lunedì 16 aprile 2012

Terremoti

Il reportage non è il genere di fotografia in cui mi cimento - il che potrebbe sembrare un po' strano, vista la mia passione per le storie - ma per via delle mie frequentazioni in ambito fotografico, mi capita abbastanza spesso di avvicinarmici da spettatrice.
In questo caso si è trattato dell'inaugurazione, all'interno dello Spazio Giovani del Festival della Fotografia Etica di Lodi, della prima mostra personale di Alberto Maretti, mio ex compagno alla scuola di fotografia e che in tempi non sospetti avevo già presentato qui come fotografo talentuoso e promettente.
Il lavoro che ha esposto si chiama Gyumri il terremoto che continua e racconta la città armena di Gyumri a distanza di più di vent'anni dal terremoto che la distrusse, nel 1988.
Indubbiamente, ascoltare dalla viva voce dell'autore la storia di ogni immagine in mostra ha rappresentato un valore aggiunto, non solo in termini prettamente narrativi rispetto alle singole foto, ma anche e soprattutto in merito alla visione che di quella realtà si è voluto offrire: il fotografo ha saputo amalgamare la propria voce con quella dei personaggi della storia - gli individui, ma anche le strutture architettoniche - rispettando il loro effettivo essere rispetto all'intera vicenda della distruzione, senza cadere nelle trappole dei facili sensazionalismi e restituendo per quanto possibile intatto lo spirito delle persone che ha incontrato e con le quali si è a lungo confrontato durante il suo viaggio in quella sorta di realtà dimenticata e spettrale. Parlo della solitudine e del dolore, della rinuncia e del sacrificio, dell'interruzione e della sofferenza ma anche della dignità, della capacità di accettare e reagire.

So bene che le immagini non si possono raccontare a parole, quindi non proverò neanche a farlo - vanno viste. Però è anche vero che quando parlo dei miei incontri con fotografie che mi colpiscono, in genere mi chiedo cosa mi abbia conquistato. All'interno della selezione, c'è un'immagine che mi ha provocato una reazione particolare. Si tratta di una delle tante donne anziane che hanno perso famiglia e appoggio dopo il terremoto: non riceve aiuti da nessuno e abita da sola in un piccolissimo e spoglio domik - questo il nome dei container abitabili. Nella foto si vede la donna seduta sulla destra, di profilo, sul fondo della stanza stretta una cucina a gas, mentre sulla sinistra c'è una porta che, se la memoria non m'inganna, è la fonte di luce naturale della foto. La texture dell'immagine è diversa da tutte le altre della serie, perchè la scena è ripresa da dietro un leggerissimo velo. Questa sorta di lieve "garzatura" conferisce alla foto un'atmosfera un po' surreale, che a tutta prima mi ha ricordato vagamente - con i dovuti distiguo - lo stile di Sarah Moon. Il fatto è che questa specie di momentanea "deviazione" formale ed estetica, che potrebbe sorprendere in una foto di Alberto, in genere piuttosto diretto e fendente, era solo uno specchietto per le allodole per me che molto apprezzo la Moon. E allora, più guardavo quella foto e più mi rendevo conto del fatto che essa andava a richiamare qualcosa di molto più profondamente radicato in me: la donna aveva il profilo di mia nonna e il suo stesso modo di stare. La testa bassa, la solitudine, il silenzio, un'attesa di qualcosa che somiglia alla morte, e che ricordo dei suoi ultimi anni di vita. Eppure c'è nell'immagine una certa poesia, data proprio da quella carezza della texture. Come se il fotografo avesse voluto rispettare la dimensione di quel dolore, di quello stato. Non l'ha sfocata, rendendola illeggibile e onirica: non sarebbe stato il codice giusto, avrebbe detto tutt'altro. Invece l'ha filtrata, creando un intervento fisico che avesse il giusto peso e che inserisse un contrappunto rispetto a quella situazione, obiettivamente piuttosto angosciante.
Questo è uno dei modi in cui Alberto è in grado di entrare in quello che decide di raccontare, e non si tratta di semplice empatia: è come se divenisse una sorta di spettatore comunicante di una storia che fa propria perchè in qualche modo riconosce in essa qualcosa di sè. Parla molto con i suoi soggetti e scatta poco - a volte non lo fa neanche perchè sa rispettare il valore del tempo, che non dovrebbe mai subire forzature, soprattutto in questi casi. Mi viene da chiedermi quanto un'immersione così profonda nelle cose possa a lungo andare pesare o nuocere psicologicamente a un fotografo che fa reportage, al quale in molte situazioni è richiesto sangue freddo e distacco, ma indubbiamente in questo caso - e parlo di questa come delle altre foto della serie - la sensibilità del fotografo emerge vibrante, e ci sta un gran bene.

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