A Milano non ci so più stare. La casa che prima era la mia tana ora mi sta stretta. Dopo un mese vissuto costantemente sopra i 3200 metri, l'ossigeno delle basse quote non mi basta comunque.
E' bello tornare a casa, ma poi ti tornerà la voglia di partire, mi ha detto A. qualche giorno fa quando mi apprestavo a lasciare il Perù. Il fatto è che il bello del ritorno a me è durato il tempo di una cena a casa dei miei, o i dieci minuti di una doccia con la bocca aperta a far entrare acqua finalmente potabile. Appena varcata la soglia di casa, la mia, ho cominciato a sentirmi strana, fuori posto. Restare ancora in Sud America sarebbe stato troppo, ma stare qua è troppo poco. Segno che ho vissuto l'esperienza nel modo migliore.
Abbiamo passato i primi dieci giorni in una specie di gelido inferno dantesco, nei pressi di una miniera a cielo aperto che con i suoi 4400 metri è la più alta del mondo. A. faceva le foto, io mi occupavo della parte testuale. Abbiamo incontrato molte persone, parlato con loro, visto nei loro occhi l'impotenza e la rassegnazione. Si tratta di una problematica ambientale piuttosto pesante, di cui per ora non darò dettagli - ogni cosa a suo tempo.
Ho voluto subito cominciare a lavorare sull'articolo, procedendo parallelamente con un racconto in forma di scrittura creativa sulla stessa vicenda. Scrivere è la sola cosa che riesco a pensare di fare da quando sono tornata, ma è una bestia strana, selvatica. Si aggira per casa, mi fa sentire il suo fiato sul collo. Non somiglia a nessuna ispirazione precedente. Le pareti sembrano chiudermi, ho bisogno di aria. In Sud America non stavo quasi mai in spazi chiusi, e gli altipiani sono gli spazi aperti per eccellenza.
Esco con il Mac a scrivere nel mio piccolo cortile delimitato da piante che, per fortuna, provvedono da sole a se stesse. L'angolo dello scrittore ha solo un tavolino di legno con due sedie, scrostate dall'alternarsi di acqua e sole. Pioviggina, l'aria è freddina. Indosso la giacca del viaggio, mi pare l'unica giusta. Il naso è umido, i polpastrelli scontano la lontananza termica dalle maniche.
Non mi sento più abitante di nessun luogo. Cerco il Sud America come una vena d'oro nel sottosuolo.
Ieri sera sono crollata sul divano non più tardi delle nove, le luci erano già spente. Mi sono risvegliata un'oretta più tardi e non riconoscevo il posto in cui ero. Pareva di essere in un punto di passaggio, la tappa di un viaggio che continua. Potevo essere su un'imbarcazione, un'isola galleggiante, un camion. Confusa, mi sono alzata e ho cominciato a scrivere il racconto che mi gira in testa da settimane. Prima di iniziare ho comprato nuova musica, quella che appartiene a quei luoghi, e mi ci sono abbandonata per almeno un'ora. La scrittura è nemica della fretta. Sono tornata a quelle atmosfere, ho riguardato un paio di video girati con il cellulare - perché non ne ho fatti di più?
Di giorno lavoro all'articolo del reportage sulle miniere, ho molte registrazioni delle interviste fatte e mi rendo conto di capire perfettamente lo spagnolo ora, da che non ne sapevo una parola prima di partire. L'inflessione, il modo di ammorbidire le "b" in "v", i rumori di sottofondo in strada, le grida delle donne. Tutto mi riporta in Perù.
Tento di trattenere i dettagli con le unghie, quasi non vorrei fare nulla né vedere nessuno per evitare che nuove immagini e parole si stratifichino su quelle che lentamente, inevitabilmente, scemeranno.
La musica è la mia più grande alleata, ma non è del genere che normalmente uso per scrivere. Sto ascoltando qualcosa di veramente tamarro. Sì, il Sud America ha un gusto anche molto tamarro, in generale. Per la strada non senti la latino-americana che ti aspetti, quei ritmi morbidi ed esotici, o scatenati e ballabili fatti di chitarre, fiati e percussioni. Quei pezzi li passano per radio sugli autobus, ci fanno i dvd da proiettare nei locali. Invece quando cammini sui marciapiedi pompa il reggaeton. Esce a tutto volume da negozi senza vetrine, solo pareti tappezzate di bustine di plastica con copertine sgargianti: film, musica, videogiochi.
