giovedì 7 febbraio 2013

At the movies

In quel piccolo cinema si arrivava sempre un po' in ritardo, scendendo a passi piccoli e affrettati verso il paese. Seguire l'andatura della mamma metteva il fiatone, e l'aria fredda lo rendeva divertente da guardare mentre usciva dalla bocca. Pareva di fumare, e ci si sentiva un po' grandi. Vagamente necessari.
Era inverno anche d'estate, là. Io credo che ogni luogo abbia la sua stagione genetica, un'indole climatica che ne rispecchia i tratti. Persino quando l'erba non era più bianca e le strade erano asciutte, si respirava la stessa aria nevosa dei mesi più freddi.
Al cinema si entrava da una porta di legno a lato della chiesa parrocchiale, in fondo a un breve vicolo stretto tra due alte pareti di pietra. Più di ogni altra cosa ricordo la cordigliera di teste dei bambini seduti davanti a me, e tanto rumore infantile: risa, chiacchiere, movimenti continui. Eravamo sempre in fondo, talvolta in piedi, appoggiati con la schiena alle ginocchia dei genitori. Vedi, ad arrivare in ritardo. 
Per un attimo tutto si spegne, e lo schermo frastagliato inferiormente da quel mare mosso di bambini prende vita.
Titoli di testa.

Incanto.

lunedì 28 gennaio 2013

Farina di Chaplin


C. Chaplin, 1916

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito com'è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri, pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta, anche se quella persona ero io. Oggi so che questo si chiama "rispetto".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di desiderare un'altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere. Oggi so che questo si chiama "maturità".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre ed in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene. Da allora ho potuto stare tranquillo. Oggi so che questo si chiama "stare in pace con se stessi".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro. Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi. Oggi so che questo si chiama "sincerità".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato di tutto ciò che non mi faceva del bene: persone, cose, situazioni e tutto ciò che mi tirava verso il basso allontanandomi da me stesso; all'inizio lo chiamavo "sano egoismo", ma oggi so che questo è "amore di sé".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di voler avere sempre ragione. E cosi ho commesso meno errori. Oggi mi sono reso conto che questo si chiama "semplicità".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono rifiutato di vivere nel passato e di preoccuparmi del mio futuro. Ora vivo di più nel momento presente, in cui tutto ha un luogo. E' la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo "perfezione".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che il mio pensiero può rendermi miserabile e malato. Ma quando ho chiamato a raccolta le energie del mio cuore, l'intelletto è diventato un compagno importante. Oggi a questa unione do il nome di "saggezza interiore".

Non dobbiamo continuare a temere i contrasti, i conflitti e i problemi con noi stessi e con gli altri perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi. Oggi so che tutto questo è la vita.


(Charlie Chaplin)

