martedì 2 novembre 2010

Scianna bits #2

Dal blog di Barbara Zonzin, alcuni estratti di una sua intervista a Ferdinando Scianna.

D: Con l’avvento del digitale abbiamo vissuto una dilagante diffusione di accessibilità alla produzione di immagini. Alcuni credono che questo abbia abbassato la qualità in generale della fotografia. Lei che ne pensa?

R: L’accessibilità non è il problema. Mi ricordo di quando, con l’arrivo delle macchine con l’esposimetro incorporato e poi automatiche molti si lamentavano che “ormai tutti potevano fare delle fotografie”. La fotografia è sempre stato un artigianato facile, accessibile. Ma anche nelle arti “difficili” i mediocri sono sempre stati la maggioranza. Non è l’accessibilità che fa la differenza. La differenza la fa la comprensione del mondo, la passione per quello che si ama o si odia, la capacità di raccontarlo, la capacità di inventare strumenti adeguati al tempo che stiamo vivendo. Altro che digitale.


D: Con le sue immagini ha esplorato la fotografia in ogni suo campo come la moda, la pubblicità, il reportage, il ritratto, le sfilate. Non è certo il curriculum di un fotografo specializzato, come molti ritengono sia obbligatorio essere. La considera più una forza o una mancanza? Ci sono ancora ambiti che vorrebbe fotografare e non ne ha mai avuto l’occasione?

R: Non ho mai creduto ai generi. Per me un fotografo è uno che guarda cercando di vedere e che cerca di comunicare quello che ha visto. Che fa un fotografo di moda se si trova davanti a un paesaggio che l’emoziona, non fa la foto perché quelle le fanno i paesaggisti? O chiama d’urgenza una modella? Sciocchezze. Non credo ci siano ambiti con i quali non mi sia misurato come fotografo. Non so, forse la fotografia di montagna o quella scientifica, perché sono territori che non frequento. Ma se li frequentassi sono sicuro che mi farebbero scoprire immagini. Certo uno magari fa certe cose meglio di altre. Ma un fotografo è un fotografo.

D: In merito ai contenuti non pensa che questo nostro andare di corsa ci faccia essere sempre più superficiali rendendoci indifferenti?

R: Succede con tutto. Non si può mangiare ogni giorno caviale o sempre fagioli. Non si può fare sesso dieci volte al giorno e averne ancora voglia. Non si possono vedere tragedie e cadaveri ogni giorno e non diventare indifferenti.

D: La quantità di informazioni affolla il web, si può trovare di tutto, anche come rapinare una banca. Semplice esibizionismo o reale necessità?

R: Se uno vuole rapinare una banca magari gli serve. O se vuole suicidarsi. A me serve soprattutto per sapere se uno è ancora vivo. Il Web è come il mondo: c’é tutto, ma poche sono le cose davvero accessibili o che davvero ci servono. Il web è una discarica: c’è merda e ci sono diamanti. Che cosa ti serve? Lo sai cercare? Sapere quello che vuoi è difficile. Imparare a conquistarlo implica sforzo, cultura, disciplina. Chi pensa di poterne fare a meno con il web si sbaglia e sarà sconfitto.

mercoledì 20 ottobre 2010

One day in Venice

Guardate queste foto di Marco Onofri. Tutte. Poi tornate a leggere.
E' il mio primo, istintivo, esperimento di scrittura su reportage. E qualcosa mi dice che non sarà l'ultimo...

