Una settimana fa ho scritto il mio primo racconto. Una bozza, a dire il vero: voglio ritornarci sopra e modificare/aggiungere qualcosa. L'ho scritto di getto in 2-3 ore e probabilmente a tre quarti del lavoro ero troppo stanca per sostenere il ritmo narrativo della parte precedente, dunque in quel punto andrebbe spinto ancora un po'. Al di là di queste considerazioni per voi assolutamente inutili e noiose, dato che non l'avete letto, m'interessava fare una riflessione.
Ho inviato il racconto a un ristretto numero di occhi - alcuni tra quelli cui normalmente faccio riferimento per le critiche delle mie fotografie - e ognuno di loro mi ha offerto il proprio punto di vista. L'ho anche letto al corso di scrittura, ma lo stringato giudizio del docente, che lo reputa molto interessante, denso e fluido allo stesso tempo, non mi è parsa un'indicazione molto utile. Insomma, io mi aspetto qualcosa di più mirato da uno che sta in cattedra e si presume mi debba dire su cosa debba lavorare per migliorarmi. Ma al di là di questa velata polemica e tornando sui feedback dei miei critici personali, quello che forse più mi ha colpito è stato quello di Moreno P., che poi scrive per mestiere.
Estrapolando, mi dice: "È interessante, è un corto fatto e finito. (...) Funziona e poi inquadri bene, la tua esperienza fotografica si sente. Se fosse un corto direi: che bella fotografia che ha... Anzi, ora inizio a dirlo anche dei libri e dei racconti: questo libro ha una bella fotografia."
Io credo che in queste parole ci sia l'essenza del mio modo di scrivere, che è per forza di cose (positivamente, direi) contaminato dalla fotografia. Anche in altre occasioni mi è stata detta questa stessa cosa - stile cinematografico, fotografico, ecc. - e mi ci ritrovo molto. Quando mi viene l'idea per una foto o uno scritto, tutto parte quasi sempre da un'immagine. A volte è reale, altre è solo nella mia testa. Che io poi la fotografi o la descriva a parole, è solo una questione di scelta del mezzo. Per me non c'è nulla di più immediato che raccontare quello che vedo fuori o dentro di me, facendo partecipe chi legge del mio modo di guardare. Non lo faccio per spiegare o aiutare a capire - non è mai stato quello il mio fine in nessuna espressione, e del resto lo spettatore va sedotto e non indottrinato - ma semplicemente perchè è quello il modo in cui le cose mi attraversano, l'unico che guida il mio scrivere. Il che può essere tanto un punto di forza quanto un limite, chissà. I margini di miglioramento sono, come sempre, amplissimi e io ho appena cominciato. Però mi piace questa mia verginità nell'approccio alla scrittura: quando vado a "lezione", gli altri stanno sempre lì a citare questo e quello, hanno tutti letto molto più di me, anche per una questione meramente anagrafica. Non so, io sono una novellina, eppure spesso riesco ad essere più efficace di loro. Ho molta voglia di continuare per questa strada in cui sento di non avere nulla da dimostrare.
E poi lasciatemi anche togliere un sassolino dalla scarpa, a costo di sembrare presuntuosa. Per la prossima settimana dobbiamo leggere "Gli indifferenti", di Alberto Moravia, per poi analizzare e scomporre il testo insieme. Sto facendo i compiti, dunque leggo nel poco tempo a mia disposizione, ma non è una lettura sempre piacevole. Certo, ci sono alcuni passaggi che trovo molto belli - anche Moravia sa essere molto fotografico, nell'uso che fa della luce per descrivere gli ambienti e le atmosfere - però c'è un particolare, neanche trascurabile, che proprio mi urta. Per chi non lo conoscesse, "Gli indifferenti" è un romanzo sulla (contro la) borghesia, ambientato a cavallo tra gli anni '20 e '30 tra le vicende di una famiglia i cui membri sono sostanzialmente apatici, annoiati, bugiardi e inetti. Quello che mi urta nella lettura è l'uso di certi aggettivi, ripetuti quasi ossessivamente all'interno della narrazione, che a mio parere "telefonano" eccessivamente - perdonate il gergo cinematografico, ma è quello che mi sembra più adatto per rendere il senso di questo meccanismo - il carattere dei personaggi, invece di farlo arrivare al lettore in maniera più indiretta e sottile. Stupido, patetico, disgustato, ecc. sono tutte parole nelle quali ci si imbatte continuamente. Insomma, secondo me non c'è bisogno di calcare la mano in questo modo. Anzi, il lettore rischia di annoiarsi e allontanarsi, come sta avvenendo per me. Chiusa parentesi Moravia.
Ora, per tornare al discorso in apertura, vi lascio con un'immagine dal mio ultimo shoot di un paio di giorni fa, scaricato al volo questa notte nel mio usuale furto di tempo al sonno. Non perchè pensi che sia una foto eccezionale - ce ne sono di più interessanti, in questa e in altre serie di quel giorno - ma perchè trovo che renda bene il significato del mio raccontare per immagini e parole. Io partendo da questa foto potrei inventare un intero racconto, perchè quando la guardo mi genera delle domande. Provateci anche voi se ne avete voglia: pensate a cosa vi dice, se vi dice qualcosa.
C'era una bambola, a csa di mia nonna, chiusa in un armadio. Aveva una palpebra chiusa, e mi terrorizzava.
RispondiElimina(ma il racconto, non si puà leggere?)
nonfaretardi
:-) quando sarà sistemato, certo!
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