venerdì 4 gennaio 2013

Doppler

Un ritorno caloroso, non caldo. La casa è sempre troppo fredda.
Riconosco i volumi, ne riprendo misura. Mi sorridono un poco, mi pare.
L'occhio cade su un angolo tra pavimento e muro, raggiunto dal pensiero che in questo spazio mi è possibile scrivere. Non ci sono disturbi, e ciò che mi urta è solo mia responsabilità.
Non c'è molto da mangiare, apro la dispensa e trovo scatole di sapori noiosi. Li assumo ugualmente, come si fa con le medicine da prendere con cadenza regolare - al gusto penserò domani. Domani. Sono niente rispetto all'enormità del suono acerbo della sveglia, e quando salgo le scale verso l'ufficio mi sento un eroe. Davvero riesco a fare questo tutti i giorni?
E' il mio compleanno. Tantissime voci ovunque, anche quelle che non ho voglia di sentire. Ringrazio, continuamente. Pensano a me, è una bella cosa. Lego il motorino fuori dalla piscina e sorrido dell'automatismo inconscio del Ah è il tuo compleanno? Auguri! Auguri di cosa? L'importante è farli. Tutti quel giorno lì, strabordanti, e poi basta. La parabola discende verso la fine del giorno, malore e malessere. Cerco di affogarlo nell'acqua, ma è denso e galleggia bene. L'istruttrice mette della musica davvero tremenda, ogni volta mi riprometto di non andare alla lezione del giovedì, ma cosa vuoi. Basta avere quei dieci minuti di acqua bollente dopo, con il costume appeso davanti a me nella piccola cabina. Gocciola. Lo strizzo. L'acqua scende verso il cavallo e riprende a gocciolare. Lo strizzo di nuovo. E intanto penso, poi osservo. Le donne che escono dalle docce hanno corpi umani, imperfetti in un modo confortante. Ma non sono attraenti, non c'è femminilità nel portarsi. Sono tutte diverse e su ognuna la vita ha lasciato segni.
Non ero così magra da tempo. I jeans formano pieghe vuote prima inesistenti, si aggrappano ai miei fianchi come mani appese alle pareti di una roccia. Sono mani forti, non molleranno la presa.
Non spengo candeline, non soffio desideri. Non stappo bottiglie, non bevo ebbrezza. Ma per un attimo di fiori e baci sorrido, e il profumo resta a farmi addormentare.
Di nuovo in ufficio, sala d'attesa di un turno che non arriva. Quanti numeri mancano? Tutti quelli delle mie qualità inespresse. Occupo il tempo come fossi in doppia fila, con il senso di colpa del posto sbagliato al momento sbagliato. Prima o poi qualcuno andrà via e mi lascerà spazio. Ovviamente quel qualcuno sono sempre io.
Cosa devo dire. La luce attraversa i pensieri come un'auto in corsa nella notte. Effetto Doppler su buio inquieto.
Presto farà giorno.

mercoledì 2 gennaio 2013

Ultim'ora

L'ultimo banco, territorio del sotterfugio e del casino.
L'ultima fila in pullman, seduta più ambita nelle gite scolastiche.
L'ultimo giorno di scuola, cuscinetto tra il colpo di reni finale e la libertà.
L'ultimo anno di università, soglia di una vita che presto cambierà in tutto.
L'ultima sigaretta che ha accompagnato un dolore.
L'ultimo respiro che è la morte, già intravista così spesso tempo prima nei picchi più alti dell'arte.
L'ultima volta che hai visto chi ami, così piena di bellezza che non osi sfiorarla per non romperla.

In tutto ciò che è ultimo c'è un senso di desiderio. Un elastico che tira di qua e di là, dibattendo le sorti di presenti vicinissimi e indissolubili. Malinconia e smania, paura ed entusiasmo, conforto e ignoto.

Questa in cui scrivo è l'ultima ora dei miei trentatrè anni. Mi sento dentro tutta l'energia delle ultime cose, e non mi preoccupo delle prime a venire. Anche se spesso mi sento ultima, a rincorrere quello che non capisco e che credo di volere, io sono qui e ora. A ricordarmi che l'ultim'ora è quella delle notizie appena battute, delle cose colte da poco. Fresche ed eterne nel presente.

Vasco Rossi - Tabularasa

La mia copia di Tabularasa ha già gli angoli vissuti. Si fa guardare e consumare, e secondo me un po' rovinato è anche più bello. Per chi non lo conoscesse, sto parlando del libro fotografico su Vasco Rossi di Efrem Raimondi e Toni Thorimbert, edito da Mondadori e in vendita da circa un mese. Un libro da avere, e ora provo a dirvi perché.