Una lingua di luce approda a Venezia, allungandosi viva dalle labbra di una nave. Palazzi narcisi si specchiano su quello stesso terreno, spartendosi il piccolo regno con invisibili seduti. Austere e fredde geometrie dialogano con il dinamismo di una figura che passa lasciando un’effimera scia di calore umano. Fiato prezioso, intimo, annidato anche sotto il malinconico guscio di un uomo che guarda attraverso un naturale riquadro nella cartolina dove è, a sua volta, inconsapevolmente incastonato. Proiezioni di vite prestate ai gradini di un ponte, ad incontrare il bacio del sole. E poi via, in picchiata sopra strisce bianche e nere che si muovono sull’acqua plumbea con antica maestria e misurati equilibri. Lo sguardo si alza per andare a scivolare lungo linee che solcano l’aria come colpi di lame sul ghiaccio, cui sono aggrappate, rovesciate come arresi pipistrelli, file di vestiti senza corpi. Questo è il Lido con la sua normalità straordinaria, un incrocio tra persone ormai incuranti della bellezza della città ed occhi vergini che, rapiti, ancora la fotografano. Qui si respira il lento incedere del tempo, perso e  insieme guadagnato nel gioco, nella sosta, nell’attesa. Finchè si alza il vento, a increspare la quiete del mare. Il cielo si fa scuro, la luce comincia a scorrere nei flessuosi tubi al neon che imitano le architetture del luogo. Fermarsi lungo la riva di un canale e fare conoscenza con un lampione e i suoi alati inquilini: tutto il resto si annebbia, si confonde. I confini si perdono, le sfumature dei contorni si sfiorano. Lui solo mantiene la propria incrollabile identità: è lì da sempre, testa e braccia alzate verso l'alto su un tronco sottile e slanciato. Si torna a casa, lentamente, attardandosi ancora un po' a guardare la cresta della città, sopra alla quale si consuma l'ultima battaglia tra un sole caparbio e nubi stracciate. Le gondole saltellano eccitate dallo spettacolo, mentre l'acqua si disaggrega in minuscole sfere volanti. Un ultimo saluto al fiero amico metallico, finalmente solo anch'esso e pronto a illuminare la notte. Un signore innamorato ha perso la testa e porta in giro solo la sua giacca quadrettata. La morbida sinuosità di una sagoma bizantina abbraccia un palazzo sullo sfondo, mentre un uccello macchia il cielo immacolato. La giornata è finita e si chiude con lo stesso gioco di riflessi con il quale si era aperta. Sacro e profano si avvicinano senza toccarsi, se non per il dispetto di un'ombra che si allunga, viva, dalle labbra di una bandiera.

martedì 28 settembre 2010

Aforisma per la mia creatura

"E' bello scrivere perchè riunisce due gioie: parlare da solo e parlare a una folla". 
(Cesare Pavese)

martedì 27 luglio 2010

The final cut

Questa è la seconda volta che chiudo il cerchio con Settimio. La prima fu poco più di un anno fa, dopo che mi conobbe di persona in occasione di uno shooting fotografico a cui mi invitò ad assistere. Ricordo che quelle diciassette ore insieme mi aprirono veramente un mondo. Adesso di ore con lui ne ho passate a multipli di diciassette e, come avete potuto leggere, di mondi me ne hanno aperti svariati.

Possiamo immaginare il cerchio come una linea continua che ha un inizio e una fine. Ma a guardarlo così, già tracciato e finito, non sappiamo individuare quella coppia di punti. Semplicemente perchè forse un inizio e una fine non esistono, confondendosi dentro di noi in una dimensione senza tempo. "The final cut" per me rappresenta, appunto, anche il "taglio" che può essere fatto in qualunque punto del cerchio: in questo percorso con Settimio, l'inizio e la fine si sono toccate perchè hanno sempre e comunque fatto parte di me, pur essendo, idealmente e allo stesso tempo, agli antipodi l'una rispetto all'altra.

Dandovi il link al blog di Settimio che, oltre a mostrare il mio progetto, rimanda anche alle parole della mia stanza dei giochi, chiudo un cerchio che è stato aperto per una settimana, affinchè io prendessi coscienza del contatto tra le mie infinite coppie di punti.



sabato 24 luglio 2010

Lettere dal TPW #7

Questa è l'ultima "lettera dal TPW", anche perchè sto barando dato che ormai sono a Roma... Ma voglio chiudere con una bellissima immagine scattata da Marco C., caro amico e compagno di avventura anche in Toscana. Con la mia passione stretta in mano, inondata dalla stessa luce che sentivo dentro.

