mercoledì 22 agosto 2018

Preziosi

Ho traslocato quasi cinque mesi fa, la casa è ancora tutta per aria perché non ho il minimo tempo per dedicarmici. Circa un terzo delle mie cose è ancora negli scatoloni, coperti da bellissimi plaid comprati l'estate scorsa dai tanto demonizzati venditori ambulanti su una spiaggia marchigiana. A sollevare quei teli ci trovi lampade, candele, cd, faldoni, cappelli, cuscini, libri, un paio di macchine da scrivere e Dio solo sa cos'altro. Era un po' di tempo che mi chiedevo dove fossero finiti i miei gioielli - il che include sia i miei pochissimi ori sia la mole di paccottiglia che non ha alcun valore se non quello estetico. Essere rimasta cinque mesi senza alcun ornamento la dice lunga su due cose: primo, quanto poco io sia in fissa coi gioielli e, secondo, quanto poco sia uscita da quando sono qui. Non è che uno per lavorare sette giorni su sette stia lì ad acchittarsi, e quando esce a cena si mette magari solo un vestito carino, che i gioielli boh chissà dove sono - ci penserò più avanti, oggi va così. E di oggi in oggi sono arrivata alla fine di agosto, con questo tarlo che pian piano si faceva sentire più forte: ok, ma dove sono i miei gioielli? Adesso li voglio. Fra dieci giorni me ne vado in Francia e voglio sentirmi in vacanza, mettermi le cose che mi sono fatta e sentirmi di nuovo una persona invece che una scappata di casa. Mi sono detta questa settimana li trovo. E poi ultimamente, in uno di quei momenti in cui sei lì nel letto a pensare alle cose più assurde, ho anche immaginato che se fosse entrato un ladro in casa e mi avesse puntato una pistola chiedendomi i gioielli, io non avrei saputo darglieli anche solo per salvarmi la vita. Un po' paranoico, ma si può immaginare una morte più stronza?
Così, appena chiusa la lavorazione dell'ultimo matrimonio, mi sono alzata dalla scrivania e sono entrata nelle tenebre della cabina armadio. Ho detto che casa è ancora per aria, no? Quindi ancora non ho messo una lampadina nella cabina. Con la torcia del cellulare mezzo scarico mi sono avventurata. Incredibilmente, e totalmente per caso, ho trovato due scatole in mezzo ad altre dieci uguali che contenevano chili e chili di filati - ma quanti ne ho? Le apro e - guarda te - trovo i gioielli. Tutti quanti, messi lì più o meno in ordine nelle loro scatole o ben sdraiati dritti, per non far prendere pieghe strane alle collane. Le ho tirate fuori e ne ho esaminato il contenuto alla luce della lampadina - quella sì che c'è - dello studio. La sola cosa che ho preso e pulito è una collanina con infilato un anello d'argento che mi regalò Alberto quando partì per l'Egitto, un mese dopo che ci eravamo messi insieme. Poi ho messo via le scatole e sono scesa per mangiare, con una sensazione di inspiegabile felicità. Era qualcosa di simile alla mattina di Natale, ma ancora più speciale. Man mano che elaboravo e mi godevo quella gioia - curiosa corrispondenza con il gioiello - cercavo di capire perchè mi sentissi tanto bene. Ho scritto due righe alla mia amica D. e lei mi ha capita subito. Per la prima volta in cinque mesi mi sono sentita davvero a casa. L'ultima cosa che avrei pensato potesse darmi quella sensazione erano proprio i gioielli. Sono quello che una donna indossa sempre senza neanche più sentirlo, oppure che si mette come ultimo ornamento prima di uscire. Quando è pronta. Forse quello che ho ritrovato stasera è proprio quella sensazione di compimento e completezza.
