venerdì 21 dicembre 2012

Luce

Le persone si dividono tra quelle che conosci e quelle che riconosci. Tra quelle che ti trovano e quelle che ti ritrovano. E' una questione di sensibilità all'esposizione. C'è chi è come la carta per stampare in camera oscura: una superficie su cui, sotto una determinata luce, s'imprime la memoria di qualcosa che già esisteva da qualche parte. L'intuizione di un'immagine su un negativo mai guardato, ancora prima dello sviluppo - quello della fotografia e quello dei rapporti. L'incontro quasi casuale, lo scambio di quella particolare luce che emana dagli occhi. Leggersi senza vedere i caratteri - quello delle parole e quello della personalità.

Questa ne è la fotografia, scattata da Chico De Luigi.


lunedì 17 dicembre 2012

Carverità

Chiunque voglia scrivere - ma anche fotografare - deve assolutamente leggere Niente trucchi da quattro soldi, di Raymond Carver. Io lo sto facendo per la terza volta, e ci sono frasi che non avevo ancora sottolineato nelle letture precedenti. Se scrivessi il post che questo libro meriterebbe, vi rovinerei completamente la scoperta di quelle parole. Non vi farò questo dispetto. Senza contare che diventerebbe davvero lunga, troppo per il blog. Ci sono però almeno un paio di punti che voglio estrapolare, perché credo possano essere utili anche a chi viene qui per leggere di fotografia e dintorni.

Carver, che oltre ad essere uno scrittore straordinario era anche docente di scrittura creativa, in un capitolo del libro affronta proprio il tema dell'insegnamento. Vi si legge:

Un buon insegnante di scrittura creativa può far risparmiare un sacco di tempo a chi ha la stoffa dello scrittore. Secondo me può far risparmiare un sacco di tempo anche a chi non ce l'ha, ma per ora lasciamo perdere questo discorso. Scrivere è un lavoro duro e solitario, ed è facilissimo imboccare la strada sbagliata. Se facciamo bene il nostro mestiere, noi insegnanti di scrittura creativa svolgiamo una funzione "in negativo" quanto mai necessaria. Se valiamo qualcosa come docenti, dovremmo insegnare ai giovani scrittori come non scrivere e metterli in grado di insegnarsi da soli come non scrivere.

Questa funzione "in negativo" è fondamentale. I migliori maestri che ho avuto in fotografia sono stati quelli che non mi hanno detto cosa dovevo fare, mettendomi invece in condizione di capire, nel tempo, cosa non andasse fatto. Essere in grado di insegnarsi da soli come non fare qualcosa è il livello massimo di consapevolezza che possa raggiungere chi provi a fare qualcosa (foto o romanzi, non importa) - nonché il punto di partenza per un professionista che valga. Si tratta di allenarsi a capire e capirsi, esercitare il distacco e l'obiettività, mettersi in discussione in senso assoluto e non solo relativamente a un giudizio esterno (positivo o negativo che sia, e trovo che entrambi siano pericolosi).

Il secondo punto riguarda quello che è un po' il cuore della visione di Carver: il famoso discorso del niente trucchi da quattro soldi. Riporto uno dei paragrafi probabilmente più significativi sull'onestà dello scrivere (continuate a vederla anche come onestà del fotografare):

Agli scrittori e agli aspiranti scrittori si possono insegnare alcune cose da non fare. Gli si può insegnare l'assoluta necessità di essere onesti nella scrittura, di non falsificarla. Uno scrittore non dovrebbe mai perdere di vista il senso ultimo del racconto. A me non interessano le narrazioni che sono tutta tecnica e niente sentimenti. Credo di essere tradizionalista quel tanto che basta da pensare che il lettore debba essere in qualche modo coinvolto a livello umano. E che ci sia ancora - o quantomeno dovrebbe esserci - un patto tra scrittore e lettore. La scrittura, come qualsiasi altra forma di sforzo creativo, non è solo espressione, è comunicazione. Quando uno scrittore smette di voler davvero comunicare e mira solamente a esprimere qualcosa, e neanche bene - be', si esprima pure andando fuori a urlare all'angolo della strada. 
Un racconto o un romanzo o una poesia dovrebbero sferrare un certo numero di pugni all'emotività del lettore. Si può giudicare un'opera da quanto sono forti i suoi pugni e da quanti ne tira. Se si tratta solo di un mucchio di giochetti intellettuali, non mi interessa. Opere così sono come la paglia: volano via al primo venticello.

Delle fotografie non oneste non si finirebbe mai di parlare. Tutto normale, ci passiamo tutti. Alcuni rimangono lì per tutta la durata del loro percorso da fotografi, altri arrivano a insegnarsi da soli a non essere insinceri. Occorre tempo e impegno. La fotografia si presta facilissimamente ai famosi trucchi da quattro soldi. La prima cosa che verrebbe in mente in tema di trucchi è la postproduzione, ma io credo che sia soltanto una parte del problema - ed è prettamente formale, diciamo che mi pare la punta dell'iceberg. Il vero nodo in realtà sta molto più in profondità. Nel mare di immagini che abbiamo occasione di vedere, sapremmo dire quante sono le fotografie che ci tirano un pugno? Personalmente, direi pochissime. E questo perché la maggior parte delle foto che ci passano sotto il naso non sono sincere. Conosco bene il problema per esperienza personale - la sincerità delle foto è ciò su cui lavoro ormai da anni, e l'ho fatto anche smettendo di scattare per alcuni periodi. Perché me la prendo così a cuore? Perché se una foto non tira un pugno - attenzione, non intendo dire che debba essere violenta: anche una foto tenerissima può essere un gran pugno - è inutile. E l'inutilità di una foto è il suo peggior difetto. Foto così sono come la paglia: volano via al primo venticello. Per dirla con Carver, chi vuole esprimersi vada pure a fare le foto all'angolo della strada: certe immagini non servono a nessuno, perché non esercitano una comunicazione. Spesso sono maschere, nient'altro che la paradossale manifestazione di un nascondiglio. E in ogni caso sono pura espressione, non creano un ponte con lo spettatore: rimangono semplici elucubrazioni onanistiche. Ogni giorno guardo con perplessità fotografie davanti a cui mi chiedo: "Ma cosa mi rappresenta? Perché il soggetto sta facendo quel che sta facendo? Qual è il punto?". E il problema è che spesso nemmeno il fotografo lo sa, quale sia il punto. Perché non sa cosa sia un pugno. Ne ha ricevuti, certamente - chissà quante foto di grandi ha visto per alimentare la sua passione - ma non ne ha mai dati. A tirare di boxe si può insegnare, ma non è solo questione di tecnica. Ora, io non so nulla di questo sport e magari mi sbaglierò, ma immagino che una cosa importante da imparare non sia solo come si tiri un pugno, ma soprattutto cosa significhi colpire. E' un'intuizione, come succede nella scrittura o nella fotografia: d'un tratto capisci cosa stai facendo, ne trovi il senso. E la cosa è così forte che arriva persino a portarti lei stessa, una volta che ci sei salito in groppa: perché hai imparato come si fa, e sei in grado di replicare attivamente il meccanismo ogni volta che ti serve.
Se il talento è quella cosa che ti attraversa senza sforzo, l'onestà è il suo mezzo di trasporto. Il suo cavallo al galoppo. Arrivare a insegnarsi da soli a essere onesti è il punto. Chiamiamola pure Carverità.

martedì 11 dicembre 2012

Le chiavi di casa mia

Domenica mattina, piove. Scrollo l'ombrello e lo arrotolo bagnandomi le mani. Le agito nell'aria per asciugarle, mentre per l'ennesima volta guardo il mio amato Duomo. Ho appuntamento con un amico davanti alla Mondadori. Guardo l'ora, nonostante la pioggia ho spaccato il minuto. Al riparo di quel portico, mentre me ne sto con le cuffie sulle orecchie, d'un tratto sento un rumore. Un suono prolungato, che da vibrazione diventa melodia. Spengo l'iPod, mi volto e vedo alle mie spalle un ragazzo che canta suonando la chitarra. C'è un amplificatore e, aperta di fronte a lui, per terra, la custodia rigida dello strumento. Una piccola siepe di gente ascolta, in piedi a semicerchio attorno a lui. La voce è di quelle che ti parlano immediatamente: calda, abile, diretta, vera. La musica è pulita, fatta di poco eppure di molto. Sorrido di questi momenti di vita cittadina che ti sorprendono così, all'improvviso, e ti regalano qualcosa senza che tu lo chieda. La canzone è Yellow dei Coldplay. Mi ritrovo a sperare che il mio amico tardi ancora un po', perchè la voglio proprio ascoltare tutta, da sola. E invece arriva, ma non mi porta via. Mi dice anzi che lo conosce. "Si chiama Matteo Terzi, l'ho già visto qualche volta suonare qua e  là a Milano. Ha girato mezza Europa suonando per strada. Un grande." Ascoltiamo ancora una canzone per intero, poi mi avvicino alla fonte di musica, prendo uno dei cd demo appoggiati sulla custodia della chitarra e ci faccio cadere una banconota. Matteo mi fa un cenno con la testa mentre continua a cantare, e ringrazia con un sorriso tra le parole. Poi, un po' a malincuore, con il mio amico ci incamminiamo in direzione opposta, lasciando la musica a sfumare sullo sfondo di una Milano umida e calma.

