sabato 23 marzo 2013

L'esperienza del ritratto, con Toni Thorimbert



Del workshop "L'esperienza del ritratto" tenuto da Toni Thorimbert presso la Fondazione Fotografia di Modena ricordo molte cose - ne parlai anche qui nel blog. Mi sono andata a rileggere le riflessioni che feci al tempo, e sul finale scrissi questo:

Le parole chiave sono "accettazione di sé". Arriva il momento in cui bisogna capire la natura e l'origine di certe dinamiche e rendersi conto che è possibile persino la coesistenza civile delle antitesi. La sola, grande differenza è la consapevolezza.

Il 6 e 7 aprile Toni terrà nuovamente il suo workshop sul ritratto, sempre a Modena. Nella presentazione che ne fa sul suo blog si legge:

Nei miei workshop non insegno fotografia, ma attraverso la fotografia promuovo l'unica vera necessità di ogni artista: accettare fino in fondo se stesso.

L'accettazione di sé: un processo difficile nel percorso di ricerca di un fotografo, ma anche in senso lato nella vita di ogni essere umano. Tanti sono in grado di capirne il valore, alcuni provano a raggiungerla, pochi la realizzano davvero. Toni affronta il tema usando i suoi codici, condividendo con chi lo ascolta un tentativo di accettazione di sé attraverso l'esperienza del ritratto. Promuove un'aspirazione che è la sua ma che, a mio parere, dovrebbe essere quella di chiunque.
In questo workshop si fa fotografia in un modo difficilmente sperimentabile in altre occasioni. A distanza di due anni, i semi di quei due giorni ancora crescono in me. A Modena ci si mette in gioco, e ognuno sceglie fino a che punto. Senza timori, in un clima di apertura molto stimolante.
Io questa volta lo farò passando dall'altra parte della lente, posando come soggetto per i partecipanti al workshop. Un ruolo che mi interessa molto e che con l'essere una "modella" in senso tradizionale ha poco a che fare. Cercheremo tutti insieme quest'accettazione attraverso ciò che saremo in grado di condividere e di mostrare di noi stessi, come fotografi e prima ancora come persone.


"L'Esperienza del ritratto" - Workshop con Toni Thorimbert
6-7 Aprile 2013, Fondazione Fotografia di Modena

Qui tutte le informazioni per iscriversi:
http://www.fondazionefotografia.it/it/activity/workshop/lesperienza-del-ritratto-1/

