lunedì 16 marzo 2020

La pentola a pressione

L'accendi, dopo qualche istante inizia a fischiare. A quel punto, abbassi la fiamma e lasci che il cibo cominci a cuocere. Passa qualche secondo, poi i minuti, e a cottura ultimata il profumo di quello che c'è dentro si fa sentire. A quel punto spegni il fuoco e lasci sfiatare.
L'emergenza Covid-19, nella vita quotidiana dei cittadini italiani, mi sembra molto simile a questo procedimento. Inizialmente pareva non stesse succedendo niente, ma la pressione aumentava pian piano. Il decreto è stata la fase del fischio e da quel momento gli italiani hanno iniziato la loro solitaria, personale cottura. Ognuno nella propria pentola, chiuso dentro. Beh, questo in teoria, perché molte in realtà sono rimaste mezze aperte. Ma guardiamo a tutte queste pentole chiuse, in pressione. Subito dopo il fischio, la fiamma si abbassa e sembra che tutto si calmi e resti così. A fatica, le persone si abituano alla clausura: chi incoraggiandosi a vicenda con gli hashtag, chi assicurandosi che andrà tutto bene, chi cantando sui balconi, chi con i flash mob delle torce del cellulare, chi portando il cane a spasso più di quanto ce ne sia bisogno, chi improvvisandosi maratoneta. Il tempo di cottura è impostato sul timer del decreto fino al 3 aprile. E qui, il primo vero problema: la gente si aspetta che per quel giorno sarà tutto finito, o in via di risoluzione. Nei training per reporter in zone di conflitto s'insegna, tra le altre cose, la gestione psicologica in caso di rapimento: mai crearsi aspettative temporali sulla fine della crisi. Mettersi un termine è la cosa più distruttiva che si possa fare, sia da un punto di vista psicologico che fisico. Perché molto probabilmente, quando penserai di essere quasi giunto al traguardo, non solo ti sarai illuso di qualcosa che potrebbe non accadere, ma sarai naturalmente portato ad accelerare il passo, potenzialmente sprecando le tue preziose energie. Non pensiamo dunque che il 3 aprile festeggeremo e potremo uscire di nuovo, perché - e questo è un mio pensiero, ma temo che possa essere verosimile - non penso che questo accadrà. Prepariamoci dunque all'eventualità di continuare la cottura ancora un po'.