Lettere dal TPW #6


Sono sul treno Chiusi-Roma, di ritorno dal TPW al mondo XYZ, che ora guardo in modo del tutto diverso perchè ho nell'anima una quarta dimensione. Le mie gambe sono piene di graffi, i miei piedi punzecchiati dai rovi, la mia pelle riscaldata dal sole, le mie scarpe ricoperte di briciole di Toscana. I miei vestiti hanno ancora il sapore degli abbracci di un folto gruppo di nuovi amici, il mio computer custodisce gelosamente il frutto del "sangue" scorso in quest'ultima settimana, delle risate e dei turbamenti, delle mille parole condivise almeno venti ore al giorno con i miei compagni di viaggio. Tutto ciò che ho vissuto in Toscana mi risuona dentro con la potenza di un impianto da stadio. Ho visto il bianco della luce e il nero delle ombre, assaporato il dolce di un sorriso e il salato delle lacrime, affondato i piedi nella terra umida e librato le braccia nel cielo.

venerdì 23 luglio 2010

Lettere dal TPW #5

Stamattina riunione finale per tirare le somme del progetto che verrà proiettato domani sera insieme ai lavori degli altri 44 partecipanti al TPW. Per giorni ho avuto in mente una precisa storia da rappresentare, ma da ieri mi è venuto il prurito di ritornare ad un'idea cui avevo accennato anche qui. Stamattina ho parlato a Settimio della cosa e l'ha trovata molto interessante, così insieme abbiamo trovato un codice di rappresentazione. La storia era quindi già dentro di me, andava solo tirata fuori con un certo coraggio. E' personale, intima, forte. Il titolo è ancora da definire e presto la copy che è in me lo partorirà: ha a che fare con la presenza di un'assenza.
Ho scattato per circa un'ora e mezza alla "Quercia", location di cui ho già parlato, e non ho idea di come dirò ai miei genitori che ho fotografato una donna che fa l'amore con l'ombra dell'uomo che ama e che è fisicamente lontano da lei. Lei sente la sua presenza, lo può persino toccare, desiderare. E di fronte a questa consapevolezza si mette completamente a nudo in un luogo-non-luogo dove si possono incontrare nell'immaterialità di un sogno, di una sensazione.
La mia bravissima modella da giorni indossa l'anello di diamanti che non tolgo mai, lasciatomi da mia nonna, e che ho voluto darle temporaneamente a inizio settimana per suggellare il forte legame che si è creato tra di noi e che senza dubbio proseguirà quando torneremo a Milano. Mi ha dato tantissimo di sè, ci siamo aperte reciprocamente e ci lega un affetto inspiegabilmente commovente. L'ombra era invece interpretata da Giorgio, assistente di Settimio e splendida persona che ha saputo dirmi parole che avevo bisogno di sentire.
Alla fine dello shooting sono filata in limonaia a scaricare le foto. Selezione di massima, ancora da tagliare fino ad un massimo di 15 foto, postprodotte al volo in bianco e nero. Sono rimasta senza fiato. Hanno una potenza incredibile e allo stesso tempo una delicatezza e una tenerezza disarmanti. Lusinghieri apprezzamenti sui miei lavori della settimana sono arrivati anche da due grandi, Franco Pagetti e Gabriele Rigon. Quest'ultimo da ascoltare letteralmente per giorni, ha storie da vendere - e in effetti è ciò che fa...

Ho già malinconia per la fine incipiente di questa settimana toscana, che ho vissuto letteralmente in ogni suo momento e che mi ha dato molto di più di ciò che mi aspettavo.
Per fortuna non è ancora finita... domani sera grandi emozioni con la proiezione finale!

giovedì 22 luglio 2010

Lettere dal TPW #4

Un'intera, ininterrotta giornata di "psicanalisi". Siamo devastati... Settimio si è davvero consumato fino alle ossa per noi. Crisi. Riflessioni sul progetto. Ospiti inattesi. Turbamenti, voci amiche, nuovi abbracci.
E alla fine, "La quercia" by night. Vinicio Capossela a tutto volume, un milione di stelle con la luna, una quercia millenaria, erba alta e morbide colline. Indimenticabile.

mercoledì 21 luglio 2010

Lettere dal TPW #3

Oggi ho gustato il baratro. L'ho visto da lontano, ho preso la rincorsa e mi sono buttata senza paracadute. E' stata una delle emozioni più intense della mia vita e ho fatto gli scatti più densi, sentiti e belli di sempre. Il risultato estetico è solo una conseguenza del fatto che esista un senso profondo in ciò che fotografiamo, e non può che essere così. Non sono più qui a usare bene congiuntivi e condizionali. Ho finito di fare scatti fine a se stessi, di vagare senza bussola. Ora ho la chiave, ora ho il linguaggio, ora ho il contatto con me stessa.