Lo schermo riflettente del Mac rimanda un accenno della mia immagine, capelli sempre più lunghi incoronati da un paio di grosse cuffie, la schiena che si snoda sinuosa al ritmo della musica.
Mi scrive A. proprio ora, dandomi sue notizie. E' rimasto in Sud America per fare altri lavori e a me pare di avere un piede qua e uno là, come se una parte di me fosse ancora in quel continente. Capisco bene cosa intenda quando accenna a situazioni interessanti che ha trovato. Aspetto di vedere qualche foto, il suo modo di guardare mi piace moltissimo: attento, sincero e a volte crudo, ma mai gratuito. Mi ha insegnato cosa significhi stare sul campo, il valore del tempo per aspettare che le cose si rivelino in maniera efficace, l'importanza di andarle a cercare sempre - anche se magari poi non le trovi. Quello che conta è esserci, si assorbe sempre qualcosa. Non vedo l'ora del prossimo lavoro insieme.
Nonostante provi questo sentimento di smania rispetto allo scrivere la mia storia - e solo ora che ne ho veramente una avverto l'urgenza di portarla alla luce - in certi momenti sento di volerci anche solo stare dentro, semplicemente. Come quando ci si trova da qualche parte e si ha l'impulso di fotografare: è difficile tenere le mani a posto, rinunciare alla registrazione. Specialmente nei tempi attuali, in cui se non fotografi una cosa è come se non fosse mai esistita. Quando siamo andati al Salar de Uyuni ne abbiamo avuto una prova lampante: la gente non faceva altro che scattare, si erano portati persino cavalletti e telecomandi per farsi gli autoscatti ambientati. Io e A. camminavamo sulle distese di sale guardando questa strana fauna che assumeva le pose più assurde approfittando degli effetti prospettici ingannevoli che il deserto di sale creava. Era la cosa più divertente e al tempo stesso sconcertante dell'escursione. La più inaspettata invece è stata la presenza sulla nostra jeep di un sassofonista cileno, Marcelo Moncada, che con il suo operatore video gira i posti più spettacolari del mondo facendosi riprendere mentre suona la sua musica sperimentale. Incredibilmente noi due eravamo il suo unico pubblico, gli altri erano troppo presi a farsi le foto a vicenda. Il suono del sax si apriva un varco tra i cactus, facendo botta-e-risposta con le pareti dell'isola Incahuasi, oppure si scioglieva orizzontale sulla superficie piatta e abbacinante del Salar.
Le cose da raccontare sono davvero troppe, meritano spazi diversi. Il guaio della registrazione è che è sempre parziale rispetto a quello che pretende di rappresentare. Il diario visivo del mio viaggio è su Instagram (@stellastelassa), chi mi ha seguito lì ha vissuto il viaggio pressoché in tempo reale. I miei brevi racconti in didascalia hanno appassionato molti, in maniera anche inaspettata per me. Ho avuto conferma del fatto che per me nessuno dei due mezzi - immagine e parola - possa prescindere dall'altro.
Non c'è finale, non c'è chiusura per questo post. E' tutto in sospeso, come me in questo momento. Metterò qui solo una fotografia, la meta simbolica principale del mio viaggio: il foglio bianco.
Posso confessarti di aver letto il tuo post tutto di un fiato? Confessione n.2: anch'io spesso mi sento soffocare ma perché mi scelgo sempre città molto piccole per inseguire il mio sogno professionale. Dopo poco mi chiedo: ma sono io che non mi accontento mai? E' un bene o un male?
RispondiEliminaCome mai vuoi fuggire da Milano, una città così grande?
p.s. scusa per le troppe domande! :P
Non è la dimensione delle città, è la dimensione di quello che sei dentro tu. Molta gente sta bene in paesi di 5.000 abitanti, ad altri non basta New York... Non stiamo parlando di Milano, non è una questione di geografia, c'entra quello che hai dentro e il suo rapporto con le pareti. Visibili o invisibili che siano.
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