Io ho lavorato per otto anni in una delle maggiori multinazionali produttrici di gioielli e non me ne è mai - mai - fregato nulla dei gioielli. Ho visto le cose più meravigliose, dei folli capolavori di oreficeria, indossato anelli con diamanti grandi come noci, puri e rarissimi, sentito sul décolleté il peso di una bavarola di zaffiri colorati e diamanti da 650K€, affondato lo sguardo nel blu oceanico di tanti zaffiri, avuto per le mani e prezzato centinaia di pezzi provenienti da tutto il mondo... eppure niente. L'unico stordimento che me ne veniva era nell'inconcepibilità di tanto valore concentrato in un oggetto tanto piccolo. Il gioiello per me, da stasera, ha un altro valore che non gli avrei mai attribuito. Non solo quello economico - spesso irrisorio, nel mio caso - e nemmeno quello affettivo che lega l'oggetto alla persona che te l'ha regalato. Il gioiello è anche una parte d'identità e di storia della persona che lo possiede, ed è prezioso perché è quello e nessun altro. Ecco perché la gente si dispera tanto quando perde un gioiello.
Con questi pensieri in testa, sono tornata di nuovo di sopra, ho ripreso il cellulare con la torcia e ho ritirato fuori le scatole. Ho cominciato ad esplorare tutto, dalla prima scatola all'ultimo sacchettino. Mi si è stretto il cuore perché ho provato tenerezza per la me stessa di dieci o quindici anni fa, che metteva quelle cose per sentirsi più bella. Cose che ora magari sono rovinate dal tempo, i metalli ossidati, i colori sbiaditi. C'è un cofanetto a fiorellini che fu il mio primo portagioie di quando ero adolescente, e ci ho trovato due cose che con i gioielli non hanno nulla a che fare, ma che sono ricordi preziosi. Uno è un tappo di Veuve Clicquot con su scritto "fine esami - 21 gennaio 2003". Il mio ultimo esame universitario fu matematica finanziaria, fu un 25. Era una bella giornata invernale, di quelle con tanto sole e il freddo secco e pungente. I risultati erano appesi in bacheca nella sede di Via Necchi, e quando uscii ebbi questo momento di lucida realizzazione della fine di un'orda di fatiche. Sì, ok, ci sarebbe stato da scrivere la tesi - gli scandali finanziari di quegli anni legati al fallimento Enron, con tanto di modelli matematici che ora non so veramente da dove tirai fuori, non mi ricordo nulla - però l'università finisce con gli esami tutti a libretto. Te credo che uno stappa lo champagnino.
Il secondo ricordo assurdo è un piccolo cartoncino giallo con su il logo Kodak, contenente nove fototessere di me da piccola. Le rigiro e ci sono dei segni in apparenza indecifrabili, ma poi vedo due V rovesciate e mi viene un'illuminazione: sono due otto scritti in alfabeto arabo. 1988. Guardo meglio il cartoncino e leggo l'indirizzo della sede Kodak del Cairo. Quella sono io a nove anni, in Egitto. Il mio orecchio sinistro sembra più sporgente del destro, i dentini ancora da raddrizzare. Affianco mentalmente a questa foto la mia immagine riflessa nello specchio vista poco prima, mentre mi guardavo con addosso la collanina di Alberto. Dio, come passa in fretta. Quella bambinetta con i miei stessi occhi avrebbe mai immaginato tutto questo? Non ho idea del perché o del come quelle fototessere fossero lì, nel mio cofanetto, trovato una sera di agosto di trent'anni dopo, in una scatola dimenticata.
Ho rimesso via tutto e tenuto fuori i gioielli che userò nel prossimo periodo. Li ho puliti, asciugati e indossati. Solo gli ori. Mentre scrivo sento ticchettare gli anelli l'uno contro l'altro, il braccialetto del battesimo con la targhetta del mio nome strisciare sulla base del portatile. Non so quanto durerò, io che da pianista ho sempre amato avere le mani libere. Però stasera li tengo, li guardo luccicare, come se fossero vecchi e nuovi. I miei preziosi.

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