Ho finalmente capito, in un lampo, cosa voglio fare nella mia vita. Clic, è scattato.

lunedì 19 luglio 2010

Lettere dal TPW #2

La mia testa oggi è stata talmente bombardata che, esausta, ha sganciato a propria volta il peso della sua stanchezza sulle gambe. Come dopo un esame ai tempi dell'università, mi fanno male le ginocchia. Sono devastata. E pensare che, a parte la corsa di questa mattina prima di colazione, sono stata seduta praticamente tutto il giorno. Settimio è una perla rara, una guida, un faro, una scossa di terremoto. Ti infila quei suoi occhi verdi dentro le viscere e ti rivolta le interiora. Rimescola, disfa i nodi, dipana la matassa dei dubbi e dei mille quesiti che ti sei sempre posto e vi dà una risposta. Una chiave di lettura, una formula.

Sono nella tranquilla penombra della mia camera, seduta a gambe incrociate sopra il copriletto bianco, dopo l'ennesima doccia rilassante. Tra mezz'ora cenerò insieme a tutti gli altri, profumi deliziosi scappano dalle cucine e si diffondono dappertutto solleticando la già scalpitante fame.

Adesso devo pensare. Il progetto che ho in mente prende forma e si sviluppa ora dopo ora. SO che sarà meraviglioso. Devo concentrarmi, chiudere tutto il resto fuori e fare silenzio dentro di me. Quello che è accaduto oggi nella limonaia non è nemmeno lontanamente immaginabile per chi non era presente.

Questo è un punto di non ritorno. Un ricordo di lacrime già sofferte si riaffaccia con la violenza di sempre, ma sono punte che feriscono per far guarire, non per lacerare.

Spogliarsi delle sovrastrutture. Togliere, togliere, togliere. Mollare gli ormeggi. Uscire allo scoperto. Questo è quello che sto facendo, questo è ciò che accadrà d'ora in poi. Venerdì sera sarò un'altra persona. Che dico, lo sono già.

domenica 18 luglio 2010

Lettere dal TPW #1

Sono nella mia stanzetta bianca con il pavimento in cotto, i mobili di legno e il soffitto a volta.
Ho da poco mandato via una cavalletta lunga a occhio e croce otto centimetri. Panico, io non reggo gli insetti che fanno rumori secchi quando si muovono.
Qualche ora fa il corridoio che porta alle stanze era inondato dalla luce rosa del tramonto. Mi sono fermata in cima alle scale, l'ho guardata e ho pensato a quanto sia fortunata.
Parole, parole, parole in giardino davanti all'aperitivo. Un bel gruppo, eterogeneo. Sono l'unica donna nel mio corso. Ho con mia grande fortuna trovato la modella che c'era l'anno scorso, mia omonima, che è esattamente il tipo di donna che volevo per i miei scatti. Ho per la testa un'idea folle: dopo questa settimana farmi i capelli come lei. Chissà se avrei il coraggio di tagliare la mia criniera... anche se è ormai tanto che vorrei rifarli corti. Vedremo... avrebbe se non altro un forte valore simbolico.
Sono in trepidante attesa di quello che succederà al mio interno durante una settimana che si preannuncia davvero ricca di spunti di riflessione. Cosa mi aspetto? Di portarmi a casa delle foto che abbiano un senso profondo per me, di mettermi fortemente in discussione e di confrontarmi con altre persone con tutte storie diverse tra loro. So che sarà anche molto divertente - già stasera avevamo le lacrime agli occhi per i racconti di Settimio e Giorgio (il suo assistente) sui loro recenti shoot - e sono certa che non dimenticherò mai questi giorni, tutti per me.

martedì 23 marzo 2010

Amy Arbus quote

"When I ask to photograph someone, it is because I love the way they look and I think I make that clear. I'm paying them a tremendous compliment. What I'm saying is, I want to take you home with me and look at you for the rest of my life"

