E' il mio primo, istintivo, esperimento di scrittura su reportage. E qualcosa mi dice che non sarà l'ultimo...
Una lingua di luce approda a Venezia, allungandosi viva dalle labbra di una nave. Palazzi narcisi si specchiano su quello stesso terreno, spartendosi il piccolo regno con invisibili seduti. Austere e fredde geometrie dialogano con il dinamismo di una figura che passa lasciando un’effimera scia di calore umano. Fiato prezioso, intimo, annidato anche sotto il malinconico guscio di un uomo che guarda attraverso un naturale riquadro nella cartolina dove è, a sua volta, inconsapevolmente incastonato. Proiezioni di vite prestate ai gradini di un ponte, ad incontrare il bacio del sole. E poi via, in picchiata sopra strisce bianche e nere che si muovono sull’acqua plumbea con antica maestria e misurati equilibri. Lo sguardo si alza per andare a scivolare lungo linee che solcano l’aria come colpi di lame sul ghiaccio, cui sono aggrappate, rovesciate come arresi pipistrelli, file di vestiti senza corpi. Questo è il Lido con la sua normalità straordinaria, un incrocio tra persone ormai incuranti della bellezza della città ed occhi vergini che, rapiti, ancora la fotografano. Qui si respira il lento incedere del tempo, perso e insieme guadagnato nel gioco, nella sosta, nell’attesa. Finchè si alza il vento, a increspare la quiete del mare. Il cielo si fa scuro, la luce comincia a scorrere nei flessuosi tubi al neon che imitano le architetture del luogo. Fermarsi lungo la riva di un canale e fare conoscenza con un lampione e i suoi alati inquilini: tutto il resto si annebbia, si confonde. I confini si perdono, le sfumature dei contorni si sfiorano. Lui solo mantiene la propria incrollabile identità: è lì da sempre, testa e braccia alzate verso l'alto su un tronco sottile e slanciato. Si torna a casa, lentamente, attardandosi ancora un po' a guardare la cresta della città, sopra alla quale si consuma l'ultima battaglia tra un sole caparbio e nubi stracciate. Le gondole saltellano eccitate dallo spettacolo, mentre l'acqua si disaggrega in minuscole sfere volanti. Un ultimo saluto al fiero amico metallico, finalmente solo anch'esso e pronto a illuminare la notte. Un signore innamorato ha perso la testa e porta in giro solo la sua giacca quadrettata. La morbida sinuosità di una sagoma bizantina abbraccia un palazzo sullo sfondo, mentre un uccello macchia il cielo immacolato. La giornata è finita e si chiude con lo stesso gioco di riflessi con il quale si era aperta. Sacro e profano si avvicinano senza toccarsi, se non per il dispetto di un'ombra che si allunga, viva, dalle labbra di una bandiera.
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