Matteo Terzi, in arte Soltanto, l'ho ritrovato su Facebook. Oltre al profilo personale, ha una pagina che gli serve da bacheca: date dei concerti per strada, riprese video e lettere che riceve dai suoi fan. Stasera mi è caduto l'occhio su un link che ha pubblicato. Porta a una pagina del sito Musicraiser - When fans are music, una piattaforma di crowdfunding che permette ad artisti emergenti di farsi finanziare un progetto da dei fan-donatori. Quello di Matteo si chiama Le chiavi di casa mia, che poi è il titolo dell'album che vorrebbe incidere. Ci sono diverse soglie di contribuzione e ognuna di esse prevede una "ricompensa" che l'artista s'impegna a fornire ad ognuno dei suoi raiser: download gratuito del cd, copie autografate, scrittura di una canzone specificamente per un fan, persino un concerto privato o una settimana on the road con lui. In testa alla pagina c'è un video di presentazione di Matteo, dove racconta la sua storia di musicista itinerante. La scelta di suonare a contatto costante con la gente, per strada, assaporando tutto quello che quest'ultima gli dà. E quello che davvero vince, e avvince, è la semplicità. L'umiltà, la voglia di mettersi in gioco, il suono avvolgente della passione. Mi ha tirato dalla sua parte come una mano allungata dallo schermo, e nella mia c'era già quanto avevo deciso di destinare al finanziamento del suo progetto. Manca pochissimo al raggiungimento della soglia minima degli 8.000€ che gli occorrono, e dovrà farcela entro fine anno. In caso contrario, non riceverà un centesimo. Musicraiser funziona così, impietoso e generoso al tempo stesso. Come, del resto, è il mercato.
Nessuna energia è trascinante come quella di qualcuno che crede, con grande coraggio, nella realizzazione del proprio sogno. Soprattutto quando per farlo decide di scendere in strada e cantarlo a gran voce a tutti quelli che passano e si fermano a capirlo, nel tempo di una canzone.
Fatelo anche voi. Per lui e per voi stessi.

lunedì 3 dicembre 2012

Primavera invernale

Questa volta il foglio bianco mi appare proprio come tale. Come annerirlo non è una decisione, oggi - non potrebbe ancora esserlo.
Non scrivo da un mese, qui. Nella testa moltissimo, nel cuore anche. La mia voce è però diversa da prima: ha un altro timbro, un ritmo più lento e al tempo stesso più veloce. Ha persino un altro nome.
La parola condivisione ha per me nuovi tratti, da qualche mese a questa parte. Se fosse una matita, alternerebbe mine di grafite B e H in proporzioni simili. Ci sono durezza e morbidezza, secondo i momenti.
Di tutto questo non faccio uscire molto, la riservatezza che mi è propria risulta ora particolarmente acuita. A me va bene, forse a certi altri un po' meno. Non importa, adesso deve essere così. Non preoccupatevi, e non interrogatemi troppo, perchè molte risposte le sto ancora cercando.

In un modo del tutto nuovo, sono felice. Non è sempre e per forza un sorriso, direi piuttosto un insieme di consapevolezze.

La fotografia mi è lontana, almeno per come la intendevo prima. Ho in cantiere un altro esprimermi con le immagini, ma, a parte quella d'inizio lavori, non ci sono altre date sul cartello che vi campeggia fuori. Parlando con gli amici, continuo a dire che non scatto da mesi: in realtà non è proprio così. Sto invece facendo cose qua e là, a cui non do molta importanza perchè talmente istintive da non essere prese sul serio - almeno, non come facevo prima - e invece credo che siano abbastanza interessanti, se non altro in potenza. Non tanto e non sempre per il risultato in sè, ma per il modo, per l'approccio. Perchè vengono da un luogo di me che stava sotto, dietro, oltre, e ora stanno lasciando la dependence per prendere residenza nella casa di me.
La parola mi accompagna quotidianamente. Ho iniziato a scrivere qualche recensione per un sito di cinema, leggo moltissimo. E' come se scoprissi per la prima volta cose che esistono da sempre. Perchè, ancora una volta, non è il cosa ma il come.
Tutto questo richiede tanto tempo, risorsa purtroppo sempre scarsa, e da qualche parte devo tagliare.
Sto lavorando per una me che non conoscete e che io stessa sto ancora provando a fare uscire. Non sentitevi trascurati, anche se nei fatti forse un po' lo siete. Ho chi mi protegge. E in fondo la libertà di ognuno sta anche nel rivendicare la necessità di stare con se stesso e pochi altri, in certi momenti della vita. Non è isolamento, è raccoglimento.
Quando penso a quello che mi sta succedendo in questi mesi, mi sembra di non avere in mano nulla. Non sto lavorando su progetti specifici, a stento capisco cosa davvero m'interessi. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che, paradossalmente, è anche un momento di forte creatività, perchè ogni divenire presto o tardi dà nuovi frutti. Si tratta solo di ascoltarli, mentre crescono in apparente silenzio.

martedì 9 ottobre 2012

Le ferite dell'eroe

C'è leggere e leggere.
Uno è semi-passivo ed è quello di chi, tenendo in mano un libro, lo dà quasi per scontato. Atteggiamento che nel gioco delle parti di un corteggiamento appartiene a quelli che ci stanno. Che rispondono a un bacio con un ma sì, perchè no. Che non si rendono conto se chi li ha portati a quel punto abbia il respiro affannoso per l'emozione; se lo scrittore ce l'abbia messa tutta affinchè all'appuntamento con il lettore fosse tutto perfetto. Il libro, pur piacevole che sia, è solo un intrattenimento come un altro. Non ci si dà per primi.
L'altro modo di leggere è attivo, appassionato, interessato. Qui il libro è visto come un'opera complessa, sofferta, curata e amata da chi l'ha scritta. E' esso stesso una persona. E chi riesce a vederlo così si stupisce e resta conquistato proprio come chi, tra i due amanti, è quello che ci prova. Che il bacio lo dà perchè quel gesto è necessità. Non è che vi si possa opporre, è così e basta. Leggere in questo modo significa godere di un'opera, conoscerla, capirne le motivazioni, ascoltare quello che ci vuole dire davvero.
Ora, a prescindere da che parte si stia, in un incontro amoroso il bacio è il metro di tutto il resto. Da esso si capisce se si tratti di un inizio o di un inciampo. E siccome, per come la vedo io, l'incontro con un libro è l'incontro con un persona, quando lo apro provo a sentire come bacia. Da lì capisco come sarà il dopo. Se nella prima pagina c'è almeno una frase che non posso dimenticare, che devo sottolineare, che m'inchioda come uno sguardo a cui non so resistere, allora con quel libro ci provo. Se questo non accade, il più delle volte finisco per non provare nulla, esattamente come in quei rapporti che nascono per noia, proseguono per inerzia e si esauriscono per inconsistenza.

Dunque benissimo se il primo appuntamento con un libro, il suo attacco, va per il meglio. Però devo dire che raramente mi è capitato di sottolineare righe su righe fin dalla prima pagina, ed è accaduto recentemente con il libro di Giovanni Covini, Le ferite dell'eroe, appena pubblicato da Dino Audino Editore. Un testo talmente ricco che non saprei da dove cominciare per parlarne. Analisi dei meccanismi profondi che rendono grandi i personaggi e le storie, si legge appena sotto il titolo. E' senz'altro una buona sintesi, ma non è che la punta dell'iceberg. Perchè l'autore in realtà unisce due mondi: quello delle storie e quello dello spirito, che è il suo ma anche quello di tutti noi. Si pensa di trovarsi davanti a un testo che analizzi la costruzione del personaggio di un romanzo, ma ci ritroviamo invece personaggi noi stessi. E' la stessa cosa, perchè ovviamente le storie siamo noi. Solo che lo siamo più in grande. In un libro o un film, per ragioni di spazio, si prende un pezzo soltanto, e partendo da un certo stato di cose si scopre - attenzione, non s'inventa - come l'eroe superi l'ostacolo, cioè la paura. Paura di cosa? Di tutto quello che ci tiene lontani dalla nostra identità, dal nostro essere pienamente liberi: l'invasione, l'abbandono, la privazione, la vergogna, il tradimento. Ognuna di queste cosiddette ferite viene illustrata da Covini prima in teoria e poi attraverso l'analisi di svariati titoli cinematografici, con una lettura davvero stupefacente dei significati sottesi a ogni dialogo o situazione drammatica.
Quello che però spettina davvero, a mio parere, è il primo capitolo, che andrebbe letto da chiunque si prefigga di occuparsi di una qualsiasi forma di espressione. Perchè ha a che fare con le motivazioni profonde e le valenze della comunicazione. Si legge, nella prima pagina:

Raccontare una storia è qualcosa che desideri dentro e che realizzi fuori di te, tra te e l'altro che ti ascolta o che ti guarda. D'altro canto puoi raccontare solo se l'altro ti ascolta. Tu puoi costruire soltanto la storia: il raccontare è un incontro, un regalo. (...) Spesso sento parlare di autori che raccontano con generosità. Non ne ho mai incontrati. I migliori - quelli bravissimi - sono semplicemente affamati di te che li ascolti. Non vogliono essere lasciati soli nel loro incubo, nella loro ossessione, nel loro sogno.

