lunedì 24 settembre 2012

Il n'y a pas de rapport sexuel

Non c'è un rapporto sessuale. Un film nel film, incluso tra i lungometraggi in concorso al Milano Film Festival. Senza dubbio il più straordinario, in ogni senso, tra le cose viste in queste due settimane.
Ci sono molti livelli di lettura di questa pellicola - si potrebbe parlarne per ore. Non sono un'esperta del genere nè scrivo recensioni, ma fin dall'inizio della proiezione sapevo che non mi sarebbe stato possibile tirare dritto senza scrivere nulla.
Si tratta di un film che raccoglie scene di backstage di film porno del regista/attore francese Hervé Pierre-Gustave, in arte HPG. Uno che riprende nudo o in mutande, e anzi se ne sta sempre così: all'aperto, in casa (set di moltissime scene) o mentre fa i casting. Gli piace riprendersi mentre lavora, con l'ausilio di una telecamera su un treppiede. Negli anni, finisce con l'accumulare migliaia di ore di girato, che l'artista francese Raphael Siboni assembla ora in una struttura a micro-episodi.
Innanzitutto - mi sono detta - capiamo chi è costui. Classe 1981, non è un regista vero e proprio: le sue sono più installazioni video, lavori spesso concettuali. Come quello che vede un obiettivo in funzione davanti allo specchio mentre prova a riprendere se stesso. Nel tentativo di mettere a fuoco, l'autofocus impazzisce ingannato dalla distanza focale che si modifica continuamente con il movimento perpetuo delle lenti: un cane che si morde la coda. E ancora, esperimenti di riprese senza lenti, cose di questo tipo. Ci sta quindi, in un certo senso, che l'artista si sia prestato a lavorare con del materiale se vogliamo anomalo e rotante intorno alla contrapposizione tra reale e finzione.
Il dato tecnico fondamentale del film è che siamo davanti (anzi dietro) alle riprese di un occhio passivo, che spesso "sbaglia" perchè non c'è nessuno che lo diriga. Una manopola non abbastanza stretta lascia reclinare la telecamera verso la moquette, come il muso di un offeso. Nessuno ci bada, si sentono solo le voci. Gemiti. Però la moquette è a fuoco - come a dire, lei il suo lavoro lo farebbe anche.
Il film è pieno d'ironia, a tratti persino comico. Gli spettatori in sala scoppiano a ridere. Siamo al cospetto di qualcosa che però non è una parodia del porno. Non c'è giudizio nella regia, è solo la realtà di ciò che avviene sul set. La verità di un mondo che è palesemente falso nelle sue rappresentazioni. In una scena ci sono due attori che stanno girando una scena in cui la ripresa di HPG è stretta sul volto di lei, che con i suoi cornini da diavoletta sulla testa, simula il godimento. L'attore, non inquadrato per intero, fa finta di tirare degli schiaffetti sul suo fondoschiena, battendosi le mani da solo per riprodurne il suono. A tratti, per creare qualche variante acustica, li tira su se stesso. Il tutto con un ritmo perfetto. Nessuno fa una piega, è normale.
Ci sono poi riprese bellissime, di pause e silenzi, attese dipinte sul volto degli attori annoiati, che potrebbero essere lì a fare qualsiasi altra cosa. E' il tempo che si ferma in una dimensione sospesa. Alcuni fotogrammi li ho trovati veramente splendidi. Le luci del set, i colori, l'espressione dei soggetti quasi immobili, l'inquadratura imprecisa ma perfetta nella sua casualità.
Spesso la schiena di HPG che riprende è in primo piano. Da un lato sbucano le gambe degli attori in piena attività, la scena è solo intravista, intuita, eppure chiarissima. E ancora, gambe che scalciano contro schedari, ambienti squallidi da filmetto amatoriale. E' tutto un contrasto tra cose lasciate a se stesse e intenzione di dettaglio, che in realtà rimane solo una convinzione di chi orchestra il numero. In una scena, il regista descrive la storia del film agli attori, inventando le battute sul momento. Prendendo la faccenda tremendamente sul serio, ma stando in mutande. E quelli eseguono, impacciati, una sequenza che non potrebbe essere più lontana da loro. Provano e riprovano, e il risultato è terribilmente falso. Ma va bene, si va avanti. Il regista ci crede. Un'altra scena, sul finale di una gang bang, dove si ovvia a un "problema tecnico" di un attore utilizzando una cremina semiliquida. Lei lascia che si armeggi intorno alla sua bocca e un altro attore, tutto soddisfatto, commenta ci crederanno tutti, che idioti! E via così: il surreale del reale.
Ma al di là della quasi ovvia contrapposizione tra vero e falso, ciò che emerge nel film è l'attitudine, da parte di questo occhio passivo, a estrapolare momenti estremamente reali. Il disagio di un attore alle prime armi che si lascia sodomizzare con rassegnata pazienza su un divano, le lacrime di una esordiente spaventata dalla novità che viene rassicurata e tranquillizzata dal partner esperto, ma anche un rapporto sessuale che, per una volta, c'è ed è voluto. Una ripresa in esterni molto d'effetto (sempre tenendo conto che si tratta di backstage), in un paesaggio arido e brullo: HPG, finito il lavoro, sistema l'attrezzatura nel bagagliaio di una Mercedes vicino alla quale poco prima si erano svolte le riprese del suo film. I due attori, dall'altra parte dell'auto e incuranti di tutto, lo fanno per davvero, in un momento che crea uno stacco notevole nella percezione rispetto a qualche minuto prima. Due corpi in un bacio infinito, il cielo azzurro intenso, una voce che esce dal nulla e chiede Ti serve un preservativo? Infine, il riposo che coglie due attori sadomaso appena dopo aver girato: un abbandonarsi che sembra fuori contesto, ripreso quasi magicamente da un occhio senza corpo. Uno sguardo che ora, ripensando all'intera pellicola, pare tutt'altro che inconsapevole.