(Amy Arbus)

domenica 14 marzo 2010

Orvieto - L'incontro perfetto



Questa città per me è sempre stata legata a ricordi di un non recente passato. Ci sono stata più di una volta, ma è stato come se fosse la prima. Non l'ho riconosciuta per come l'avevo percorsa a quei tempi, forse anche perchè in quest'occasione l'ho vissuta in modo sostanzialmente diverso, sia quanto agli aspetti logistici che sotto il profilo personale. La sua geografia mi è risultata del tutto inedita, a parte qualche fotogramma rimasto impresso da qualche parte nella mia memoria.
Prima sera, venerdì. Dopo cena, m'incammino per le vie della città verso il posto che più di tutti mi mancava: il meraviglioso, unico e inimitabile Duomo. C'è un'aria piuttosto fredda, le strade sono per così dire animate dal vociare di qualche gruppetto di giovanotti qua e là che non hanno il pudore di nascondere la meticolosa radiografia che mi fanno quando li oltrepasso. Le sole ragazze che vedo in giro sono tutte radunate al Caffè "Clan Destino". Le luci gialle dei lampioni creano la ben nota atmosfera pittoresca tipica dei borghi medievali di cui il nostro (disgraziato) Paese è colmo. Arrivo in piazza del Duomo ed è completamente deserta. Sulla sinistra una meravigliosa 2 Cavalli arancione, alla mia destra la maestosa cattedrale illuminata con discrezione. Cammino sui sampietrini rossi e neri che formano motivi triangolari e immediatamente vi riconosco una delle prime fotografie che avevo a suo tempo scattato con la mia compattina. Mi volto verso il fondo della piazza per scorgere un uomo all'interno di un bar, intento a giocare al flipper, anche lui solo. Mi soffermo un momento a pensare al tipo di vita che le persone del luogo conducono, mentre salendo gli scalini del Duomo mi avvicino alla grande porta centrale in bronzo. Ogni volta che lo visito rimango sbalordita dalla ricchezza delle decorazioni, che impreziosiscono letteralmente ogni centimetro quadrato di quel capolavoro di architettura. In quel silenzio irreale sono solo io davanti alla sua magnificenza. Come a volermi presentare in quell'incontro a due, vado a sfiorare con le dita gli smalti delle tesserine che disegnano i suoi splendidi mosaici. Sono minuscole, lisce, lucide, pulite, brillanti e formano geometrie perfette. E' una decorazione semplicemente incredibile. Alzo la testa e sento tutto il peso visivo di quel monumento. Mi piace che mi sovrasti, che mi dia quasi una sensazione di prepotente soffocamento. Come due amanti sconosciuti, ci lasciamo dopo questa ideale contemplazione reciproca, senza dirci nulla. E' un incontro perfetto.

sabato 6 marzo 2010

Il bisogno di uova



"Dopodichè si fece molto tardi, dovevamo scappare tutt'e due. Ma era stato grandioso rivedere Annie, no? Mi resi conto di che donna fantastica era, e di quanto fosse divertente solo conoscerla. E io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove uno va da uno psichiatra e dice: "Dottore, mio fratello è pazzo: crede di essere una gallina". E il dottore gli dice: "Perchè non lo interna?" E quello risponde: "E poi a me le uova chi me le fa?".
Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna, e cioè che sono assolutamente irrazionali. E pazzi. E assurdi. Ma credo che continuino perchè la maggior parte di noi ha bisogno di uova".

(Woody Allen, "Io e Annie", 1977)

mercoledì 20 gennaio 2010

Scianna bits

Alcuni interessanti estratti dal recente incontro con Ferdinando Scianna a Fotografica 09.

Io ho fatto e faccio tutt'ora fotografie per campare, ma le faccio anche per vivere, cioè per passione. Una volta ad un mio collega giornalista chiesero: 'Ma come lavora Scianna?" E lui disse: "Sveltissimo lavora, perchè deve fare in fretta il reportage, perchè dopo deve andare a fare le foto".