Questo è solo un piccolo estratto, e non ve ne darò altri per non spoilerare troppo, tanto per rimanere in tema. Ho citato il primo capitolo, ma in realtà ognuno di quelli che seguono fa luce su un pezzetto diverso del mondo interiore che, raccontando, portiamo fuori. E la densità dell'esposizione è davvero notevole.
Accessibile per chiunque, ben scritto e ricco di spunti, il libro di Covini (che stimo anche per il suo bel blog), mi ha passato qualcosa di molto importante. Lo rileggo avanti e indietro anche ora che l'ho finito, e ogni volta ne escono nuove riflessioni.
Un libro che baciava bene fin dall'inizio, e che ha mantenuto la promessa.

lunedì 24 settembre 2012

Il n'y a pas de rapport sexuel

Non c'è un rapporto sessuale. Un film nel film, incluso tra i lungometraggi in concorso al Milano Film Festival. Senza dubbio il più straordinario, in ogni senso, tra le cose viste in queste due settimane.
Ci sono molti livelli di lettura di questa pellicola - si potrebbe parlarne per ore. Non sono un'esperta del genere nè scrivo recensioni, ma fin dall'inizio della proiezione sapevo che non mi sarebbe stato possibile tirare dritto senza scrivere nulla.
Si tratta di un film che raccoglie scene di backstage di film porno del regista/attore francese Hervé Pierre-Gustave, in arte HPG. Uno che riprende nudo o in mutande, e anzi se ne sta sempre così: all'aperto, in casa (set di moltissime scene) o mentre fa i casting. Gli piace riprendersi mentre lavora, con l'ausilio di una telecamera su un treppiede. Negli anni, finisce con l'accumulare migliaia di ore di girato, che l'artista francese Raphael Siboni assembla ora in una struttura a micro-episodi.
Innanzitutto - mi sono detta - capiamo chi è costui. Classe 1981, non è un regista vero e proprio: le sue sono più installazioni video, lavori spesso concettuali. Come quello che vede un obiettivo in funzione davanti allo specchio mentre prova a riprendere se stesso. Nel tentativo di mettere a fuoco, l'autofocus impazzisce ingannato dalla distanza focale che si modifica continuamente con il movimento perpetuo delle lenti: un cane che si morde la coda. E ancora, esperimenti di riprese senza lenti, cose di questo tipo. Ci sta quindi, in un certo senso, che l'artista si sia prestato a lavorare con del materiale se vogliamo anomalo e rotante intorno alla contrapposizione tra reale e finzione.
Il dato tecnico fondamentale del film è che siamo davanti (anzi dietro) alle riprese di un occhio passivo, che spesso "sbaglia" perchè non c'è nessuno che lo diriga. Una manopola non abbastanza stretta lascia reclinare la telecamera verso la moquette, come il muso di un offeso. Nessuno ci bada, si sentono solo le voci. Gemiti. Però la moquette è a fuoco - come a dire, lei il suo lavoro lo farebbe anche.
Il film è pieno d'ironia, a tratti persino comico. Gli spettatori in sala scoppiano a ridere. Siamo al cospetto di qualcosa che però non è una parodia del porno. Non c'è giudizio nella regia, è solo la realtà di ciò che avviene sul set. La verità di un mondo che è palesemente falso nelle sue rappresentazioni. In una scena ci sono due attori che stanno girando una scena in cui la ripresa di HPG è stretta sul volto di lei, che con i suoi cornini da diavoletta sulla testa, simula il godimento. L'attore, non inquadrato per intero, fa finta di tirare degli schiaffetti sul suo fondoschiena, battendosi le mani da solo per riprodurne il suono. A tratti, per creare qualche variante acustica, li tira su se stesso. Il tutto con un ritmo perfetto. Nessuno fa una piega, è normale.
Ci sono poi riprese bellissime, di pause e silenzi, attese dipinte sul volto degli attori annoiati, che potrebbero essere lì a fare qualsiasi altra cosa. E' il tempo che si ferma in una dimensione sospesa. Alcuni fotogrammi li ho trovati veramente splendidi. Le luci del set, i colori, l'espressione dei soggetti quasi immobili, l'inquadratura imprecisa ma perfetta nella sua casualità.
Spesso la schiena di HPG che riprende è in primo piano. Da un lato sbucano le gambe degli attori in piena attività, la scena è solo intravista, intuita, eppure chiarissima. E ancora, gambe che scalciano contro schedari, ambienti squallidi da filmetto amatoriale. E' tutto un contrasto tra cose lasciate a se stesse e intenzione di dettaglio, che in realtà rimane solo una convinzione di chi orchestra il numero. In una scena, il regista descrive la storia del film agli attori, inventando le battute sul momento. Prendendo la faccenda tremendamente sul serio, ma stando in mutande. E quelli eseguono, impacciati, una sequenza che non potrebbe essere più lontana da loro. Provano e riprovano, e il risultato è terribilmente falso. Ma va bene, si va avanti. Il regista ci crede. Un'altra scena, sul finale di una gang bang, dove si ovvia a un "problema tecnico" di un attore utilizzando una cremina semiliquida. Lei lascia che si armeggi intorno alla sua bocca e un altro attore, tutto soddisfatto, commenta ci crederanno tutti, che idioti! E via così: il surreale del reale.
Ma al di là della quasi ovvia contrapposizione tra vero e falso, ciò che emerge nel film è l'attitudine, da parte di questo occhio passivo, a estrapolare momenti estremamente reali. Il disagio di un attore alle prime armi che si lascia sodomizzare con rassegnata pazienza su un divano, le lacrime di una esordiente spaventata dalla novità che viene rassicurata e tranquillizzata dal partner esperto, ma anche un rapporto sessuale che, per una volta, c'è ed è voluto. Una ripresa in esterni molto d'effetto (sempre tenendo conto che si tratta di backstage), in un paesaggio arido e brullo: HPG, finito il lavoro, sistema l'attrezzatura nel bagagliaio di una Mercedes vicino alla quale poco prima si erano svolte le riprese del suo film. I due attori, dall'altra parte dell'auto e incuranti di tutto, lo fanno per davvero, in un momento che crea uno stacco notevole nella percezione rispetto a qualche minuto prima. Due corpi in un bacio infinito, il cielo azzurro intenso, una voce che esce dal nulla e chiede Ti serve un preservativo? Infine, il riposo che coglie due attori sadomaso appena dopo aver girato: un abbandonarsi che sembra fuori contesto, ripreso quasi magicamente da un occhio senza corpo. Uno sguardo che ora, ripensando all'intera pellicola, pare tutt'altro che inconsapevole.

domenica 16 settembre 2012

Milano Film Festival

Milano Film Festival significa scoprire.
Andare a vedere, provare a guardare. Vuol dire ampliarsi, immergersi, dimenticarsi. Ma anche ricordare qualcosa di inconsapevolmente già vissuto, sfiorato, filtrato.
Tante rassegne, poco tempo, necessità di scelta. Ed è qua che, un po' con le recensioni, ma molto con l'istinto, ognuno trova il proprio percorso tra le vie della celluloide.
Anni '80, quando la televisione provò a mangiarsi il cinema - e certamente, in gran parte, ci riuscì; Play it again Woody, con i più famosi film di Allen su grande schermo, spesso nell'immensa diffusione acustica di Parco Sempione. E ancora, lungometraggi, corti, denuncia sociale, Vernixage. E tutto quello che ancora non ho visto, a metà di questa per me spezzata maratona.

Incontri. Con Gabriele Salvatores, parlante a un metro da me. Gli occhi e il sorriso frequente, spontaneo, vero di un uomo che si racconta a una folta platea, spiegando con quelli soprattutto i come e i perchè, ancora più dei cosa. Ciò che accade sul momento, nella magia del qui e ora, di un'improvvisazione, di un cartello pubblicitario al posto giusto ma per caso. Con quello che tutti imparano da tutti, sempre. Con una voglia di credere che forse - amara ironia - appartiene più alla sua generazione che a quella attuale. Una frase su tutte, a proposito dell'impatto annichilente della cultura televisiva berlusconiana: "Ci ha rovinato il gusto."

Con Gianni Amelio, sottile e verace. Uno che sa molto e ammette anche di più. Che non ha mai girato un bacio o una scena di sesso perchè sono gesti talmente intimi che risulterebbero sempre falsi, se filmati. Costruiti, viziati. E che ti parla invece dell'erotismo di film che scoprono più animo che pelle. Che ruba la definizione di regista a Billy Wilder, che sa farti ridere durante una tragedia e ti fa piangere durante una commedia: il regista è colui che finisce un film, con tutte le responsabilità che comporta. E regista è colui che non si limita a mettere in scena, ma che costruisce il film anche nei momenti in cui non fa il regista. Un consiglio su tutti: "Guardate film, ma non solo quelli. Andate alle mostre, ma non solo a quelle. Leggete libri, ma non solo quelli. Incontrate gli altri, cercate il mondo fuori e voletegli bene."

E allora mi sono resa conto proprio di questo: che, nella naturale attrazione umana di platonica memoria per le ombre proiettate nella caverna, il cinema è soprattutto attrazione verso un incontro con gli altri. Paradossale, stando tutti in una sala buia. Ma è proprio questo lasciarsi portare dall'immediatamente prossimo all'impensato lontano, per scoprire che si tratta della stessa cosa. Vista con occhi diversi e raccontata con altre parole, ma è sempre noi. Il cinema è noi e gli altri nello stesso momento. Non è più un'esperienza individuale ma una scoperta di amore.

venerdì 24 agosto 2012

It's not UK

Differenza d'altitudine tra i miei occhi e i tuoi,
che seppero farmi mancare l'ossigeno
quando con i desideri m'avvicinai a te.

Nel tempo scrivesti sulla pelle
storie che non esistevano, allora.
Cicatrici mute,
che imparai a conoscere volendoti bene.

E quella frase lasciata a metà,
come un invito a venirmi a prendere il resto.
Che tenevi stretto tra i denti
come il tuo unico nutrimento.

Riposando, non sapevo se quella calma
fosse il verde di un prato o l'azzurro dell'acqua.
Ma non importava, perchè entrambi erano occhi tuoi.

