martedì 12 novembre 2013

E invece

Tre assi di legno dipinte di rosso, con su disegnate grosse margherite.
Quel tavolo, non so perché, mi faceva venire in mente Biancaneve.
Quando è diventato troppo scrostato è stato ridipinto di giallo, un giallo acceso.
Chissà che fine ha fatto, sarà marcito come il resto della casa.
Muri ammuffiti, e poi crepe da terremoto, vetrini nel muro incrinati dal tremore tellurico.
Tutti pronti a uscire di casa quella notte, e avevamo dormito sulle poltrone al piano terra.
Al terzo piano mobili vecchi e polverosi, ricordi orfani accatastati senza cura.
Salò, millenovecentottantaqualcosa. Novantaidem.
Molte estati, una dietro l'altra senza sorprese.
Salò era per me il mondo bello, e non ancora un film di Pasolini tutt'altro che infantile.
Biciclette, uliveti attraverso cui scorrazzare. Conoscevamo ogni avallamento, le buche da evitare, i punti in cui prendere velocità sennò poi hai voglia a pedalare in salita, al ritorno.
L'albero di fico da cui tirare giù chili di frutti molli e viola. Raccolti in bacinelle di plastica verde, la metà si fermavano nel nostro stomaco prima di raggiungere casa. La goccia bianca che si gonfiava sul picciolo del frutto appena colto, appiccicosa che se la toccavi poi non potevi più metterti le mani in bocca.
Stavamo lì, tutti i cugini tranne due, zii vari quando non lavoravano.
Sugo di pomodoro nel pentolino pieno di bozzi che non stava mai fermo quando lo appoggiavi sul tavolo. Uovo crudo sbattuto con zucchero e cacao, per colazione.
La nonna. La Nenne. "La Nonna" la chiamavano quei due cugini che non vedevamo mai, che ne potevano sapere loro della nostra Nenne che giocava a scala quaranta mangiando le caramelle a spicchio arancia e limone, e si fregava le mani grinzose e portava orecchini di turchesi di tre sfumature diverse, e poi quel vestito rosso coi risoni bianchi che mi sembrava così chic.
Si addormentava tutti i pomeriggi guardando le telenovelas sul quattro. Poi veniva il nostro turno per i cartoni animati, a mangiare pane e Nutella per merenda. Ma stavamo fuori, tutti assiepati alla finestra che affacciava verso la tv, per non sbriciolare in casa. Perchè nessuno ci ha mai fotografato così? Oggi pagherei per scattare una foto del genere.
Il ritmo dei giorni era sempre uguale, lento e uniforme.
Raccoglievamo i pinoli caduti sui pietroni del selciato, poi li schiacchiavamo coi sassi sul muretto davanti alla botola amaranto del pozzo. Secondo me non sapevano di niente, ma li mangiavo lo stesso. Mi piaceva invece toccare il guscio un po' polveroso e striato di nero, e poi il modo in cui quel legno si spaccava in tanti pezzettini affilati. Un colpo con la mano alla fine, e finivano tutti in terra dove ormai non cresceva più l'erba.
Dell'estate mi piaceva che restava chiaro fino a tardi, e pensavo che nelle altre stagioni potevo sognarmelo di vederci ancora bene alle nove di sera.
Si stava tutti al tavolo di Biancaneve a pranzo, e la sera a cena.
Succedeva ad agosto che all'improvviso non ci cenavi più, con la luce naturale.
Quello era il momento in cui capivi che l'estate stava per finire. Le vacanze, i giorni che si accorciavano.
Qualcuno di noi veniva mandato dentro, ad accendere la luce esterna.
Una lampadina con il filo annodato al ramo di un pino. E poi un altro bulbo, appeso all'albero di fianco.
Le luci serali accompagnavano ogni tanto una vaschetta di gelato presa da Toldo in paese e poi portata su, e sembrava non bastare mai. Ci facevamo dare anche i coni, perché quando sei bambino un gelato è tale solo se lo mangi dal cono.
E nel bel mezzo di agosto, una sera, risentiremo il soffio freddo dell'autunno - il segno della fine.*
Era in una di quelle sere in cui si accendevano le luci che sentivo il soffio freddo dell'autunno.
Si andava a prendere una felpa su, per poi stare ore lì sotto i bulbi a parlare.
Mentre le voci si distendevano nell'oscurità, guardavo la casa perdere i suoi contorni contro il cielo.
Non capivo se quel momento volessi trattenerlo o lasciarlo, sapevo solo assaporarlo.
Mi faceva una tristezza contenta.

Salò, nonna di noi otto, dove sei finita. Gli sciacalli che un giorno ti animavano ora non sanno neanche smembrare il tuo cadavere.
E quando ti avvicino non sento più quel familiare soffio autunnale, ma il gelo immobile dell'indifferenza senza stagioni. Ognuno per la sua strada, nella propria casa. Più bella, più nuova, ma sempre nei pressi.
Ora sei silenziosa, solitaria, abbandonata a te stessa. Tutta come quei mobili del terzo piano che, a mettercisi, qualcosa si potrebbe anche recuperare.
E invece.


* Ennio Flaiano, "Diario degli Errori"