Sono andato a passare quindici giorni a New York in una maniera straordinariamente felice, perchè per me la felicità, oltre ad una cena con gli amici intelligenti con cui chiacchierare, è quella di andare in giro a fare fotografie per il puro piacere di farle, senza cliente, senza scopo, andando dietro al proprio naso. (...) Ed è questa la felicità della fotografia, almeno della fotografia come a me piace e come io la intendo: non una cosa che si fa, ma istanti che si scoprono nel mondo, che ti s'impongono e ti si rivelano come scoperta o come riconoscimento di qualche cosa che oscuramente ti porta via.

A me piacciono particolarmente queste foto un po' misteriose, nelle quali succede qualcosa o forse non succede niente, o forse quello che noi crediamo stia succedendo non è quello che di fatto sia successo. Probabilmente propongono alla nostra vista un enigma che è, io credo, la ragione per la quale mi piace fare le fotografie: trovarmi di fronte a cose che non capisco perchè pongono domande senza risposta, o a cose che improvvisamente, misteriosamente, propongono qualche risposta alle domande che io mi andavo facendo.

Questa è una foto scattata in Argentina, in una favela di Buenos Aires. Che cosa diavolo ci fa un cane dentro un triangolo di luce? Aspettava me che gli facessi la foto.
E così questo cane, a Benares, anche lui. L'ho fatta nel 1972, quando ero lì per fare un reportage per l'Europeo sulla medicina ayurvedica, niente a che fare con i cani con il Gange. Ma siccome, appunto - come diceva il mio amico Santini - avevo già lavorato molto la sera prima, mi sono alzato all'alba per andare a fare un po' di foto per me. E a un certo momento ho visto questo cane che si mordeva la coda. C'è un proverbio in Sicilia che dice "lu pisce di lu mari è distinatu a cui si l'à manciari", cioè "il pesce del mare è destinato a chi se lo mangerà". Ci sono milioni di sardine o di acciughe nel mare, e milioni di pescatori che li pigliano, se ancora resistono. E poi ne viene pigliato uno in un posto vicino a dove tu vivi o, chissà, lontano dove vai al ristorante... e quell'acciuga era per te. Una metafora del caso e della necessità che mi pare abbia molto a che fare con la fotografia. E allora chi lo sa, forse io che sono nato a Bagheria nel 1943, che per misteriose ragioni mi sono messo a fare il fotografo, che sono finito a lavorare per l'Europeo e che un giorno mi mandano in India per fare un lavoro sulla medicina ayurvedica, una mattina mi trovo davanti a un cane che si morde la coda all'interno di una struttura formale di onde che ne ripetono il gesto. E io scatto questa foto. Sono nato per fare questa foto o quel gesto è stato fatto perchè io lo potessi vedere e riconoscere a un certo punto? Questa per me è la fotografia. Tutto il resto sono balle, sono carta pesta, immagini inutili.


Fare un buon ritratto significa intanto avere molto interesse e molta empatia per l'altro; e poi bisogna che l'altro dialoghi con te. Mentre la fotografia che io amo, sempre secondo un clima bressoniano, implica quasi una certa invisibilità di fronte agli accadimenti del mondo, il ritratto no: il ritratto implica consapevolezza, implica "io ti sto facendo il ritratto e tu sai che io te lo sto facendo".