E mai risveglio fu più incerto nella sua bellezza
di quando quella volta ti amai in inglese,
prima di volarti via.

martedì 21 agosto 2012

Ubiquità temporale

Ci sono molte donne che io non sono. E altrettante ragazzine che io non sono stata.
Mi è chiaro più che mai guardando le foto degli altri. Tempi che si mischiano mostrandomi l'oggi di un'età che per me era ieri. Il dove, il come, il cosa i ventenni fanno nel tempo presente.
Sullo sfondo, la scenografia di una Milano che è lì com'è sempre stata, come io la ricordo. Con i suoi palazzi fatti proprio in quel modo, i colori privi di dubbi, la cura indifferente. Altezzosa e mesta, fredda e vecchia la mia città.
Pensavo di non ricordare più. Di aver salvato solo alcuni fotogrammi, spesso gli stessi di una macchina fotografica che andava a pellicola per necessità e non per feticismo.
E invece subito m'invade la sensazione dello stare insieme al compagno, al complice, al giovane esploratore, immersi in quello che sembrava tutto.
Le mie scelte sono sempre state, per la me di oggi, un po' opinabili in fatto di compagnia maschile. Così rassicuranti, spesso brillanti più per l'intelletto che per l'indole, così presentabili.
Di allora, dei miei diciotto o vent'anni ricordo soprattutto questa Milano sicura. Spiritualmente elitaria, se possibile. E dall'altra parte della linea da non valicare, che neanche vedevo, la paura. La minaccia. Gli uomini sporchi, che non avevano nulla da perdere, che non lasciavano intentata l'occasione di aggredirti verbalmente con le loro fantasie. Occhi bassi, orecchie distratte, e passare via come se non esistessero. Ma intanto il cuore batteva forte, nei passi o nella corsa a cui qualcuno mi ha costretto. Questa Milano la temevo, e odiavo il fatto che le lasciassi limitare la mia azione.
Per anni sono uscita con lo stesso gruppo di amici, ogni venerdì e sabato. C'è stato un periodo in cui tutte le settimane facevo dolci per loro. Mi piaceva invalidare la proprietà commutativa con gli ingredienti: gli stessi addendi davano ogni volta una somma diversa. A volte il posto per mangiarli c'era, sul tavolo di quello che chiamavamo l'ufficio. Che poi un ufficio era, in effetti. Del padre di uno di loro. Altre volte capitava che li mangiassimo in piedi per strada, o a casa di qualcuno.
Era tutto semplice. Ogni cosa si faceva ancora prima di averla pensata. Le opzioni erano tante, e il tempo rendeva possibile il non doverne scartare nessuna, o quasi.
I marciapiedi di Milano - mi accorgo ora vedendoli in foto - sono come solo lei li sa trattare. Quello che succede sul loro asfalto si riconosce al volo, come se fossero parte di un film già visto ma non ancora girato. La pietra dei suoi palazzi, il disegno delle facciate. L'odore della pioggia che riesci a sentire anche solo con il pensiero.
Di tutto questo non si accorge chi continua ad abitare quel luogo e quel tempo.
Chi non è cambiato come ho fatto io in questi sette e passa anni.
Chi non è costretto, ora, a rendersi conto che di quel mondo non fa più parte. Anche se vorrebbe non avere interrotto i rapporti con esso, solo per mettersi insieme a un'esperienza diversa che l'ha infine tradito.
C'è ancora una possibilità, Milano? Come ti troverò, invecchiata come me di qualche anno ma con le stesse energie di un tempo? Da te voglio tornare da donna che ti ama, e che solo adesso sa che non si stancherà delle tue rughe. Che riderà con tenerezza del tuo sforzo di essere sempre perfetta nonostante i tuoi abitanti. Che inveiscono contro il tuo rassicurante grigiore, la pioggia che non dà tregua. Quell'essere sempre tutta bagnata e impietosa, che quando arriva il weekend va via quel poco sole che ti aveva preso in giro mentre dovevi stare rinchiuso a studiare o a lavorare. Quei manichini che dall'alto dei loro privilegi in carta velina popolano i tuoi bei locali pretenziosi, contraltare dei ragazzi che si siedono per terra nei pressi dei Navigli mentre fumano sigarette arrotolate intorno al vero tabacco e bevono birra dalle bottiglie.
Non so se, non so quando ritroverò quella città.
Più di ogni altra cosa vorrei ritrovare me, e benchè si dica che non è il cambiamento di scenario a guarire certe infezioni dell'animo, io so che Milano un po' mi ha in sè. E so che posso riapplicare i suoi tessuti ai miei, innestandoli come piante per far ricrescere i germogli di quello che ero allora, da qualche parte immersa.
Là e ora, qua e ieri allo stesso modo. In ubiquità temporale.


sabato 18 agosto 2012

Me ne andavo da quella Roma...

E avevi tra le tue fauci volgari il solito ghigno beffardo,
lì ad aspettarmi come se non ci fosse nessun altro paio d'occhi su cui accanirti.
Li volevi allagare, subito, senza indugi.
E ci sei riuscita, brutta bestia, come sempre.
Non mi resta che innalzare il mio sorriso ancora fresco su una palafitta,
per impedirti di farmelo bagnare e arruginire
come hai già fatto con altri miei ingranaggi.
Per l'ultima volta ti grido contro nel caldo estivo.

Mamma Roma, addio.

venerdì 17 agosto 2012

Miracle notes

C'è, nel pezzo che sto ascoltando, un momento brevissimo, lungo non più di sette secondi, che questa notte mi ha fatta sua. E' il cuore di una sequenza in cui la musica si toglie le scarpe della sua voce perentoria per accarezzare l'idea che l'ha, probabilmente, originata. Poi torna a gonfiarsi ancora un paio di volte, prima di attutirsi nella bassa marea del finale. Sono ripassata sul minuto che costruisce quella sezione del brano per almeno una ventina di volte, mentre me ne stavo al buio completo, nel mio piccolo letto della casa al lago, a rigirarmi da ferma tra le sensazioni che mi evocava.
La magia di quei secondi nasce dal senso di malinconica ineluttabilità che una frase musicale può essere in grado di suggerire.
Userò questa sensazione per scrivere, probabilmente questa notte stessa, quando il buio scenderà nuovamente accompagnando una perfetta solitudine.
Splendido, dunque, poter fruire del prodotto finito per generare altro, ma ciò su cui mi sono soffermata poco fa, lasciando appendere lo sguardo alla gamba della poltrona che mi sta a fianco e allontanandolo dal libro che sto leggendo, non è la bellezza del brano musicale o l'amore per quel brevissimo passaggio per se. E' invece una sorta d'invidia per chi ha creato quel pezzo, delineata più precisamente in un desiderio di retroazione al momento in cui è stato concepito.
Avrei voluto esserci.
Sentire come e perché, dopo quanti tentativi, dopo quali discorsi di note fosse venuta alla luce quella frase di pochi secondi. Quattro accordi che racchiudono potenzialità infinite di filiazione creativa successiva. Che sia solo una vibrazione, una sensazione, un pensiero, un racconto o il tema di un intero romanzo o di un film poco importa. Questo dipende solo da chi li riceve e dalle sue intenzioni. Meglio, dipende dalla sua incapacità di opporvisi - e io, inutile dirlo, non ne ho alcuna.
E allora ho collegato questa volontà di ritorno all'origine a ciò che riguarda il mio fare fotografie, o il mio scrivere. E' sempre nel momento della creazione - dello scatto o della stesura - che trovo il senso del fare. Il risultato m'interessa solo come summa finale di tutto quello che ho messo in ciò che stavo facendo, ma non c'è autocompiacimento. Non mi do nessuna pacca sulle spalle per ciò che ho appena ultimato. Non m'interessa neanche più di tanto mostrarlo agli altri, se non alle persone delle quali ritengo importante il parere. Del resto, il mio è un modo molto egoista di creare, anche perché so bene da quale taciuta esigenza esso origini.
Dell'arte m'interessa l'atto creativo. Il parto che segue la gestazione. L'attimo in cui l'idea - niente più che uno schizzo veloce - si mette in moto autonomamente e, senza alcuna indicazione di percorso da parte dell'organismo ospite, gli mostra un luogo del quale non conosceva nemmeno l'esistenza.
Non è vero che tutto è già stato scritto, e se anche così fosse sopravviverebbe comunque l'unicità della genesi. Per questo irrido le copiature e l'imitazione, perché laddove il risultato fosse simile o persino uguale, nulla potrebbe mai togliere a chi ha creato un'opera per primo la sua originalità, intesa in senso stretto come nascita.
A chi segue non resta che guardare la fotografia. Il quadro. Le parole sul foglio. Senza sapere, senza possedere l'atto creativo. Come non avvertire un senso d'incompletezza? Come evitare di mettere in campo un sistema d'interpretazioni personali? Che non hanno nulla di sbagliato, sia chiaro, ma sono altro. Io invece voglio proprio quella cosa lì. Quella di quel momento, di quel luogo non mentale. Certo, di una parte non indifferente della faccenda s'impadronisce il talento, che pochi possiedono. Ma anche solo la sensibilità può costituire un buon lasciapassare, almeno da uditori.
E così, parlando di udire, ora mi ritrovo con questi sette secondi di musica, sui quali continuo a ripassare come un ladro farebbe davanti alle vetrine di una banca che non ha potuto rapinare. E al quale non resta che fantasticare su come avrebbe speso la refurtiva. Magari provando a raccontarlo, perdendosi nel buio dei vicoli di una nuova storia.


Cesare Picco - Miracle Road (3'16" - 3'22")

domenica 29 luglio 2012

Interior, by Michael Ackerman

- Photography is about being awaken and fresh. There must be a never-ending surprise, else it's not mysterious enough.
- It's not the content of an image to make it personal. It's the need that makes it personal.
- A good picture is something that puts the observer right where it was taken. Nothing else in between.
- Trust yourself to be less loud. Believe that being lighter rather than dramatic could be stronger.
- Trust more life and reality rather than aesthetics and concepts. Concepts always make me suspicious. Sometimes pictures are too much about fulfilling an idea.
- I have to believe a picture to like it. It can be very strong, but if the heart is not in it, it's useless.
- Photography is not about projects. You have one only project and it's life. What you like, what you love, what moves you, what obsesses you. Let the pictures teach you what is important for you and what is not.
- You may meet people several times before taking a portrait of them. You could need to know from experience what you were blind to.
- An image can be something drunk in by the camera. Open the shutter and let the image in.