Un viaggio di ventisette anni intorno a Vasco Rossi, si legge nella prefazione degli autori. Dal 1985 ai giorni nostri. Nessuna foto in copertina, dove i grandi caratteri del titolo la fanno da padroni su uno sfondo grigio. Ci passi sopra le dita e ti accorgi che sono stampati a impressione. Riconosci nei polpastrelli la sensazione piacevole che ti danno le cose curate nei particolari.
Innanzitutto si tratta di un libro di fotografia. Solo le immagini hanno quel particolare potere di attrazione immediata che "ti tira dentro", senza darti modo di uscirne finché non ti hanno raccontato tutta la storia almeno una volta per intero. Magari dovrai riguardarla ancora per capirne tutti i significati, ma questo libro il tuo fiato iniziale se lo prende tutto, senza disturbarsi a chiedertelo per favore. Con le parole non è la stessa cosa, quelle hanno modi più pacati e tempi più dilatati. Qua di parole, prefazione e didascalie a parte, non ce n'è neanche una.
Quindi un libro di fotografia, e su Vasco. Nelle sue diverse vesti: sul palco e fuori da esso. Un grande ritratto, fatto di molti ritratti. Gli sguardi sono quelli di due fotografi differenti per stile e contenuti, ma che tra queste pagine s'incontrano sul territorio di un linguaggio che ha le stesse caratteristiche di schiettezza ed efficacia.
Le immagini si muovono come chi le ha realizzate. A volte questo moto è simile a quello di un animale a caccia: davanti, dietro, di fianco alla rockstar. In altri casi è invece insieme all'uomo, come in un dialogo quasi intimo. Dietro all'immagine del Vasco che tutti abbiamo in mente - quella sul palco davanti a migliaia di fan - qui c'è tutto un mondo che non solo si mostra ma anche coinvolge. E questo a prescindere dalla passione che si può avere per il cantante e i suoi lavori: quella che si ha in mano con Tabularasa è la storia di un uomo e di un mondo, e la sola decisione sensata riguarda il volerla ascoltare o meno, senza (pre)giudicarla.
Dunque è questo che ho fatto: mi sono messa in ascolto, provando a sentire la voce di questa storia. Dapprima ho percepito il racconto, puro e semplice, nel suo insieme. Poi ho attivato altri canali, alla ricerca degli strumenti che componevano l'orchestra. Recentemente ho trovato spunti connessi a questo discorso in un libro di Daniel Barenboim (*), famoso pianista e direttore d'orchestra. Vi si legge: In musica, niente è indipendente. La musica esige un equilibrio perfetto fra intelletto, emozione e carattere. (...) La gerarchia che vige in tutta la musica rispetta l'individualità di ciascuna voce, che può non avere gli stessi diritti, ma certo ha la stessa responsabilità di tutte le altre.  Applicando questo concetto a Tabularasa, il senso di questa responsabilità delle voci è subito chiaro: ogni fotografia è individuale, ma non indipendente dalla musica che il libro sta suonando. Ed è il frutto di un incontro fra intelletto, emozione e carattere di chi la realizza. Il senso della gerarchia forse qui può sfuggire, perché le immagini di questo libro sono tutte molto forti. Come se l'orchestra fosse composta di strumenti che da un momento all'altro possono fare tutti i solisti. E allora diventa interessante ascoltarle tutte, queste voci. Per  capire fino a che punto siano soliste.
In un certo senso, dentro a Tabularasa, accanto a Vasco Rossi, ci sono altri due cantanti: Efrem Raimondi e Toni Thorimbert. La voce di un autore è il suono della sua storia, ed è ciò che la rende viva. Nel concetto di voce ho trovato la chiave di lettura alle peculiarità delle fotografie dell'uno e dell'altro.
Le foto di Toni hanno una voce colloquiale, quelle di Efrem una informale. Mi spiego meglio, anche attraverso alcune immagini tratte dal libro.

Quando si parla in modo colloquiale, si va abbastanza a ruota libera, accantonando volutamente certe forme. Non è però una modalità senza regole, anzi. Così come fotografare colloquialmente non significa tralasciare il senso dell'inquadratura o altri elementi che contribuiscono a fare la foto. Quello colloquiale è un tono che presuppone una certa confidenza con chi guarderà l'immagine, ed è un atteggiamento che rispecchia una personalità di un certo tipo, un modo molto diretto d'intendere le cose. Come se intercorresse una conversazione con lo spettatore, per cui il fotografo dicesse, più o meno con queste parole: sono dentro una storia, vedo queste cose e le fotografo: la storia diventa la mia e te la porto. L'arco temporale delle immagini di Toni è quello tra il 1985 e la fine degli anni novanta, quello quindi di un Vasco nel pieno del suo essere rockstar. Le foto che risultano dalla colloquialità di Toni sono ritratti intensi, situazioni spesso raccontate con uno stile da reportage: vive, ironiche, sudate, dannate. Ti mettono lì anche se pensavi di essere altrove. Una potenza.