martedì 19 marzo 2013

The shirt

Ha orecchie grandi e carnose, che ti chiedi a cosa servano fatte in quel modo. Le mani sono forti, le dita lunghe, i palmi capaci. Piuttosto alto, ti dà l'idea che sia uno di quelli che da ragazzini sono cresciuti di colpo in pochi mesi. Ai piedi porta delle All Star blu, sotto i jeans in movimento s'intravedono calzini bianchi. Occhiali con la montatura nera e basette che colano abbondanti lungo le guance. Si tira i lembi della camicia verso il basso, guardando con aria vagamente infastidita l'orlo della t-shirt scura che porta sotto. Prova a nascondere quei pochi centimetri scoperti, ma niente: la maglietta è troppo lunga, o la camicia troppo corta.
Mette della musica davvero bella. Rappa 50 Cent e fa sorridere da quanto lo fa bene, molleggiandosi un po' sulle gambe mentre tutti fanno inconsapevolmente il movimento della testa del piccione, a tempo con lui.
Lavora un po' in piedi e un po' da seduto, senza riflettori o pannelli. A volte inquadra in macchina, altre scatta senza guardare, esclamando Paparazzi!!! Paparazzi!!! Nessuna ansia in sala, è disponibilissimo. Non si difende, non ha nulla da dimostrare, lavora sodo. E' tutto un fluire leggero, non c'è fatica per la squadra all'opera. Sembriamo un motore perfettamente oliato, eppure non ci siamo mai incontrati prima di oggi. Ascolta un mio consiglio, mi chiama vicino a lui per sistemare lo scatto, che alla fine esce benissimo. Impara il mio nome. Ora di pranzo, prende una sedia e la sistema per me accanto alla sua. Gli racconto qualcosa di me, di altri. Si ride, si scherza, chiunque entri nel suo raggio d'azione viene coinvolto nel gioco. Mai pesante o eccessivo, sempre educato e rispettoso pur nel suo essere birichino. Gli dico che sono una sua fan e - con una certa reticenza - anche una fotografa, e quando portano il tiramisu mi fa una dedica autografata. Propone un'uscita serale alla fine dei lavori, prima di ripartire per l'altro capo del mondo.
Si torna al lavoro, ma qualcosa non va. Capto una richiesta al suo assistente, che esce di scena e rientra dopo una ventina di minuti con un'altra camicia, stavolta blu. Lui si toglie quella che indossa, e mentre abbottona quella blu è proprio soddisfatto. I feel much better now. L'assistente fa una palla della camicia precedente, ma lui se la fa ridare. No, I have to fold it. Libera un tavolo, liscia la tovaglia bianca con le mani e comincia a piegarla con minuzia quasi religiosa. Poi la ripone su una sedia, sopra ad altre cose. Gli occhi di tutti fanno finta di non essere puntati nella stessa direzione. Appunto mentalmente la posizione dell'indumento, perchè quello scatto è già lì che mi aspetta. Prima o poi, quando sarà il momento giusto. Chiedo all'assistente se sia andato fino in albergo solo per quella camicia. It's not just a shirt, mi dice sorridendo. Già. Quando il fotografo passa di nuovo dalle mie parti gli chiedo cosa avesse di sbagliato l'altra camicia. Mi spiega che l'orlo della maglietta non deve mai uscire da sotto la camicia. E che se succede non si sente bene, è come a disagio.
Molte persone potrebbero pensare che sia una follia, eppure io ho capito perfettamente cosa intendesse. Nell'apparente inconsistenza di quei due centimetri di maglietta di fuori sta quello che caratterizza i fotografi che hanno davvero coscienza di quello che stanno facendo. Subito mi torna in mente quello che da più parti ho sentito a proposito dell'abbigliamento di un fotografo quando scatta. Una divisa - e qui si tratta di una vera e propria seconda pelle - che non è solo lo strato che separa il proprio corpo dal mondo esterno. E non è neanche un modo, è addirittura sostanza. Un fotografo sente il proprio vestito come parte di quello che sta facendo. Se non ha addosso la cosa giusta, la foto verrà fuori in tutt'altro modo.
L'ho osservato in questa e in altre cose, per tutto il giorno. E, come sempre avviene quando si è a contatto con i grandi, si aprono molte porticine dentro la testa. Ti si spalancano orizzonti più ampi, e senti il vento trasportarti anche se sei al chiuso.

Verso la fine del pomeriggio, quando siamo all'ultimo scatto, qualcuno solleva la giacca che copriva la camicia sbagliata. E' lì, alle mie spalle, ancora perfettamente piegata. Ruoto sui talloni e velocemente scatto. Sullo sfondo, del tutto casualmente (ma anche no), una bottiglia di champagne e alcuni vecchi rulli di pellicola srotolata. Un'allegoria, un ritratto.

Sometimes a shirt is not just a shirt. It's Terry Richardson.



giovedì 7 marzo 2013

"Stanco di curare gente che non guariva, mi sono dato al cinema"