(Michael Ackerman)


Una settimana di workshop in Toscana al TPW, con lui e altre nove persone provenienti da mezzo mondo.
Michael è una persona strana, e probabilmente il meno adatto all'insegnamento canonico tra tutti i fotografi che ho conosciuto. Non si palesa mai prima di pranzo. Non gli piace essere fotografato, né tantomeno rivedersi. Parla lentamente, intervallando le frasi con un modo di respirare tutto suo. Come se avesse bisogno di riprendere fiato mentre pensa a quello che dice.
Con lui si è trattato più di una lettura fra le righe, tra i gesti, gli sguardi. La prima cosa che mi ha colpito di lui sono stati gli occhi. Sono come coltelli, assorbono e rimandano la luce in un modo che raramente ho visto in vita mia. Solo incontrandolo ho capito come abbia potuto scattare certe foto.
A dispetto di quanto si possa pensare guardando i suoi lavori, non è un impavido. Nel pericolo ci si mette per oscura necessità. Un privilegio silenzioso quello dell'ascoltare i suoi racconti. Foto sulle quali ho lavorato d'immaginazione per anni diventavano, con le sue parole, intere storie di vita.
L'ho ritratto al volo l'ultimo giorno, appena prima di lasciare il palazzo del Municipio di San Quirico d'Orcia, dove facevamo lezione.



L'ultimo giorno tutti avevano un'aria leggera, intenti a preparare lo slideshow finale o a godersi un pomeriggio di relax dopo la settimana impegnativa del workshop.
A me scoppiava la testa dal male, la pastiglia ferma all'altezza dell'esofago, impegnato come sempre a rallentarne la corsa verso effetti benefici. Non mi veniva di stare nella stessa stanza con Michael, nè di ridere e divertirmi. Perché non trovavo proprio niente di leggero in quello che mi attraversava la mente da qualche giorno. Non avevo mai staccato del tutto con il pensiero delle trappole che mi erano state tese nella vita fuori da quel bozzolo incerto. Il veleno altrui aveva continuato ad infiltrarsi in me come fa la pioggia in certe case vecchie, punteggiando di muffa i muri bianchi.
Mi sono immersa nel workshop in maniera discontinua, disturbata, abortita, tarpata, per diversi motivi. Ho scattato con l'impressione di rimanere ferma allo stesso punto, sempre più profondamente solcato. Mi sono sentita persa, senza una direzione precisa. 
Guardavo le mie belle, giuste e probabilmente inutili foto, e mi veniva da pensare che dovessero rimanere nella cantina della mia persona, come se non valessero altro se non lo spazio e il tempo di un piatto di nouvelle cuisine. Sapete no, con quelle loro presentazioni pretenziose e perfette, colorate come serve, ma ingenerose, viventi solo per il breve momento in cui si consumano. Che durano lo spazio di un passo, o il tempo necessario a pronunciarne l'intenzione.
Non so se avessi ragione oppure se a ricoprirmi fosse solo un manto di dubbio e negatività. Se fossi soltanto stanca di me stessa.
Ne pubblico qualcuna, a conclusione di un racconto forse ancora da vivere.

Marco, al corso con me, amico da anni e mio alter ego al maschile.








Diego, assistente, voce ampia di confronto.



Valeria, modella rubata all'altro corso, delicata e intensa.







Diane, compagna di corso americana, donna meravigliosa. Coraggiosa, animata da un'energia disarmante.


 




Infine io, in un autoritratto fra i diversi che mi sono fatta. L'unico che reputo vero.


lunedì 16 luglio 2012

Colpi di.

Il peso di tutto un anno abbassa le mie spalle ogni giorno di qualche centimetro. Accade sempre, in questo periodo in cui serve quell'introvabile ultimo colpo di reni.
Non è su questo tavolo in ufficio, su questa sedia, e nemmeno sulla stessa accoppiata nella mia casa, davanti a pixel più gradevoli. Non è nelle facce che mi circondano qui, imposte e indifferenti. Non è in questa città e negli anni che le ho dato. Non è nelle delusioni che sono rotolate nella mia direzione come manciate di biglie annerite dal mio entusiasmo. Non è in un silenzio che si fa sentire. E nemmeno nell'attesa perpetua che proietta i desideri su un muro di gomma. Non sta nel terremoto imminente dell'incontro con Ackerman, nè nei chilometri che mi separano dalle riflessioni che ne seguiranno. Non si trova nemmeno nella coscienza pulita. E non è certo nello specchiarsi nei dolori altrui, che raffreddano il corpo nel contatto come correnti improvvise sotto la superficie dell'acqua.
Sta invece nel brevissimo istante di uno sguardo che sostiene pur seduto e timidamente affranto, o nella voce di una canzone fatta esplodere nell'aria solo perchè tu ne possa sorridere. Nelle parole giuste e dure di chi ti vuole bene e capisce il tuo valore. E' nel pregustare quel posto senza pretese, fatto di acqua e luci e sole e verde e ricordi a venire. Nei tuoi genitori che si addormentano alla fine di una giornata, la loro, e che vorresti non finisse mai. Nel non sentirsi soli a cercare il cambiamento che verrà. Nel profumo che ci si sente addosso da una vita e nel piacere di regalarlo a qualcuno, per un attimo infinito.
Nello scrivere queste parole pensando sottovoce a ognuno di voi, a loro e alle tante me. Che a colpi di reni, e di remi, avanziamo senza mai essere d'avanzo.

martedì 26 giugno 2012

Vento




VENTO

E' andare, finalmente.
Inalo la città in tutti i suoi palazzi, caldi nei colori e rumorosi nelle voci.
L'aria estiva non soffoca, limitandosi a inumidire appena l'incontro della pelle con la pelle, tra le pieghe del corpo.
I sampietrini fanno sobbalzare le ruote, loro sorelle quotidiane, e me con esse.
Tempo per me, tanto. Lo guardo e mi precede, pronto a farsi percorrere fino a non farsi più vedere, nel buio della notte che arriverà, silenziosa.
Ora tutto è brezza. Trapassa le maglie leggere del cotone e s'infila come un amante nelle aperture che vi scova, facendosi strada verso il mio corpo. Il bianco che mi veste si gonfia e si svuota veloce, sbatacchiando come una vela appena issata con la prua ancora al vento.
La strada è un liquido solido, il gioco di ombre e luci mimetizza il traffico che mi scorre intorno con moto ondoso regolare.
Tengo ben saldo il timone, con entrambe le mani.
Respiro profondamente, immersa nell'odore inconfondibile dell'acqua dolce.
Accosto leggermente e rallento un poco, controllo la superficie indisturbata della strada.
Via libera.
Il vento mi avvolge senza sospingermi troppo e, mollando la cima, lascio che mi si metta in poppa.
Ed è allora che, per un istante infinito, mi concedo di chiudere gli occhi.
Sono in barca. Nulla mi tocca se non il vento.
E il calore che sento è mio padre, che mi sta portando sul lago. Come ogni estate.


martedì 19 giugno 2012

Formaintera

Si dice che scappare non risolva i problemi, che andare in un posto diverso non lasci indietro i pensieri. Ma quando davanti a te si riversa l'intera gamma degli azzurri presenti in natura, tendi a lasciare ai luoghi comuni il tempo che trovano, per abbracciare invece quello in cui ti trovi.
Tre giorni a Formentera: ognuno con un peso diverso, ognuno imprescindibile parte dello stesso intero. Un'isola dove nonostante la novità degli scenari non ti senti mai smarrito, ma al contrario in stretto contatto con te stesso. Profumi di verde e folate di aria fresca che venano il calore del sole, canzoni con parole dimenticate su due ruote saltellanti sullo sterrato, colori saturi e autentici eppure incredibili, suoni silenziosi che estinguono miracolosamente il bisogno di altre note. Mare dalla purezza talmente arrogante da sembrare denso. Reticolati di sole disegnati sul fondo sabbioso, sospinti nella trafila di un'acqua appena vivace. Nuove e note voci, parole che escono e rientrano tracciando cerchi armoniosi e poligoni irregolari.
E poi loro, le fotografie: il motivo principale del mio viaggio. Il nudo come libertà di espressione e di movimento. Invenzioni raccontate in brevi serie, visioni ricreate in forma rettangolare, pattinate sul filo del rasoio. Con mano ferma o tuffata nel cuore, senza avvertire nient'altro che il magnetismo dell'idea da rappresentare che attrae lo sguardo a sè: non il freddo, non la salsedine, non la sabbia graffiante sul corpo, non il buio. Demoni danzanti che per una volta non fanno male, ma che anzi elargiscono adrenalina con innumerevoli colpi di coda. Segni di alleanza e gesti di potere si alternano formando un unico film, che scorre negli occhi senza tregua dopo la sua prima e definitiva impressione sulla pellicola, lasciando in tutti i suoi attori lunghe scie.
Al contempo turbata e rilassata, faccio ritorno al nuovo oggi. Ascolto una canzone, la prima da giorni, sul traghetto per Ibiza. Ed è un Caronte dolce che mi porta verso casa sull'ultima distesa salata. Respiro a tratti più consapevole o più selvatica, ma sopra ogni cosa più viva. Dopo l'isola sono meno isola, più intera nella mia forma. Formaintera.