Efrem: voce informale. E' un tono che non è eccessivamente confidenziale, forse più timido, senza tuttavia essere formale. Nell'informalità c'è molto spazio di manovra, e infatti vi s'intrecciano immagini caparbie e irriverenti con altre d'impostazione se vogliamo più tradizionale. Il gioco delle parti tra Vasco ed Efrem è diverso da quello tra Vasco e Toni. Efrem parla attraverso molti primi piani, le sue foto sono più vicine alla ritrattistica in senso stretto che al reportage. Mi pare che Efrem faccia emergere da una parte un lato più teatrale di Vasco, dall'altro la coscienza della sua maturazione di uomo, oltre che di cantante. Questo è acuito anche dal fatto che le foto di Efrem partono dal 2000, dunque un'epoca più recente, sempre rock ma in un modo un po' diverso. Ancora, sentiamo lo sguardo penetrante di Vasco che ci incrocia e arriva attraverso le fotografie di Efrem in tutta la sua verità. Efficacissimo.








Toni ed Efrem mostrano un approccio alla spettacolarità e all'intimismo differente, con un denominatore comune: quello di provare a mettercisi dentro completamente. Questa interessante commistione dà corpo e ritmo alla sequenza delle immagini, che diventano libro perché si amalgamano come gli elementi di un'orchestra, pur conservando ognuna la propria individualità e la propria voce. I due autori sono fra loro complementari, e non solo per ragioni prettamente cronologiche. Il libro non potrebbe esistere se mancasse uno dei due - almeno, non in questa forma. Sarebbe un'altra cosa, e sarebbe come monca. Una melodia non armonizzata.
Un'esecuzione unica e irripetibile quella di Tabularasa. E meno male che Vasco odia essere fotografato.


(*) D. Barenboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli 2007

venerdì 21 dicembre 2012

Luce

Le persone si dividono tra quelle che conosci e quelle che riconosci. Tra quelle che ti trovano e quelle che ti ritrovano. E' una questione di sensibilità all'esposizione. C'è chi è come la carta per stampare in camera oscura: una superficie su cui, sotto una determinata luce, s'imprime la memoria di qualcosa che già esisteva da qualche parte. L'intuizione di un'immagine su un negativo mai guardato, ancora prima dello sviluppo - quello della fotografia e quello dei rapporti. L'incontro quasi casuale, lo scambio di quella particolare luce che emana dagli occhi. Leggersi senza vedere i caratteri - quello delle parole e quello della personalità.

Questa ne è la fotografia, scattata da Chico De Luigi.


lunedì 17 dicembre 2012

Carverità

Chiunque voglia scrivere - ma anche fotografare - deve assolutamente leggere Niente trucchi da quattro soldi, di Raymond Carver. Io lo sto facendo per la terza volta, e ci sono frasi che non avevo ancora sottolineato nelle letture precedenti. Se scrivessi il post che questo libro meriterebbe, vi rovinerei completamente la scoperta di quelle parole. Non vi farò questo dispetto. Senza contare che diventerebbe davvero lunga, troppo per il blog. Ci sono però almeno un paio di punti che voglio estrapolare, perché credo possano essere utili anche a chi viene qui per leggere di fotografia e dintorni.

Carver, che oltre ad essere uno scrittore straordinario era anche docente di scrittura creativa, in un capitolo del libro affronta proprio il tema dell'insegnamento. Vi si legge:

Un buon insegnante di scrittura creativa può far risparmiare un sacco di tempo a chi ha la stoffa dello scrittore. Secondo me può far risparmiare un sacco di tempo anche a chi non ce l'ha, ma per ora lasciamo perdere questo discorso. Scrivere è un lavoro duro e solitario, ed è facilissimo imboccare la strada sbagliata. Se facciamo bene il nostro mestiere, noi insegnanti di scrittura creativa svolgiamo una funzione "in negativo" quanto mai necessaria. Se valiamo qualcosa come docenti, dovremmo insegnare ai giovani scrittori come non scrivere e metterli in grado di insegnarsi da soli come non scrivere.

