lunedì 20 novembre 2017

La me degli anni '80

Il 17 giugno del 1988 scattava l'ora legale in Egitto. Come lo so? Perché quel giorno i miei genitori registrarono una cassetta con il piccolo registratore della Sony, quello grigio di metallo satinato con il microfono nero sull'angolo e il tastino "REC" rosso. Opportunamente collegato a un paio di casse, per molti anni quello è stato lo stereo della mia famiglia - noi bambini dovevamo stare molto attenti a maneggiarlo. Una volta, mentre smanettavo con un album dei Bee Gees - che non era un revival, ma la musica vera di quei tempi - il registratore mi cadde per terra e il suddetto microfono si deformò leggermente. Nessuno se ne accorse, ma il fatto che io me lo ricordi tutt'ora vi dà la magnitudo del mio senso di colpa.
Il registratore aveva il suo posto sul comodino accanto al letto in camera dei miei, una specie di suite divisa in due da un gradino: nella parte più alta il letto, nell'altra una libreria con un divanetto di velluto rosa antico e una consolle con un grande specchio con i bordi dorati. Era una casa signorile, piuttosto grande, nel cuore di Heliopolis. Tre camere da letto, tre salotti, tanto di scalinata d'ingresso... ma la musica si sentiva con un registratore che stava in una mano, e si andava in giro con una Fura bianca. La nostra vita negli anni '80 è stata tutta una contraddizione, in giro da un paese dell'Africa all'altro, con un prima e un dopo abbastanza diversi per molti aspetti.

All'epoca della cassetta vivevamo al Cairo da qualche mese, in un'era dove comunicare con l'Italia era possibile solo con il telefono (raro, perché caro) e con le lettere scritte a mano. Le telefonate non si effettuavano da casa, ma facendo una passeggiata a piedi fino a un call-center, dove c'erano tante cabine di legno da cui si poteva chiamare l'estero. Andare a telefonare era una specie di festa, per noi bambini. Ricordo la quiete di quelle vie attorniate di verde, subito dopo cena, e i racconti delle conversazioni, al ritorno.
Una volta, quella volta, approfittando di un infermiere che il giorno dopo sarebbe tornato in Italia - papà lavorava all'ospedale italiano del Cairo, a suo dire il posto peggiore dove abbia mai prestato servizio - i miei gli affidarono una cassetta audio da consegnare ai miei nonni, cosicché potessero sentire le nostre conversazioni in una serata "normale". Avevo nove anni.
Oggi, quasi trent'anni dopo, ho riascoltato la voce petulante di quella bambina, che scherzava continuamente con un fratello un po' permalosetto, faceva compiti a iosa, recitava poesie ridendo, suonava "le canzoni" (=pezzi classici) al pianoforte, danzava quattro volte la settimana ("non sono mai libera!") e possedeva ben 14 dollari, anzi 15. A parte essere piegata dalle risate, perché i bambini non hanno nessun tipo di filtro e dicono tutto quello che gli viene in mente, penso a questo mezzo così inconsueto per tramandare i ricordi. Le fotografie, e i video molti anni dopo, sono così rassicuranti, quanto a linguaggio. La voce che spacca il fruscio di una cassetta sembra invece una piccola frustata, che ti colpisce con tutta l'immediatezza del pensiero che è appena diventato parola.