giovedì 14 giugno 2012

Il pilota di aeroplani

Entra nella stanza, con quel suo passo un po' dinoccolato.
Uh, ma c'è qualcosa qui! Volete farmi lavorare...
Si dirige verso le cassette della posta interna e ne preleva una busta grigia, che finisce in cima alla piccola pila che si porta in braccio.
E' Alberto, il fattorino che ogni giorno passa due-tre volte per le consegne postali. Per lui da anni sono "Francischedda bedda", e anche se non abbiamo mai fatto una vera chiacchierata gli sono affezionata. Non nel modo in cui lo possono essere gli altri, che vedono sempre soltanto il suo fare giullaresco. Io lo guardo nei dettagli che mostra quando appoggia quei panni sullo schienale di una sedia immaginaria.
Come al suo arrivo la mattina, in moto, con la tuta. Poi si mette il vestito e la cravatta, ma si capisce che non gli appartengono. Oppure quando vado al quarto piano ed è il suo turno per sorvegliare l'ingresso. Se ne sta lì seduto, a guardare i monitor e a far scattare la porta con il metal detector. Quando mi intravede attraverso i vetri s'illumina, preparando una battuta di saluto, sempre diversa. Ma quell'espressione un po' dimessa e al contempo dignitosa non mi è sfuggita, ed è tardi per darmi a intendere spensieratezza. In quel volto e nei gesti vedo abnegazione, spirito di sacrificio, amore.
E' un brav'uomo Alberto, e come tanti indossa la maschera più brillante della malinconia. Chissà se da bambino sognava di fare il pilota di aeroplani.

lunedì 4 giugno 2012

Donna e motore

Sono qui davanti a un foglio bianco con il desiderio di annerirlo, ma con troppi - o troppo pochi - pensieri in testa per procedere con il mio naturale passo: spedito, certo, inarrestabile. Sarà che durante la mia parziale assenza da questo luogo che ho sempre considerato casa, ho fatto un piccolo viaggio in altri mondi, aprendomi a orizzonti che mi ritrovo ora a guardare nell'insieme. In tutto questo, può quindi avere senso scrivere semplicemente dello scrivere e del fare, senza lo scritto o il fatto.

Mai come nell'ultimo periodo ho spinto sull'acceleratore dell'apprendimento e della creatività, generati e accompagnati dagli stimoli più diversi. Il percorso non è stato lineare, e come tutte le esplorazioni più interessanti mi è parso lunghissimo, costellato di presenze vecchie e nuove, di riferimenti consolidati e sfide inedite. Ora faccio il punto con me stessa, in un momento intermedio di qualcosa che, in fondo, non troverà mai una fine se non in quella particolare certezza che il famoso detto abbina alle tasse.

Ho fotografato di nuovo, e con notevole frequenza, nonostante il periodo di pausa che avevo avuto l'ardire di impormi per ritrovare uno spirito sepolto da tanti penseri e sentimenti. La verità è che l'unica decisione sensata, quando si parla di attività creative, è quella di non decidere. Si segue l'impulso, e già questo coraggio può portare a qualcosa. Continuo a spingermi, a provare, a sperimentare, a mettermi in condizioni limite. Se ciò che ho fatto sia buono non spetta a me dirlo, e parleranno al posto mio i prossimi mesi, che si preannunciano quanto meno movimentati.
Inaspettatamente ho iniziato a studiare sceneggiatura, grazie a un progetto bellissimo che mi è capitato tra le mani e che non vedo l'ora di affrontare. Anche qui, l'incognita regna sovrana e ci sarà da sudare, ma sono molto stimolata e curiosa di vedere come andrà.
Mi sono infine tuffata, senza accorgermene, in una sorta di esercizio di scrittura di cui avete visto i frutti nei precedenti post e che apprezzo perchè ha affinato l'efficacia espressiva che desidero portare nei miei scritti futuri. Non intendo abbandonarlo, semmai inserirlo e amalgamarlo in un quadro generale più ampio, sul quale lavoro da qualche tempo.

L'effetto finale è che, in tutte queste costruzioni, mi pare di essermi dispersa. Come se avessi disseminato pezzi di me in ogni dove e avessi bisogno di una scopa grande abbastanza per riportarli sulla paletta. E' cosa normale, forse, quando si ha la fortuna di poter viaggiare su più binari; dunque non importa se a un certo punto mi sembrerà di dover divaricare inumanamente le gambe per giungere a tutte le mie destinazioni, perchè penso che l'elasticità sviluppata dai miei muscoli in questo tempo me lo consentirà.
Credo che, in ogni caso, la cosa più importante da fare sia continuare a viaggiare, perchè l'arte è quel motore che lavora dentro di te anche quando ti sembra di non tenerlo acceso. E anche quando, in fondo, artista non ti ci senti nemmeno.

venerdì 18 maggio 2012

E così vorresti fare lo scrittore?

Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
a meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
se lo fai solo per soldi o per
fama,
non farlo.
se lo fai perchè vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun
altro,
lascia perdere.

se devi aspettare che ti esca come un
ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos'altro.
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.

non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono e noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall'auto-
compiacimento.
le biblioteche del mondo hanno
sbadigliato
fino ad addormentarsi
per tipi come te.
non aggiungerti a loro.
non farlo.
a meno che non ti esca
dall'anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all'omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.

quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da
sè e continuerà
finchè tu morirai o morirà in
te.

non c'è altro modo.

e non c'è mai stato.

C. Bukowski

mercoledì 2 maggio 2012

Un corto

Una settimana fa ho scritto il mio primo racconto. Una bozza, a dire il vero: voglio ritornarci sopra e modificare/aggiungere qualcosa. L'ho scritto di getto in 2-3 ore e probabilmente a tre quarti del lavoro ero troppo stanca per sostenere il ritmo narrativo della parte precedente, dunque in quel punto andrebbe spinto ancora un po'. Al di là di queste considerazioni per voi assolutamente inutili e noiose, dato che non l'avete letto, m'interessava fare una riflessione.
Ho inviato il racconto a un ristretto numero di occhi - alcuni tra quelli cui normalmente faccio riferimento per le critiche delle mie fotografie - e ognuno di loro mi ha offerto il proprio punto di vista. L'ho anche letto al corso di scrittura, ma lo stringato giudizio del docente, che lo reputa molto interessante, denso e fluido allo stesso tempo, non mi è parsa un'indicazione molto utile. Insomma, io mi aspetto qualcosa di più mirato da uno che sta in cattedra e si presume mi debba dire su cosa debba lavorare per migliorarmi. Ma al di là di questa velata polemica e tornando sui feedback dei miei critici personali, quello che forse più mi ha colpito è stato quello di Moreno P., che poi scrive per mestiere.
Estrapolando, mi dice: "È interessante, è un corto fatto e finito. (...) Funziona e poi inquadri bene, la tua esperienza fotografica si sente. Se fosse un corto direi: che bella fotografia che ha... Anzi, ora inizio a dirlo anche dei libri e dei racconti: questo libro ha una bella fotografia."
Io credo che in queste parole ci sia l'essenza del mio modo di scrivere, che è per forza di cose (positivamente, direi) contaminato dalla fotografia. Anche in altre occasioni mi è stata detta questa stessa cosa - stile cinematografico, fotografico, ecc. - e mi ci ritrovo molto. Quando mi viene l'idea per una foto o uno scritto, tutto parte quasi sempre da un'immagine. A volte è reale, altre è solo nella mia testa. Che io poi la fotografi o la descriva a parole, è solo una questione di scelta del mezzo. Per me non c'è nulla di più immediato che raccontare quello che vedo fuori o dentro di me, facendo partecipe chi legge del mio modo di guardare. Non lo faccio per spiegare o aiutare a capire - non è mai stato quello il mio fine in nessuna espressione, e del resto lo spettatore va sedotto e non indottrinato - ma semplicemente perchè è quello il modo in cui le cose mi attraversano, l'unico che guida il mio scrivere. Il che può essere tanto un punto di forza quanto un limite, chissà. I margini di miglioramento sono, come sempre, amplissimi e io ho appena cominciato. Però mi piace questa mia verginità nell'approccio alla scrittura: quando vado a "lezione", gli altri stanno sempre lì a citare questo e quello, hanno tutti letto molto più di me, anche per una questione meramente anagrafica. Non so, io sono una novellina, eppure spesso riesco ad essere più efficace di loro. Ho molta voglia di continuare per questa strada in cui sento di non avere nulla da dimostrare.

E poi lasciatemi anche togliere un sassolino dalla scarpa, a costo di sembrare presuntuosa. Per la prossima settimana dobbiamo leggere "Gli indifferenti", di Alberto Moravia, per poi analizzare e scomporre il testo insieme. Sto facendo i compiti, dunque leggo nel poco tempo a mia disposizione, ma non è una lettura sempre piacevole. Certo, ci sono alcuni passaggi che trovo molto belli - anche Moravia sa essere molto fotografico, nell'uso che fa della luce per descrivere gli ambienti e le atmosfere - però c'è un particolare, neanche trascurabile, che proprio mi urta. Per chi non lo conoscesse, "Gli indifferenti" è un romanzo sulla (contro la) borghesia, ambientato a cavallo tra gli anni '20 e '30 tra le vicende di una famiglia i cui membri sono sostanzialmente apatici, annoiati, bugiardi e inetti. Quello che mi urta nella lettura è l'uso di certi aggettivi, ripetuti quasi ossessivamente all'interno della narrazione, che a mio parere "telefonano" eccessivamente - perdonate il gergo cinematografico, ma è quello che mi sembra più adatto per rendere il senso di questo meccanismo - il carattere dei personaggi, invece di farlo arrivare al lettore in maniera più indiretta e sottile. Stupido, patetico, disgustato, ecc. sono tutte parole nelle quali ci si imbatte continuamente. Insomma, secondo me non c'è bisogno di calcare la mano in questo modo. Anzi, il lettore rischia di annoiarsi e allontanarsi, come sta avvenendo per me. Chiusa parentesi Moravia.