Ma la metafora della pentola mi è utile anche per esprimere un altro concetto, che è diventato tale quanto a definizione solo questa mattina. Sono diversi giorni ormai che avverto una sorta di vibrazione di fondo che ci accomuna tutti e che ho sentito in pochi altri momenti storici, ma oggi sono stata in grado di darle una forma più definita: è l'energia compressa degli altri. La mia capacità di stare da sola, affinata in tanti anni, non ha incontrato grandi difficoltà a plasmarsi su questa quarantena: di regola lavoro da casa, molti miei passatempi si svolgono tra le sue mura. Da tempo ho smesso di essere interessata alla routine delle serate nei locali, al frastuono e alla confusione dello shopping cittadino; la necessità di ridurre la dispersione di tempo ed energie nei rapporti sociali mi ha fatto scremare le frequentazioni. Io a un sano isolamento sono abituata, e mi piace. Eppure c'è una sensazione estranea che avverto tra le mura che di solito mi sono di grande agio, e credo di averla identificata in questa compressione generalizzata, relativamente vicina al mio corpo. Sento tutte queste zucchine, broccoli, brasati, patate che cuociono nelle loro pentole, inizio a usmarne gli odori nell'aria. Sembrano sussurrare, nel sibilo della poca aria che esce dalla valvola, io voglio uscire, io sono pronto. Un fremito continuo. Io lo sento nonostante il chiasso, il clamore becero dell'orda di opinioni che riempiono l'etere. Ognuno dice la sua, ogni giorno una cosa diversa, tutto e il contrario di tutto, siamo uniti ma poi ci scanniamo per una parola fuori posto. Questa dittatura del disclaimer in ogni idea o emozione espressa, che ogni volta prima di iniziare un discorso devi fare mille premesse perché nessuno si senta offeso dalla scelta di focus o di stile che stai facendo. Io non farò alcuna premessa in quello che sto per dire, non mi interessa se gli altri mi diranno che hanno bisogno di alleggerirsi e sdrammatizzare. È lecito ma ci sono dei limiti.
Questa è una tragedia. Ho visto e sentito raccontare di persone cantare ubriache sui balconi, vivere questi flash mob come se stessimo ai mondiali di calcio. Non è una cazzo di festa, ripeto: è una tragedia. Centinaia di persone muoiono ogni giorno, e lo fanno in lucidità e in assenza dei loro cari. Ci sono tante famiglie che si devono tenere il morto in casa per giorni perché gli obitori sono sovraccarichi e i funerali sono vietati. Non è il caso di cantare Azzurro dai balconi. Accendete una candela, magari, e state in silenzio. Che le autorità facessero uno spot pubblicitario da mandare in tv in mezzo alle mille inutili maratone ansiogene, per chiarire alla gente se questa benedetta mascherina serva, o almeno come vada indossata e cambiata. C'è chi la mette al contrario, chi la mette e toglie continuamente strisciandosela sulla faccia, chi usa la stessa per una settimana.
Ma poi il vomito, il vomito che mi viene a leggere i commenti della gente in preda all'egoismo più delirante e al contempo l'ipocrisia del volemose bene per cui gli italiani sono uniti, che uniti ce la faremo, andrà tutto bene, saremo più forti di prima... e poi pur di accaparrarci una confezione di carta igienica cagheremmo in testa al vicino in fila. L'Italia, mi dispiace disilludere i buonisti, non è mai stato e nemmeno in questo frangente è un popolo unito. La maggior parte delle persone cerca semplicemente di salvare se stessa. Vi siete dimenticati che solo qualche mese fa i nostri leader hanno lasciato navi cariche di profughi in mare? Ebbene, siamo gli stessi che quei leader li votavano e li sostenevano. Come aspettarci qualcosa di diverso quando in gioco è la nostra stessa incolumità? E infatti, appena annunciato (anzi, trapelato) che la Lombardia sarebbe diventata zona rossa, tutti a correre in stazione per scappare nella notte al sud da mamma'! Bravi italiani, tutti uniti per il bene!
Certo, le donazioni e la solidarietà per gli ospedali in crisi non sono mancate, ma quando penso alle singole pentoline in pressione, se va bene ognuna nella sua casa, quando tra quindici giorni si gaseranno ancora di più perché si avvicinerà il 3 di aprile e magari verrà loro comunicato che ops la quarantena non è finita, voglio vedere a cosa porterà l'esasperazione. A quali inarrivabili vette arriverà il nostro precario senso civico? Abbiamo faticato tanto (e stiamo ancora faticando) a far capire a chi non sa stare solo con se stesso che forse fare l'aperivirus non è una grande idea: cosa pensate che succederà a lungo andare? Bisogna essere stagni, ma facciamo acqua da tutte le parti.

In tutto questo, per fortuna c'è anche chi sta cominciando a vedere nella lenta cottura anche dei benefici, o per lo meno un momento di reset. Perché quando il mondo esterno smette di pulsare all'impazzata, scompare il senso di colpa che si avverte quando a fermarci siamo solo noi. Smettiamo di non sentirci più al passo, di non stare facendo la nostra parte nel tran-tran generale. A me questo è scattato quando l'email ha smesso di suonare la sua notifica sul cellulare. Quel rumore che ormai il più delle volte associavo a rotture di palle lavorative a poco a poco è scomparso, lasciandomi finalmente in pace. Chiaro, non sto lavorando e questo danneggia le mie economie, ma da un lato mi sta liberando per un po' di qualcosa che avvertivo come opprimente. Nell'emergenza di un virus che toglie il respiro, si ricomincia a far respirare una parte importante di noi stessi. So che molti stanno cercando di arrendersi, come secondo me è giusto che sia, a una nuova immagine nello specchio. Al netto del divertissement di Netflix&Co, c'è più silenzio, meno distrazione, più ritorno a noi stessi. Come se invece che metterci le mascherine le stessimo calando. E allora un'altra riflessione si fa strada nella mia testa: come cambierà, dopo tutto questo, la prossimità tra gli individui? Nella nostra attitudine a relazionarci e a fidarci degli altri, ci sarà sicuramente uno stress post-traumatico da metabolizzare. Certo che abbiamo tutti voglia di abbracciarci, ma lo diciamo ora che siamo nella pentola a pressione. Quando ne usciremo sarà come strofinare la lampada del genio: dopo l'euforia della possibilità di esprimere i famosi tre desideri, cosa veramente chiederemo alla nostra vita? Questo periodo di cottura cosa ci avrà insegnato?

Ci vediamo il 3 aprile, cari i miei bolliti misti.