
Me ne andavo da quella Roma...
E avevi tra le tue fauci volgari il solito ghigno beffardo,
lì ad aspettarmi come se non ci fosse nessun altro paio d'occhi su cui accanirti.
Li volevi allagare, subito, senza indugi.
E ci sei riuscita, brutta bestia, come sempre.
Non mi resta che innalzare il mio sorriso ancora fresco su una palafitta,
per impedirti di farmelo bagnare e arruginire
come hai già fatto con altri miei ingranaggi.
Per l'ultima volta ti grido contro nel caldo estivo.
Mamma Roma, addio.
lì ad aspettarmi come se non ci fosse nessun altro paio d'occhi su cui accanirti.
Li volevi allagare, subito, senza indugi.
E ci sei riuscita, brutta bestia, come sempre.
Non mi resta che innalzare il mio sorriso ancora fresco su una palafitta,
per impedirti di farmelo bagnare e arruginire
come hai già fatto con altri miei ingranaggi.
Per l'ultima volta ti grido contro nel caldo estivo.
Mamma Roma, addio.
venerdì 17 agosto 2012
Miracle notes
C'è, nel pezzo che sto ascoltando, un momento brevissimo, lungo non più di sette secondi, che questa notte mi ha fatta sua. E' il cuore di una sequenza in cui la musica si toglie le scarpe della sua voce perentoria per accarezzare l'idea che l'ha, probabilmente, originata. Poi torna a gonfiarsi ancora un paio di volte, prima di attutirsi nella bassa marea del finale. Sono ripassata sul minuto che costruisce quella sezione del brano per almeno una ventina di volte, mentre me ne stavo al buio completo, nel mio piccolo letto della casa al lago, a rigirarmi da ferma tra le sensazioni che mi evocava.
La magia di quei secondi nasce dal senso di malinconica ineluttabilità che una frase musicale può essere in grado di suggerire.
Userò questa sensazione per scrivere, probabilmente questa notte stessa, quando il buio scenderà nuovamente accompagnando una perfetta solitudine.
Splendido, dunque, poter fruire del prodotto finito per generare altro, ma ciò su cui mi sono soffermata poco fa, lasciando appendere lo sguardo alla gamba della poltrona che mi sta a fianco e allontanandolo dal libro che sto leggendo, non è la bellezza del brano musicale o l'amore per quel brevissimo passaggio per se. E' invece una sorta d'invidia per chi ha creato quel pezzo, delineata più precisamente in un desiderio di retroazione al momento in cui è stato concepito.
Avrei voluto esserci.
Sentire come e perché, dopo quanti tentativi, dopo quali discorsi di note fosse venuta alla luce quella frase di pochi secondi. Quattro accordi che racchiudono potenzialità infinite di filiazione creativa successiva. Che sia solo una vibrazione, una sensazione, un pensiero, un racconto o il tema di un intero romanzo o di un film poco importa. Questo dipende solo da chi li riceve e dalle sue intenzioni. Meglio, dipende dalla sua incapacità di opporvisi - e io, inutile dirlo, non ne ho alcuna.
E allora ho collegato questa volontà di ritorno all'origine a ciò che riguarda il mio fare fotografie, o il mio scrivere. E' sempre nel momento della creazione - dello scatto o della stesura - che trovo il senso del fare. Il risultato m'interessa solo come summa finale di tutto quello che ho messo in ciò che stavo facendo, ma non c'è autocompiacimento. Non mi do nessuna pacca sulle spalle per ciò che ho appena ultimato. Non m'interessa neanche più di tanto mostrarlo agli altri, se non alle persone delle quali ritengo importante il parere. Del resto, il mio è un modo molto egoista di creare, anche perché so bene da quale taciuta esigenza esso origini.
Dell'arte m'interessa l'atto creativo. Il parto che segue la gestazione. L'attimo in cui l'idea - niente più che uno schizzo veloce - si mette in moto autonomamente e, senza alcuna indicazione di percorso da parte dell'organismo ospite, gli mostra un luogo del quale non conosceva nemmeno l'esistenza.
Non è vero che tutto è già stato scritto, e se anche così fosse sopravviverebbe comunque l'unicità della genesi. Per questo irrido le copiature e l'imitazione, perché laddove il risultato fosse simile o persino uguale, nulla potrebbe mai togliere a chi ha creato un'opera per primo la sua originalità, intesa in senso stretto come nascita.