Ora, per tornare al discorso in apertura, vi lascio con un'immagine dal mio ultimo shoot di un paio di giorni fa, scaricato al volo questa notte nel mio usuale furto di tempo al sonno. Non perchè pensi che sia una foto eccezionale - ce ne sono di più interessanti, in questa e in altre serie di quel giorno - ma perchè trovo che renda bene il significato del mio raccontare per immagini e parole. Io partendo da questa foto potrei inventare un intero racconto, perchè quando la guardo mi genera delle domande. Provateci anche voi se ne avete voglia: pensate a cosa vi dice, se vi dice qualcosa.

mercoledì 25 aprile 2012

In Rubikolor

Questo post mi gira per la testa da giorni come un cubo di Rubik. Prendo un pensiero, cui segue un suo simile, ma quando provo ad avvicinare il successivo ne arriva uno di un altro colore. E allora devo riprendere tutto daccapo. La consolazione è che una vita letta à la Rubik ha una logica sottostante che, se la conosci, è in grado di risolvere le cose anche quando c'è un gran casino e niente sta per più di un istante dove l'avevi messo.
Gli ultimi due mesi sono stati più o meno così, ma forse la struttura del mio personale edificio sta tornando finalmente a mostrarsi, dopo qualche inevitabile detonazione. Detto questo, non ho assolutamente idea di quali facce del cubo completerò tra poco - mi basterebbe salvare quella sopra al mio collo. 

Rosso
Conservate sempre la capacità di distinguere quello che vivete da quello che credete di vivere, e quello che volete davvero da quello che credete di volere.

Verde
Il talento è una porta aperta dentro di noi. E’ quello che ci viene senza sforzo perché siamo fatti per quello. E’ la vita che non viene interrotta dalla nostra paura e passa da noi senza rallentare e senza indebolirsi. Il talento è una qualità della morbidezza, è un flusso per il quale siamo nati giusti. (*)

Bianco
Io sono più un tipo da racconti che da romanzi, perchè ho una passione sfrenata per inizi e finali. Potrei anche scrivere solo quelli, e in mezzo qualche riga bianca per l'immaginazione.

Giallo
Ci sono momenti nella vita in cui sei trasparente e altri in cui diventi 3D. All'improvviso tutto comincia a muoversi intorno a te, vorresti pensare di meritarlo davvero e qualche volta ci riesci, persino.

Arancione
Conosco un solo modo di essere me stessa e lo leggo negli occhi degli altri.
Se tutti vengono da te a chiederti del pesce forse sei una pescheria. Se vengono a chiederti medicine forse sei una farmacia. Giriamo con un cartello di istruzioni per l'uso appeso in fronte. L'insegna di un negozio. Ma siccome noi siamo dentro, non la vediamo. La vedono gli altri e ci usano per quello che siamo. (*)

Blu
Trovare persone che inconsapevolmente sanno metterti in moto, ricordandoti l'importanza di continuare a correre, è un dono prezioso. Andatele a stanare, che ci sono.


(*) Entrambe le citazioni sono di G. Covini.

lunedì 16 aprile 2012

Terremoti

Il reportage non è il genere di fotografia in cui mi cimento - il che potrebbe sembrare un po' strano, vista la mia passione per le storie - ma per via delle mie frequentazioni in ambito fotografico, mi capita abbastanza spesso di avvicinarmici da spettatrice.
In questo caso si è trattato dell'inaugurazione, all'interno dello Spazio Giovani del Festival della Fotografia Etica di Lodi, della prima mostra personale di Alberto Maretti, mio ex compagno alla scuola di fotografia e che in tempi non sospetti avevo già presentato qui come fotografo talentuoso e promettente.
Il lavoro che ha esposto si chiama Gyumri il terremoto che continua e racconta la città armena di Gyumri a distanza di più di vent'anni dal terremoto che la distrusse, nel 1988.
Indubbiamente, ascoltare dalla viva voce dell'autore la storia di ogni immagine in mostra ha rappresentato un valore aggiunto, non solo in termini prettamente narrativi rispetto alle singole foto, ma anche e soprattutto in merito alla visione che di quella realtà si è voluto offrire: il fotografo ha saputo amalgamare la propria voce con quella dei personaggi della storia - gli individui, ma anche le strutture architettoniche - rispettando il loro effettivo essere rispetto all'intera vicenda della distruzione, senza cadere nelle trappole dei facili sensazionalismi e restituendo per quanto possibile intatto lo spirito delle persone che ha incontrato e con le quali si è a lungo confrontato durante il suo viaggio in quella sorta di realtà dimenticata e spettrale. Parlo della solitudine e del dolore, della rinuncia e del sacrificio, dell'interruzione e della sofferenza ma anche della dignità, della capacità di accettare e reagire.

So bene che le immagini non si possono raccontare a parole, quindi non proverò neanche a farlo - vanno viste. Però è anche vero che quando parlo dei miei incontri con fotografie che mi colpiscono, in genere mi chiedo cosa mi abbia conquistato. All'interno della selezione, c'è un'immagine che mi ha provocato una reazione particolare. Si tratta di una delle tante donne anziane che hanno perso famiglia e appoggio dopo il terremoto: non riceve aiuti da nessuno e abita da sola in un piccolissimo e spoglio domik - questo il nome dei container abitabili. Nella foto si vede la donna seduta sulla destra, di profilo, sul fondo della stanza stretta una cucina a gas, mentre sulla sinistra c'è una porta che, se la memoria non m'inganna, è la fonte di luce naturale della foto. La texture dell'immagine è diversa da tutte le altre della serie, perchè la scena è ripresa da dietro un leggerissimo velo. Questa sorta di lieve "garzatura" conferisce alla foto un'atmosfera un po' surreale, che a tutta prima mi ha ricordato vagamente - con i dovuti distiguo - lo stile di Sarah Moon. Il fatto è che questa specie di momentanea "deviazione" formale ed estetica, che potrebbe sorprendere in una foto di Alberto, in genere piuttosto diretto e fendente, era solo uno specchietto per le allodole per me che molto apprezzo la Moon. E allora, più guardavo quella foto e più mi rendevo conto del fatto che essa andava a richiamare qualcosa di molto più profondamente radicato in me: la donna aveva il profilo di mia nonna e il suo stesso modo di stare. La testa bassa, la solitudine, il silenzio, un'attesa di qualcosa che somiglia alla morte, e che ricordo dei suoi ultimi anni di vita. Eppure c'è nell'immagine una certa poesia, data proprio da quella carezza della texture. Come se il fotografo avesse voluto rispettare la dimensione di quel dolore, di quello stato. Non l'ha sfocata, rendendola illeggibile e onirica: non sarebbe stato il codice giusto, avrebbe detto tutt'altro. Invece l'ha filtrata, creando un intervento fisico che avesse il giusto peso e che inserisse un contrappunto rispetto a quella situazione, obiettivamente piuttosto angosciante.
Questo è uno dei modi in cui Alberto è in grado di entrare in quello che decide di raccontare, e non si tratta di semplice empatia: è come se divenisse una sorta di spettatore comunicante di una storia che fa propria perchè in qualche modo riconosce in essa qualcosa di sè. Parla molto con i suoi soggetti e scatta poco - a volte non lo fa neanche perchè sa rispettare il valore del tempo, che non dovrebbe mai subire forzature, soprattutto in questi casi. Mi viene da chiedermi quanto un'immersione così profonda nelle cose possa a lungo andare pesare o nuocere psicologicamente a un fotografo che fa reportage, al quale in molte situazioni è richiesto sangue freddo e distacco, ma indubbiamente in questo caso - e parlo di questa come delle altre foto della serie - la sensibilità del fotografo emerge vibrante, e ci sta un gran bene.

martedì 10 aprile 2012

Sempre la vita

Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l'ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del nostro corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, "creature di sangue caldo e nervi", come dice un personaggio di Chekov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita.
(Raymond Carver)

Grazie M.

mercoledì 28 marzo 2012

Blind date #2

La prima volta non si scorda mai, ma in musica si chiede sempre il bis. Dopo Roma, ascolto di nuovo Cesare Picco suonare al buio completo, stavolta a Firenze.

Per quella mezz'ora di totale oscurità ho di nuovo gli occhi spalancati. Senza altri contorni che mi distraggano, posso vedere le linee delle mie suggestioni. Il pensiero finalmente tace, anestetizzato dalla musica.
Siamo tutti qui, ma è come se non ci fosse nessuno. Cesare parla con ognuno di noi, moltitudine e individui simultaneamente. Non c'è tempo nè luogo, non ci sono corpi nè materia. Le corde risuonano dentro e fuori, liquefacendo il sentire.
Lentamente si riaccendono le luci sul palco. Le sagome del pianoforte e di chi lo sta facendo vivere emergono come una stampa a bagno nello sviluppo. Ora ho una fotografia di Firenze che nessuno ha mai visto.
Cose che accadono al buio.

mercoledì 21 marzo 2012

Il tempo del granchio

Vi conosco, siete troppo pigri per cliccare su un link, quindi riporto tutto il contenuto direttamente qui. Dal blog di Roberto Cotroneo.