Il caso poi ha voluto, a un certo punto - perchè la vita è bizzarra - che un giorno mi telefoni a casa uno che dice: "Mi chiamo Domenico Dolce, faccio lo stilista a Milano insieme ad un mio amico, Gabbana". Mai sentiti nominare, ma del resto allora non ero solo io... Dice: "Abbiamo visto delle fotografie sue sulla Sicilia, io sono siciliano, facciamo una moda ispirata alla Sicilia e vorremmo fare un catalogo di moda con un fotografo che non sia un fotografo di moda". Ho detto: "Ma che foto avete visto...?". Dice: "Ah, ci hanno detto che erano sue..." In realtà non erano mie, lo abbiamo scoperto anni dopo. Questo per dire come il destino a volte sia una cosa bizzarra e curiosa. Ho detto: "Io non ho mai fatto foto di moda", gli ho mostrato i miei libri sulla Sicilia, ecc. ed a un certo punto Stefano Gabbana ha detto questa frase, fondamentale per otto anni della mia esistenza: "Ma guardi, è proprio quello che noi cercavamo: il nostro look col suo feeling". Io ho fatto come voi, mi sono messo a ridere... ma immediatamente dopo mi sono vergognato e allora, per recuperare, ho detto: "Va bene, va bene... il mio feeling è a disposizione del vostro look... che facciamo?". E da lì è incominciata una storia divertente, appassionante, diversa, bizzarra per me, di fotografo di moda internazionale. (...) Mi sono molto divertito. Perchè era un'altra cosa, era un po' trasgressivo da parte mia, era anche un po' peccaminoso nei confronti del primo comandamento del decalogo bressoniano: "Il fotografo non deve mai mettere in scena il mondo e dev'essere invisibile". E invece io dicevo: "mettiti qui, mettiti lì". E mi divertivo! Prima di tutto perchè di solito era una bella gnocca la signorina, e poi anche perchè questo mi faceva scoprire che, tutto sommato, tra quella linea della fotografia fatta e la linea della fotografia ricevuta, che io consideravo così radicalmente in opposizione l'una con l'altra - ho sempre considerato i fotografi della mise en scène dei fotografi di teatro, perchè in realtà la cosa interessante è quello che mettono in scena; poi loro lo fotografano. E invece mi sono accorto che, in definitiva, che tu sia un po' regista dell'immagine che fai o che tu non lo sia... finisci col fare più o meno le stesse foto. Anche perchè io lo facevo in maniera un po' bizzarra, insomma. Inserivo queste modelle nel contesto del mondo, che non era uno sfondo: era co-protagonista. Cioè, questa bambina passava da lì e io la piglio e le dico: "mettiti qui, mettiti accanto a lei". E faccio la foto.

Ho visto tante cose terribili, facendo questo libro su Lourdes, che ho cercato di non mettere nel mio libro perchè è difficile, sapete... Non tutto si può fotografare. Così io la penso. Non tutto si deve fotografare. Così io la penso. E non tutto quello che si è fotografato si deve mostrare. Così io la penso. Dipende dal contesto, dipende dal perchè. Ci sono delle situazioni drammatiche, molto più drammatiche di questa, che io non me la sono sentita di schiaffare su una pagina. Nessun eroismo, un po' di decenza, solamente.

Ora, io sono un reporter, quindi la materia prima delle mie fotografie sono le persone, la vita, i piccoli accadimenti soprattutto, perchè è vero che ho fotografato anche momenti della storia, o momenti molto drammatici della vita degli uomini, però non è che m'interessino di più di quelli che misteriosamente, magari sotto casa tua, avvengono, se tu li sai vedere. Non è che c'è un posto al mondo dove ti aspetta una fotografia e che più è lontano questo posto più ci sono fotografie che ti aspettano. E' la tua disponibilità verso il mondo, la tua passione per la vita, il tuo stato di grazia, il tuo allenamento che ti fanno vedere le foto piuttosto che non vederle.

C'è un punto dell'esistenza in cui uno guarda dentro se stesso, in cui vuole cercare di capire com'è che in questo guazzabuglio, in questo caos dell'esistenza - io ho intitolato un mio libro "Le forme del caos", che mi pare una definizione della fotografia ma anche della vita - perchè tu quando vedi non ci capisci niente... Quella mattina che sei uscito e sei andato a prendere il caffè in quel bar piuttosto che in quell'altro e hai incontrato la donna della tua vita, com'è successo? Com'è nata questa casualità? Perchè quel cane si mordeva la coda mentre io sono arrivato? La vita è molto casuale, potevi nascere qui o in Burundi; potevi nascere in una famiglia miserabile o più ricca, ecc. Certe cose dipendono da te - poche. Altre dipendono dal caso e dal concatenamento del caso e dalla capacità che tu hai di trasformare l'azzardo in una specie di partitura, come se fossero delle note che si acchiappano al volo e si vanno collocando in un pentagramma per fare una melodia.

Considero questa frase come il distillato di tutto quello che il mio fare fotografia mi ha fatto pensare e concludere, cioè che il destino più alto cui può aspirare una fotografia è quello di finire in un album di famiglia. Cioè intendo che possa essere guardata con la stessa implicazione, con lo stesso sentimento di fare parte di quell'istante che ha costruito la storia e te stesso con cui noi guardiamo le fotografie dei nostri avi.