Questa funzione "in negativo" è fondamentale. I migliori maestri che ho avuto in fotografia sono stati quelli che non mi hanno detto cosa dovevo fare, mettendomi invece in condizione di capire, nel tempo, cosa non andasse fatto. Essere in grado di insegnarsi da soli come non fare qualcosa è il livello massimo di consapevolezza che possa raggiungere chi provi a fare qualcosa (foto o romanzi, non importa) - nonché il punto di partenza per un professionista che valga. Si tratta di allenarsi a capire e capirsi, esercitare il distacco e l'obiettività, mettersi in discussione in senso assoluto e non solo relativamente a un giudizio esterno (positivo o negativo che sia, e trovo che entrambi siano pericolosi).

Il secondo punto riguarda quello che è un po' il cuore della visione di Carver: il famoso discorso del niente trucchi da quattro soldi. Riporto uno dei paragrafi probabilmente più significativi sull'onestà dello scrivere (continuate a vederla anche come onestà del fotografare):

Agli scrittori e agli aspiranti scrittori si possono insegnare alcune cose da non fare. Gli si può insegnare l'assoluta necessità di essere onesti nella scrittura, di non falsificarla. Uno scrittore non dovrebbe mai perdere di vista il senso ultimo del racconto. A me non interessano le narrazioni che sono tutta tecnica e niente sentimenti. Credo di essere tradizionalista quel tanto che basta da pensare che il lettore debba essere in qualche modo coinvolto a livello umano. E che ci sia ancora - o quantomeno dovrebbe esserci - un patto tra scrittore e lettore. La scrittura, come qualsiasi altra forma di sforzo creativo, non è solo espressione, è comunicazione. Quando uno scrittore smette di voler davvero comunicare e mira solamente a esprimere qualcosa, e neanche bene - be', si esprima pure andando fuori a urlare all'angolo della strada. 
Un racconto o un romanzo o una poesia dovrebbero sferrare un certo numero di pugni all'emotività del lettore. Si può giudicare un'opera da quanto sono forti i suoi pugni e da quanti ne tira. Se si tratta solo di un mucchio di giochetti intellettuali, non mi interessa. Opere così sono come la paglia: volano via al primo venticello.

Delle fotografie non oneste non si finirebbe mai di parlare. Tutto normale, ci passiamo tutti. Alcuni rimangono lì per tutta la durata del loro percorso da fotografi, altri arrivano a insegnarsi da soli a non essere insinceri. Occorre tempo e impegno. La fotografia si presta facilissimamente ai famosi trucchi da quattro soldi. La prima cosa che verrebbe in mente in tema di trucchi è la postproduzione, ma io credo che sia soltanto una parte del problema - ed è prettamente formale, diciamo che mi pare la punta dell'iceberg. Il vero nodo in realtà sta molto più in profondità. Nel mare di immagini che abbiamo occasione di vedere, sapremmo dire quante sono le fotografie che ci tirano un pugno? Personalmente, direi pochissime. E questo perché la maggior parte delle foto che ci passano sotto il naso non sono sincere. Conosco bene il problema per esperienza personale - la sincerità delle foto è ciò su cui lavoro ormai da anni, e l'ho fatto anche smettendo di scattare per alcuni periodi. Perché me la prendo così a cuore? Perché se una foto non tira un pugno - attenzione, non intendo dire che debba essere violenta: anche una foto tenerissima può essere un gran pugno - è inutile. E l'inutilità di una foto è il suo peggior difetto. Foto così sono come la paglia: volano via al primo venticello. Per dirla con Carver, chi vuole esprimersi vada pure a fare le foto all'angolo della strada: certe immagini non servono a nessuno, perché non esercitano una comunicazione. Spesso sono maschere, nient'altro che la paradossale manifestazione di un nascondiglio. E in ogni caso sono pura espressione, non creano un ponte con lo spettatore: rimangono semplici elucubrazioni onanistiche. Ogni giorno guardo con perplessità fotografie davanti a cui mi chiedo: "Ma cosa mi rappresenta? Perché il soggetto sta facendo quel che sta facendo? Qual è il punto?". E il problema è che spesso nemmeno il fotografo lo sa, quale sia il punto. Perché non sa cosa sia un pugno. Ne ha ricevuti, certamente - chissà quante foto di grandi ha visto per alimentare la sua passione - ma non ne ha mai dati. A tirare di boxe si può insegnare, ma non è solo questione di tecnica. Ora, io non so nulla di questo sport e magari mi sbaglierò, ma immagino che una cosa importante da imparare non sia solo come si tiri un pugno, ma soprattutto cosa significhi colpire. E' un'intuizione, come succede nella scrittura o nella fotografia: d'un tratto capisci cosa stai facendo, ne trovi il senso. E la cosa è così forte che arriva persino a portarti lei stessa, una volta che ci sei salito in groppa: perché hai imparato come si fa, e sei in grado di replicare attivamente il meccanismo ogni volta che ti serve.
Se il talento è quella cosa che ti attraversa senza sforzo, l'onestà è il suo mezzo di trasporto. Il suo cavallo al galoppo. Arrivare a insegnarsi da soli a essere onesti è il punto. Chiamiamola pure Carverità.