Troviamo un nuovo tempo. Per un buon tempo futuro…
[Da Roberto Cotroneo, Se una mattina d'estate un bambino. Lettera a mio figlio sull'amore per i libri, Frassinelli, Milano 2008]

(…) Così Francesco, c’è un tempo per stare nelle fucine, battere il ferro e un tempo per mettere le ali ai piedi. Il bello è che i due tempi talvolta coincidono quasi, coesistono persino. Molti pensano che la creatività e la fantasia siano soltanto svolazzare come Mercurio con le ali ai piedi. Una cosa frivola, “sempre meglio che lavorare”, come ha detto qualcuno. Altri pensano, e a scuola succede molto spesso, che la fantasia sia il frutto delle fatiche di Vulcano, sia generata da quel dio claudicante, un dio minore, perché non è il titolare di nessuno dei sette pianeti del cielo degli antichi. E pensano alla fantasia, all’atto creativo in modo punitivo, senza leggerezza. Creare è quasi soccombere alla fatica rischiando di non farcela, perdendosi. E dunque la creatività come autodistruzione. Il lavoro creativo come disperazione, come sofferenza.

Ma quella che Calvino chiama intermittenza è un’altra cosa ancora. Non è il giusto mezzo (la gente parla sempre di giusto mezzo, come fosse un’unità di misura, un aspetto corretto del vivere) tra concretezza e leggerezza. Non è così banale, Francesco. Lui dice che il tempo della creazione vuole uno squilibrio tra questi momenti. L’intuizione istantanea e poi il lavoro di lima, l’aggiustare di continuo le cose che scrivi fino a che non senti che quello che stai facendo è giusto. Ma Calvino dice una cosa ancora, la fa capire: la rapidità non è un modo della velocità: è solo il risultato immediato di un processo lento e oscuro. Capire le cose velocemente è un modo della lentezza, di una lentezza che non appare.

Sai come finisce la sua conferenza Calvino? Con una storia esemplare, una storia che riprendo sempre ogni volta che qualcuno mi chiede cosa sia mai scrivere. «Ho cominciato questa conferenza raccontando una storia, lasciatemi finire con un’altra storia. E’ una storia cinese. Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno di un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto».

La storia di Chuang-Tzu mi ha colpito in un modo straordinario, Francesco. E quando te l’ho raccontata la prima volta mi hai guardato come se ti avessi riferito di una magia. Ti veniva da ridere, non sapevi se crederci oppure no. Eppure ci devi credere, perché la fantasia e la creatività sono delle magie dell’esistenza che un mondo là fuori cerca di sottrarci il più possibile. Il re di Chuang-Tzu è un bravo re, Francesco, perché accorda altri cinque anni al suo grande disegnatore. E cosa fa Chuang-Tzu? Fa come Vulcano e Mercurio, per dieci anni vive dentro di sé la fucina di Vulcano, rielabora continuamente quel granchio, senza mai disegnarlo. Forse arriva persino a sognarlo, e anche più di una volta. Ma solo alla fine finisce per disegnarlo, con un gesto soltanto.

Quel gesto vale dieci anni. Il tempo, Francesco, ti continuano a richiamare sul tempo. Sul tempo che ci metti a fare un esercizio, a rispondere a una domanda, ti continuano a chiedere conto del tuo tempo, del tempo che non si può mai perdere, ti diranno la famosa frase che il tempo è denaro. E poi che il denaro è potere. E il potere poi chissà cos’è. Viviamo in un mondo dominato dagli orologi. Non si portano più soltanto al polso, non appaiono severi solamente sulle pensiline delle stazioni ferroviare. Ora sono sugli schermi dei computer, sono sui telefonini, si vedono, a cristalli luminosi anche di notte, in cima alle torri, ai palazzi, nelle piazze italiane. La gente continua a chiedersi che ora sia, anche quando non ha un appuntamento, anche quando non deve salire su un aereo. Tutto deve essere fatto e prodotto in poco tempo, si inventano macchine che servono a fare delle cose più velocemente di una volta. Perché la velocità, la rapidità è un modo per guadagnare di più, è ricchezza. Ma anche svuotamento. Il tempo che risparmi è un tempo bruciato, cancellato dall’ansia della rapidità. Chuang-Tzu avrebbe potuto disegnare tre granchi per il re. Ma nessuno dei tre sarebbe stato perfetto, nessuno dei tre avrebbe reso felice il sovrano. La natura ha i suoi tempi. Anche la fantasia ha i suoi tempi, la creatività. Che non sono i tempi del potere e del denaro.

domenica 18 marzo 2012

Aritmetica dell'arte

Moltiplicarsi è divertente, aggiungere inebriante, (con)dividere necessario e sottrarre difficilissimo.
Gli artisti, per fare cose sempre migliori, devono concentrarsi sull'ultima operazione. Per questo poi compensano esagerando nelle altre tre.

martedì 13 marzo 2012

Eclissata

L'eclissi è un allineamento di pianeti che, visto dalla Terra, comporta oscurità.
Se però ultimamente la mia luce si vede per meno tempo non è perchè mi sono spenta, ma perchè sto sul lato della Luna esposto al Sole, e mi godo il calore dei suoi raggi.

domenica 4 marzo 2012

Inchiostro di fotoni

Ci sono fondamentalmente due modi per cucinare la carne: la lunga cottura a fuoco lento dell'arrosto, aromatico e compatto, e la scottata rapida della bistecca, sanguinante e burrosa. Personalmente sono più per la seconda, sia in cucina sia, in senso figurato, nella vita. E infatti ho scelto la formula della bistecca anche per quella che è un po' una tappa immancabile per ogni fotografo: la stampa in camera oscura. Non avendo tempo e possibilità di dedicarmi a un corso di sei mesi, ho colto al volo l'opportunità di un workshop di due giorni tenuto da Samantha Marenzi, fotografa e stampatrice di esperienza ventennale.

Racconto la cosa già stasera, dopo sole quattro ore passate in sua compagnia, con davanti altre otto che mi vedranno domani di nuovo in quella stanza buia, illuminata solo dalla luce rossa alla quale gli occhi pian piano si abituano. Nella camera oscura tutto rallenta, lo scorrere dei secondi scandisce ogni operazione, in contrasto con la frenesia del mondo esterno. E' un microcosmo silenzioso, dove avvengono magie e tu ne sei lo stregone. Mai come in quella dimensione la fotografia esprime appieno il suo significato etimologico di scrittura con la luce, che passa attraverso il negativo portandone con sè la memoria e proiettandola sulla carta. E in quello spazio di mezzo, quei pochi centimetri che separano l'obiettivo dal supporto sottostante, tu puoi entrare fisicamente, a dire di nuovo la tua su quella storia raccontata in un momento precedente. L'ingranditore si spegne, immergi il foglio bianco nello sviluppo e in pochi secondi ecco la foto rivelarsi, proprio sotto i tuoi occhi.

Ho voluto che la mia prima stampa fosse un ritratto di Within al quale sono particolarmente legata. Il provino iniziale era una striscia che percorreva la foto nel mezzo, orizzontalmente, dove avrebbe raccolto il maggior numero d'informazioni sulla gamma tonale di quell'immagine. Ho visto gli occhi del mio soggetto letteralmente aprirsi dal biancore della carta e diventare scuri, insieme alla pelle del viso e lo sfondo nero che sembrava inghiottirlo. E' stato come rivivere il momento dello scatto. Nella stampa completa ho mantenuto lo stesso tempo, chiuso il diaframma di uno stop e mascherato per pochi secondi l'occhio più in ombra. E' bellissima. E' la mia storia di quel giorno, ora scritta nero su bianco con inchiostro di fotoni.

martedì 28 febbraio 2012

Il basso letterario

Quando incontriamo una persona per un ritratto, spesso accade che la prima intuizione riesca ad andare più a fondo di quanto possa avvenire dopo, andando avanti a scattare. Sapere troppe cose rende più difficile il mettersele alle spalle per essere innocenti al momento giusto.

Ieri sera ho incontrato Ferdinando Scianna dal vivo, dopo averlo letto, guardato e citato per anni. L'occasione è stata la presentazione del suo ultimo libro, "Autoritratto di un fotografo", presso la Scuola Romana di fotografia.
Si è parlato a lungo di ritratto, cosa che ovviamente ho molto apprezzato (istante decisivo, aneddoti, approccio à la Cartier-Bresson vs Klein), ma anche di ossessione e necessità dello scatto, nonchè del rapporto fotografia-scrittura - Scianna ha anche scritto molto nella sua carriera, coltivando per tutta la vita anche una solida amicizia con il conterraneo Leonardo Sciascia. Ho trovato particolarmente interessante quest'ultimo spunto, a proposito del quale Scianna ha dichiarato: "La mia fotografia ci guadagna ad essere accompagnata da questo basso continuo letterario."
Io, inutile dirlo, mi ritrovo molto in quest'asserzione. Per chi nel raccontare si limita a fotografare non c'è necessità di spiegarsi ulteriormente, anzi il mistero che nasce da una foto è uno dei tesori di maggior valore che lo spettatore possa ricevere. Io stessa amo guardare e realizzare immagini non esaustive da questo punto di vista, eppure quando presento i miei lavori mi piace sempre raccontare come siano nati gli scatti - ne avete svariati esempi anche in questo blog, con i post su Within - perchè ho grande passione per la narrazione. E' come un sistema a due incognite interpretative, che non si risolve in una sola espressione: è necessaria la seconda equazione. E' per questo motivo che, come ho detto recentemente a uno di voi, non mi posso ritenere una fotografa: a me l'immagine non basta e io non basto a lei, tant'è vero che il nostro rapporto non è risolto. Dover scegliere tra le forme di espressione visiva e verbale non porta alla risoluzione del mio sistema personale. Quel basso continuo di cui parla Scianna lo sento anch'io, ma mentre per un fotografo con tutte le lettere è semplicemente un suono che può dare il tono del fare, per me se ne esce, un po' anarchicamente, anche come strumento solista. Saturnino style.