Inquadratura dei piedi di una donna sdraiata, coperta da una lenzuolo bianco. Sullo sfondo una croce, un vaso di fiori, una tubatura che scende dall'alto. Nient'altro. E' morta da poco Elide Battacchi, prostituta d'alto bordo. Escono di scena gli uomini riuniti attorno a lei per il riconoscimento del cadavere, e questa è la storia. Poi entra l'occhio del regista: carrello, la telecamera si sposta leggermente a destra. Non di molto - quel tanto che basta per dire qualcos'altro, oltre i fatti. Silenzio. Il fotogramma è perfetto, ora. L'intenzione è stata espressa, il mestiere esercitato.
Il povero soldato è uno degli episodi del film I mostri di Dino Risi, che mi sono guardata dopo aver finito di leggere la sua autobiografia, I miei mostri. Nessuno sforzo per trovare i collegamenti, le due opere parlano la stessa lingua. Cinismo, imprevedibilità. Un modo di mettere in scena diretto, essenziale, basato sulla sostanza più che sulla forma. I dialoghi, i personaggi, l'interazione: è tutto lì, e t'inchioda irrimediabilmente alla poltrona. Roba che Hollywood se la sogna, proprio - e il film è del 1963.
Il libro. Ricchissimo, appassionante, tenero, ironico, destrutturato, meravigliosamente semplice. Sa gettare in una malinconia agrodolce o in una liberatoria risata, ti fa alzare le sopracciglia e annuire tra te e te. Come il film, ti proietta in quella Roma inizio anni '60 che non hai mai conosciuto, in un residence vista Bioparco di Villa Borghese.
Leggere il libro di un regista significa ascoltare e vedere le cose nello stesso momento. Risi racconta magistralmente, senza però avere alcuna pretesa. Non sembra che voglia farsi bello delle persone che ha frequentato, delle donne che ha avuto, del modo in cui ha vissuto. Lui dice e basta, con sincerità, quasi come se parlasse a se stesso.
Ci sono racconti, aforismi, appunti di qualsiasi genere. Episodi che sembrano non finiti, lasciati in sospeso. Come lo è la vita, in fondo. I giorni non si concludono mai veramente.
E' raro che io lo dica, ma mentre lo leggevo avrei voluto che non finisse mai. E' uno di quei libri che ti mettono voglia di scrivere. Di fare, di vivere, di scoprire, di avventurarsi anche solo nel quotidiano. Ti fa capire che il mondo può essere tutto nel posto in cui sei, e allo stesso tempo in qualsiasi altrove. Che le circostanze ambientali sono cose della mente, che tutto dipende da quello che sogni, da quello che immagini, da quello che ti piace, da quello che concedi a te stesso e agli altri. Capisci che gli artisti veri, i geni, sono molto di più di ciò che ci hanno mostrato attraverso le loro opere imperiture. Molto, molto di più.
Non c'è alcun senso di colpa nella verità. Tutto va, e andrà, con quella semplicità del saper guardare. La bellezza dell'accogliere stranezze e perversioni. Perchè la vita è tutto e il suo contrario, e ogni mondo è degno di esistere perchè ha un perchè, chiaro o meno che sia. Basta sentirlo.
Questo libro mostra la sincerità di un uomo che sa raccontare la vita. Che è quello che dev'essere, a patto che sia davvero la nostra.
Non c'è altro da dire, solo da leggere.


"E la chiamano estate..."

Mi piace l'estate, quando le ragazze vanno per la strada in sottoveste, quando le bruttine diventano carine e le carine diventano belle, i ministri e i sottosegretari sono abbronzati, le annunciatrici e gli annunciatori in televisione hanno cambiato faccia, sappiamo tutto sulle balene e sugli amori degli elefanti, i topi attraversano le strade, rivediamo Walter Chiari, Tognazzi e Vianello, i semafori segnano giallo, Bruno Martino canta: "E la chiamano estate, / questa estate, senza te...". La domenica poche macchine percorrono Roma come cani senza collare. Il solito delitto dell'estate continua a negarsi. Verso l'una il mare sul litorale comincia a tingersi di un bel giallo pipì.
Dalle case vuote abbaiano i cani e suonano inutilmente le sirene d'allarme. Sul "Corriere" Enzo Biagi scrive il solito articolo in cui dice che il seno è uno, ma per fortuna sono due. Fotografato in via dei Fori Imperiali, un romano vestito da antico gladiatore col figlio per mano che va al lavoro  davanti al Colosseo. A un'edicola un turista domanda: "Sa dov'è Via Gramsci?". Il giornalaio piegato dalla canicola, inondato di sudore, risponde a mezza voce: "Lo so, ma nun me va de dillo...". I ristoranti chiudono. La mia portiera va a Cuba, il mio barbiere alle isole Figi, la donna delle pulizie a Pechino. Io andrei a Fregene da amici, se non sapessi che hanno invitato il fiscalista coi suoi cinque figli. Mai ammalarsi da luglio a settembre. Mai morire di Ferragosto. I ladri non vanno in vacanza. Gli assassini sì. L'Ufficio Imposte aspetta che abbiate chiuso la valigia per farvi arrivare un tributo di qualche migliaio di euro per qualche omesso o carente versamento IRPEF e IVA nell'anno 1993.
Così va la vita nell'anno del Signore 2003. Il Tour è finito con la vittoria per il quinto anno consecutivo dell'americano Armstrong. Stragi in Liberia. E le donne hanno paura di ingrassare.

(Dino Risi, "I miei mostri", Mondadori 2004)