domenica 16 settembre 2012

Milano Film Festival

Milano Film Festival significa scoprire.
Andare a vedere, provare a guardare. Vuol dire ampliarsi, immergersi, dimenticarsi. Ma anche ricordare qualcosa di inconsapevolmente già vissuto, sfiorato, filtrato.
Tante rassegne, poco tempo, necessità di scelta. Ed è qua che, un po' con le recensioni, ma molto con l'istinto, ognuno trova il proprio percorso tra le vie della celluloide.
Anni '80, quando la televisione provò a mangiarsi il cinema - e certamente, in gran parte, ci riuscì; Play it again Woody, con i più famosi film di Allen su grande schermo, spesso nell'immensa diffusione acustica di Parco Sempione. E ancora, lungometraggi, corti, denuncia sociale, Vernixage. E tutto quello che ancora non ho visto, a metà di questa per me spezzata maratona.

Incontri. Con Gabriele Salvatores, parlante a un metro da me. Gli occhi e il sorriso frequente, spontaneo, vero di un uomo che si racconta a una folta platea, spiegando con quelli soprattutto i come e i perchè, ancora più dei cosa. Ciò che accade sul momento, nella magia del qui e ora, di un'improvvisazione, di un cartello pubblicitario al posto giusto ma per caso. Con quello che tutti imparano da tutti, sempre. Con una voglia di credere che forse - amara ironia - appartiene più alla sua generazione che a quella attuale. Una frase su tutte, a proposito dell'impatto annichilente della cultura televisiva berlusconiana: "Ci ha rovinato il gusto."

Con Gianni Amelio, sottile e verace. Uno che sa molto e ammette anche di più. Che non ha mai girato un bacio o una scena di sesso perchè sono gesti talmente intimi che risulterebbero sempre falsi, se filmati. Costruiti, viziati. E che ti parla invece dell'erotismo di film che scoprono più animo che pelle. Che ruba la definizione di regista a Billy Wilder, che sa farti ridere durante una tragedia e ti fa piangere durante una commedia: il regista è colui che finisce un film, con tutte le responsabilità che comporta. E regista è colui che non si limita a mettere in scena, ma che costruisce il film anche nei momenti in cui non fa il regista. Un consiglio su tutti: "Guardate film, ma non solo quelli. Andate alle mostre, ma non solo a quelle. Leggete libri, ma non solo quelli. Incontrate gli altri, cercate il mondo fuori e voletegli bene."

E allora mi sono resa conto proprio di questo: che, nella naturale attrazione umana di platonica memoria per le ombre proiettate nella caverna, il cinema è soprattutto attrazione verso un incontro con gli altri. Paradossale, stando tutti in una sala buia. Ma è proprio questo lasciarsi portare dall'immediatamente prossimo all'impensato lontano, per scoprire che si tratta della stessa cosa. Vista con occhi diversi e raccontata con altre parole, ma è sempre noi. Il cinema è noi e gli altri nello stesso momento. Non è più un'esperienza individuale ma una scoperta di amore.