A chi segue non resta che guardare la fotografia. Il quadro. Le parole sul foglio. Senza sapere, senza possedere l'atto creativo. Come non avvertire un senso d'incompletezza? Come evitare di mettere in campo un sistema d'interpretazioni personali? Che non hanno nulla di sbagliato, sia chiaro, ma sono altro. Io invece voglio proprio quella cosa lì. Quella di quel momento, di quel luogo non mentale. Certo, di una parte non indifferente della faccenda s'impadronisce il talento, che pochi possiedono. Ma anche solo la sensibilità può costituire un buon lasciapassare, almeno da uditori.
E così, parlando di udire, ora mi ritrovo con questi sette secondi di musica, sui quali continuo a ripassare come un ladro farebbe davanti alle vetrine di una banca che non ha potuto rapinare. E al quale non resta che fantasticare su come avrebbe speso la refurtiva. Magari provando a raccontarlo, perdendosi nel buio dei vicoli di una nuova storia.
Cesare Picco - Miracle Road (3'16" - 3'22")
La magia di quei secondi nasce dal senso di malinconica ineluttabilità che una frase musicale può essere in grado di suggerire.
Userò questa sensazione per scrivere, probabilmente questa notte stessa, quando il buio scenderà nuovamente accompagnando una perfetta solitudine.
Splendido, dunque, poter fruire del prodotto finito per generare altro, ma ciò su cui mi sono soffermata poco fa, lasciando appendere lo sguardo alla gamba della poltrona che mi sta a fianco e allontanandolo dal libro che sto leggendo, non è la bellezza del brano musicale o l'amore per quel brevissimo passaggio per se. E' invece una sorta d'invidia per chi ha creato quel pezzo, delineata più precisamente in un desiderio di retroazione al momento in cui è stato concepito.
Avrei voluto esserci.
Sentire come e perché, dopo quanti tentativi, dopo quali discorsi di note fosse venuta alla luce quella frase di pochi secondi. Quattro accordi che racchiudono potenzialità infinite di filiazione creativa successiva. Che sia solo una vibrazione, una sensazione, un pensiero, un racconto o il tema di un intero romanzo o di un film poco importa. Questo dipende solo da chi li riceve e dalle sue intenzioni. Meglio, dipende dalla sua incapacità di opporvisi - e io, inutile dirlo, non ne ho alcuna.
E allora ho collegato questa volontà di ritorno all'origine a ciò che riguarda il mio fare fotografie, o il mio scrivere. E' sempre nel momento della creazione - dello scatto o della stesura - che trovo il senso del fare. Il risultato m'interessa solo come summa finale di tutto quello che ho messo in ciò che stavo facendo, ma non c'è autocompiacimento. Non mi do nessuna pacca sulle spalle per ciò che ho appena ultimato. Non m'interessa neanche più di tanto mostrarlo agli altri, se non alle persone delle quali ritengo importante il parere. Del resto, il mio è un modo molto egoista di creare, anche perché so bene da quale taciuta esigenza esso origini.
Dell'arte m'interessa l'atto creativo. Il parto che segue la gestazione. L'attimo in cui l'idea - niente più che uno schizzo veloce - si mette in moto autonomamente e, senza alcuna indicazione di percorso da parte dell'organismo ospite, gli mostra un luogo del quale non conosceva nemmeno l'esistenza.
Non è vero che tutto è già stato scritto, e se anche così fosse sopravviverebbe comunque l'unicità della genesi. Per questo irrido le copiature e l'imitazione, perché laddove il risultato fosse simile o persino uguale, nulla potrebbe mai togliere a chi ha creato un'opera per primo la sua originalità, intesa in senso stretto come nascita.
A chi segue non resta che guardare la fotografia. Il quadro. Le parole sul foglio. Senza sapere, senza possedere l'atto creativo. Come non avvertire un senso d'incompletezza? Come evitare di mettere in campo un sistema d'interpretazioni personali? Che non hanno nulla di sbagliato, sia chiaro, ma sono altro. Io invece voglio proprio quella cosa lì. Quella di quel momento, di quel luogo non mentale. Certo, di una parte non indifferente della faccenda s'impadronisce il talento, che pochi possiedono. Ma anche solo la sensibilità può costituire un buon lasciapassare, almeno da uditori.
E così, parlando di udire, ora mi ritrovo con questi sette secondi di musica, sui quali continuo a ripassare come un ladro farebbe davanti alle vetrine di una banca che non ha potuto rapinare. E al quale non resta che fantasticare su come avrebbe speso la refurtiva. Magari provando a raccontarlo, perdendosi nel buio dei vicoli di una nuova storia.
Cesare Picco - Miracle Road (3'16" - 3'22")
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