lunedì 28 settembre 2015

Moda e modi

Io detesto la moda, ma la moda non detesta me.
L'ho studiata, ci ho lavorato, me ne sono andata sbattendo la porta. Ma lei continua a tirarmi dentro ciclicamente, come le è proprio per sua stessa natura.
Tutto iniziò negli anni '90, quando in televisione mandarono in seconda serata uno speciale sfilate su Versace e Chanel. Quello di Gianni, ancora vivo, e di Karl Lagerfeld, ancora grasso. Conduceva Milly Carlucci. Lei, sempre uguale. Compravo Vogue da qualche tempo, mi piacevano le foto, i fotografi che ora sono diventati storici, i vestiti, le modelle che erano allora le Claudia, Naomi, Linda, Christy, Tatjana, Stephanie, Yasmeen, Amber, Shalom, Nadja, Nadege. Non capivo la parte sociale, patinata, gli eventi, i vip fotografati. Quello mi faceva cagare, era come la parte marcia della banana. Registrai quella trasmissione su una videocassetta che guardai e riguardai non so quante volte. La creatività, i materiali: una bellezza concreta.
Qualche giorno fa ho lavorato all'interno della sfilata di Fendi per la settimana della moda milanese. Stavo al secondo piano del backstage e vedevo tutto dall'alto, mentre aspettavo che i fotografi mi portassero le schede con le foto da editare con il cliente. Inizia la sfilata e in lontananza, davanti al monitor che mostra la passerella, vedo una sagoma che riconosco immediatamente. Piccolo, occhiali neri, vestito e cravatta neri, capelli bianchi raccolti in una coda corta. È Karl Lagerfeld. Lo osservo mentre assiste alla sfilata da dietro le quinte, continua a scambiare commenti con qualcuno vicino a lui. Espressione seria, imperturbabile, mano guantata vicino al viso. Poi, quando finisce tutto, si avvicina a dove sono io. Fotografi e ospiti gli si accalcano intorno, lui saluta con due baci qualche personaggio. Dalla tranquillità del mio punto di vista scatto una foto con l'iPhone, e penso a quella videocassetta in cui lui sembrava tanto inarrivabile.


La moda è un carrozzone di gente che fa un mestiere elitario convinta di salvare vite umane. Al suo interno ci sono fior di professionisti bravissimi, ma quello che arriva alla fine è un'estrema refrattarietà. Per entrare a fare il mio lavoro mi sono dovuta presentare all'ingresso di tre posti diversi dove sono stata freddamente rimbalzata da damerini incravattati con l'auricolare che mi dicevano che non ero in lista. Certo che non sono in lista, sono dello staff, imbecille. Poi finalmente arriva il mio contatto che mi fa entrare, e nella foga manco si presenta. C'è agitazione febbrile, tutti sono presissimi. Io li guardo dall'alto, calmissima. E ripenso al giorno prima, quando imperversava la tempesta meteorologica. Dovevo andare alla sfilata Fay ma il forte vento aveva fatto cadere degli alberi lungo il percorso finale della metro verde, sulla quale stavo viaggiando io. Risultato: tutto bloccato. Scendi, torna a Stazione Garibaldi e vai a piedi. Lungo il binario vedo una ragazza che ferma della gente di passaggio, mentre un ragazzo da parte con dei capelli improbabili cerca di sbloccare la zip della sua borsetta. L'abitudine mi fa pensare alla solita tossica che vuole l'euro, e forse è anche così, ma in quel momento la prendo diversamente. Appena le passo accanto, come previsto, mi ferma.
Scusa, avresti un euro? Mi si è fermata la macchina e non mi funziona la carta di credito per fare la benzina, non so come fare...
Agita un mazzo di chiavi di automobile in una mano e la carta di credito nell'altra. La guardo meglio: truccata e vestita più o meno bene, non sembra una balorda. Tiro fuori un euro, commentando che anche per me è una giornata sfigata, c'è anche la metro bloccata. Lei si allarma, ma poi dissimula. Forse questo particolare la smaschera, ma non mi importa. In realtà mi sento bene per averlo fatto.
Procedo verso l'uscita su Guglielmo Pepe, ha cominciato a piovere forte. L'acqua arriva da ogni parte nonostante l'ombrello, provo a ripararmi camminando vicino ai palazzi. All'attraversamento della strada attendo che passino un paio di macchine, e mentre mi appresto a procedere vedo appena oltre l'ombrello alla mia destra una donna che si ripara malamente la testa con il soprabito. È un attimo, una distanza brevissima che il mio ombrello percorre, e prendo la donna sotto con me. Quella si volta incredula e prende a ringraziarmi come chi si trova davanti un panino e non mangia da giorni. L'accompagno per un pezzo, e non faccio in tempo a dirle delle mie sfighe di quella giornata che lei attacca:
Non me lo dica, stamattina mi si è fermata la macchina...
Queste automobili che lasciano a piedi in un giorno di pioggia iniziano a sembrarmi in combutta fra di loro. La signora riprende:
La ringrazio davvero per questo gesto, mi ha salvato!
Una tale riconoscenza, per un'azione così piccola, mi fa effetto. Ma siamo a Milano, dove non ci si guarda in faccia se non si è in lista e non ci si presenta ai colleghi. Dopo poco le strade mia e della signora si separano e devo salutarla. Mi lascia con un gran sorriso e questa frase:
La sua gentilezza le porterà nuove felicità durante la giornata!
La guardo proseguire raso-muro col soprabito che la ricopre come una tendina e penso che in fondo, anche se uno deve lavorare nella moda, può migliorarsi la giornata con dei diversi modi. E in effetti, da quel momento, tutto è andato per il verso giusto.

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