martedì 11 dicembre 2012

Le chiavi di casa mia

Domenica mattina, piove. Scrollo l'ombrello e lo arrotolo bagnandomi le mani. Le agito nell'aria per asciugarle, mentre per l'ennesima volta guardo il mio amato Duomo. Ho appuntamento con un amico davanti alla Mondadori. Guardo l'ora, nonostante la pioggia ho spaccato il minuto. Al riparo di quel portico, mentre me ne sto con le cuffie sulle orecchie, d'un tratto sento un rumore. Un suono prolungato, che da vibrazione diventa melodia. Spengo l'iPod, mi volto e vedo alle mie spalle un ragazzo che canta suonando la chitarra. C'è un amplificatore e, aperta di fronte a lui, per terra, la custodia rigida dello strumento. Una piccola siepe di gente ascolta, in piedi a semicerchio attorno a lui. La voce è di quelle che ti parlano immediatamente: calda, abile, diretta, vera. La musica è pulita, fatta di poco eppure di molto. Sorrido di questi momenti di vita cittadina che ti sorprendono così, all'improvviso, e ti regalano qualcosa senza che tu lo chieda. La canzone è Yellow dei Coldplay. Mi ritrovo a sperare che il mio amico tardi ancora un po', perchè la voglio proprio ascoltare tutta, da sola. E invece arriva, ma non mi porta via. Mi dice anzi che lo conosce. "Si chiama Matteo Terzi, l'ho già visto qualche volta suonare qua e  là a Milano. Ha girato mezza Europa suonando per strada. Un grande." Ascoltiamo ancora una canzone per intero, poi mi avvicino alla fonte di musica, prendo uno dei cd demo appoggiati sulla custodia della chitarra e ci faccio cadere una banconota. Matteo mi fa un cenno con la testa mentre continua a cantare, e ringrazia con un sorriso tra le parole. Poi, un po' a malincuore, con il mio amico ci incamminiamo in direzione opposta, lasciando la musica a sfumare sullo sfondo di una Milano umida e calma.