Ho ascoltato la prima cassetta, cui ne è seguita un'altra, registrata il 4 febbraio 1989. Risate a non finire anche lì, durante un'altra cena in cui si è parlato di scelte che avrebbero in qualche modo determinato il mio futuro - questo lo dico, ovviamente, con il senno di poi. E tra un discorso e l'altro, risuonavano le esortazioni dei miei: Francesca, finisci il riso! Sono passati dieci minuti e sei ancora lì! Oppure gli interventi di mio fratello che chiedeva continuamente l'ora, perché voleva vedere il TG in inglese che annunciava il passaggio dell'allora Presidente italiano Cossiga (!) per Assuan, località sul Nilo famosa per la diga.
Due sono i discorsi che mi hanno provocato più di un'alzata di sopracciglia qualche minuto fa: uno verteva sulla scelta del liceo che avrei voluto fare - alla faccia dell'anticipo, non avevo neanche finito le elementari. I candidati erano quelli che sarebbero poi stati, più o meno, i due poli delle mie inclinazioni naturali: il liceo classico (ma solo per emulazione dei miei, che entrambi avevano fatto) e il liceo artistico. Alla fine feci lo scientifico, ma quella di non optare per l'artistico, per cui avevo chiare e lampanti doti, rimase il mio più grande rimpianto per quanto riguarda la formazione scolastica. Che però la cosa risalisse addirittura a quel periodo, non lo ricordavo.
La seconda grande scelta di cui si discusse durante quella cena fu quella di salire in Italia nell'aprile dello stesso anno per farmi tentare l'audizione alla Scala di Milano ed entrare nel corpo di ballo per intraprendere la carriera di ballerina classica. Altra cosa in cui riuscivo molto bene e che iniziai appunto a studiare al Cairo, con una ex etoile del Bolshoi. Su quel famoso divanetto rosa della camera dei miei, la sera del 31 dicembre 1987 - giorno in cui io e mio fratello raggiungemmo i miei al Cairo - trovai adagiato un tutù da ballerina cucito da mia mamma. Era rosa, con tanti strati di tulle e qualche stellina e lunetta cucite qua e là sulla gonna. Ce l'ho ancora, in un armadio a casa dei miei, e mi rifiuto di darlo via. Comunque, al momento della registrazione, la decisione non era ancora stata presa. La storia ci dice che quell'audizione poi la feci, proprio ad aprile. Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Queste grandi sale con gli specchi e le sbarre per gli esercizi lungo tutto il perimetro. C'erano gli operai che lavoravano su delle impalcature esterne, e ricordo che mentre io e tutte le altre ragazzine che si erano presentate ci cambiavamo, una di loro protestò con gli organizzatori perché questi operai guardavano dentro, attraverso le vetrate. Furono bacchettati a dovere. Comunque, racconto questo aneddoto perché in Italia come altrove, le raccomandazioni hanno sempre fatto girare il mondo - qualsiasi mondo. L'audizione consistette nel farci mettere tutte in fila in mutande, un tot alla volta. Gli esaminatori guardarono la struttura del nostro fisico, davanti e dietro. Quando ci fecero voltare di nuovo di fronte, dissero: "Adesso i nomi che chiameremo facciano un passo avanti". Snocciolarono nomi e cognomi uno dopo l'altro, con una rapidità e precisione che non potevano non far presupporre che la lista fosse stata già stilata tempo prima. Il mio nome ovviamente non fu chiamato, nonostante a quel tempo avessi indubbiamente un fisico da ballerina, magro ma forte, con le linee e le aperture giuste. Ingenuamente pensai che ci stessero solo suddividendo in due gruppi, dal momento che subito dopo ci fecero mettere alla sbarra per fare degli esercizi base. Qualche salto in centro sala, e poi fummo congedate. Siccome saremmo dovuti ripartire per il Cairo a breve, i miei chiesero di anticipare loro l'esito dell'audizione, nel caso in cui mi fossi dovuta ripresentare a stretto giro. Era un giorno assolato di primavera, eravamo appena usciti in strada, e sentii mia mamma sussurrare all'orecchio di mio padre "È un no". Non so se feci finta di niente, ad ogni modo raccontai come la cosa si fosse svolta e i miei ovviamente capirono la manovra.
Quello fu il primo vero no della mia vita. Qualcosa contro cui non potei niente, a differenza di tutte le altre occasioni in cui ebbi la possibilità di lottare per portare a casa il risultato. Spesso mi dico che è stato molto meglio così, e anche sulla questione del liceo artistico forse è stato lo stesso. Perché tanto poi, a fare il lavoro che mi realizzasse nelle mie forme espressive, ci sono riuscita ugualmente.
Ma la cosa che rimane di tutta quella storia della Scala, è la mia domanda, il mio dubbio che lunga la diceva già allora sul mio carattere, fedelmente registrati dal Sony: ma facendo la ballerina poi, ballo solamente...

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