Matteo Terzi, in arte Soltanto, l'ho ritrovato su Facebook. Oltre al profilo personale, ha una pagina che gli serve da bacheca: date dei concerti per strada, riprese video e lettere che riceve dai suoi fan. Stasera mi è caduto l'occhio su un link che ha pubblicato. Porta a una pagina del sito Musicraiser - When fans are music, una piattaforma di crowdfunding che permette ad artisti emergenti di farsi finanziare un progetto da dei fan-donatori. Quello di Matteo si chiama Le chiavi di casa mia, che poi è il titolo dell'album che vorrebbe incidere. Ci sono diverse soglie di contribuzione e ognuna di esse prevede una "ricompensa" che l'artista s'impegna a fornire ad ognuno dei suoi raiser: download gratuito del cd, copie autografate, scrittura di una canzone specificamente per un fan, persino un concerto privato o una settimana on the road con lui. In testa alla pagina c'è un video di presentazione di Matteo, dove racconta la sua storia di musicista itinerante. La scelta di suonare a contatto costante con la gente, per strada, assaporando tutto quello che quest'ultima gli dà. E quello che davvero vince, e avvince, è la semplicità. L'umiltà, la voglia di mettersi in gioco, il suono avvolgente della passione. Mi ha tirato dalla sua parte come una mano allungata dallo schermo, e nella mia c'era già quanto avevo deciso di destinare al finanziamento del suo progetto. Manca pochissimo al raggiungimento della soglia minima degli 8.000€ che gli occorrono, e dovrà farcela entro fine anno. In caso contrario, non riceverà un centesimo. Musicraiser funziona così, impietoso e generoso al tempo stesso. Come, del resto, è il mercato.
Nessuna energia è trascinante come quella di qualcuno che crede, con grande coraggio, nella realizzazione del proprio sogno. Soprattutto quando per farlo decide di scendere in strada e cantarlo a gran voce a tutti quelli che passano e si fermano a capirlo, nel tempo di una canzone.
Fatelo anche voi. Per lui e per voi stessi.

lunedì 3 dicembre 2012

Primavera invernale

Questa volta il foglio bianco mi appare proprio come tale. Come annerirlo non è una decisione, oggi - non potrebbe ancora esserlo.
Non scrivo da un mese, qui. Nella testa moltissimo, nel cuore anche. La mia voce è però diversa da prima: ha un altro timbro, un ritmo più lento e al tempo stesso più veloce. Ha persino un altro nome.
La parola condivisione ha per me nuovi tratti, da qualche mese a questa parte. Se fosse una matita, alternerebbe mine di grafite B e H in proporzioni simili. Ci sono durezza e morbidezza, secondo i momenti.
Di tutto questo non faccio uscire molto, la riservatezza che mi è propria risulta ora particolarmente acuita. A me va bene, forse a certi altri un po' meno. Non importa, adesso deve essere così. Non preoccupatevi, e non interrogatemi troppo, perchè molte risposte le sto ancora cercando.

In un modo del tutto nuovo, sono felice. Non è sempre e per forza un sorriso, direi piuttosto un insieme di consapevolezze.

La fotografia mi è lontana, almeno per come la intendevo prima. Ho in cantiere un altro esprimermi con le immagini, ma, a parte quella d'inizio lavori, non ci sono altre date sul cartello che vi campeggia fuori. Parlando con gli amici, continuo a dire che non scatto da mesi: in realtà non è proprio così. Sto invece facendo cose qua e là, a cui non do molta importanza perchè talmente istintive da non essere prese sul serio - almeno, non come facevo prima - e invece credo che siano abbastanza interessanti, se non altro in potenza. Non tanto e non sempre per il risultato in sè, ma per il modo, per l'approccio. Perchè vengono da un luogo di me che stava sotto, dietro, oltre, e ora stanno lasciando la dependence per prendere residenza nella casa di me.
La parola mi accompagna quotidianamente. Ho iniziato a scrivere qualche recensione per un sito di cinema, leggo moltissimo. E' come se scoprissi per la prima volta cose che esistono da sempre. Perchè, ancora una volta, non è il cosa ma il come.
Tutto questo richiede tanto tempo, risorsa purtroppo sempre scarsa, e da qualche parte devo tagliare.
Sto lavorando per una me che non conoscete e che io stessa sto ancora provando a fare uscire. Non sentitevi trascurati, anche se nei fatti forse un po' lo siete. Ho chi mi protegge. E in fondo la libertà di ognuno sta anche nel rivendicare la necessità di stare con se stesso e pochi altri, in certi momenti della vita. Non è isolamento, è raccoglimento.
Quando penso a quello che mi sta succedendo in questi mesi, mi sembra di non avere in mano nulla. Non sto lavorando su progetti specifici, a stento capisco cosa davvero m'interessi. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che, paradossalmente, è anche un momento di forte creatività, perchè ogni divenire presto o tardi dà nuovi frutti. Si tratta solo di ascoltarli, mentre crescono in apparente silenzio.