martedì 20 gennaio 2015

Di moderni abusi

Per molti versi, si stava meglio quando i social non esistevano. Se non altro perché le occasioni di imbattersi in due parole decisamente abusate nell'ultimo decennio erano nettamente inferiori e strettamente legate alle frequentazioni dirette, che, si sa, sono senz'altro più selezionate di quelle offerte dal diramarsi dei collegamenti virtuali. Le due parole sono disagio e genio.

La prima, gramigna del gergo giovanile che si attorciglia al parlato come un ricciolo attorno al dito. Vezzo annoiato, il più delle volte impertinente (nel senso di non-pertinente), una sorta di posa. Una volta ero in fila all'uscita d'imbarco in aeroporto. Credo si trattasse di una destinazione vacanziera, perché sulla tratta serale Roma-Milano non c'erano mai ragazzine con le unghie dipinte di azzurro che tra un risolino e l'altro ripetessero "che disagio!" a qualunque sollecitazione il loro orecchio percepisse. E io ricordo di aver pensato qualcosa del tipo ma cosa ne sai tu del disagio, ragazzina viziata, stupida oca egocentrica. Non sono mai morbida quando incontro, se non la stupidità, almeno le sue gratuite manifestazioni.
Disagio. Sentimento del sentirsi fuori posto, fuori corrente, fuori ascolto. In realtà è una parola che mi piace, di quelle che racchiudono interi mondi in poche lettere. Non ce ne sono tante di parole così, sono come termini eletti, perché esprimono non solo concetti ma anche stati d'animo. Beh, molti sono stati gli artisti e gli scrittori del disagio, e sembra che nelle loro opere si sia identificato un numero via via maggiore di persone. La mia percezione è che però non si tratti solo di una questione empatica, di identificazione e similitudine. Mi pare che spesso il tutto diventi atteggiamento autoconsolatorio, un crogiolarsi e glorificare la condizione di chi sta più in basso, a lato, comunque da un'altra parte della via. E allora il disagio è diventato pop. Una celebrazione invece che qualcosa di ombroso e relegato alle caverne interiori di ognuno. Fenomeno a tratti irritante, ma senz'altro interessante.
La seconda parola: genio. Mi sono spesso interrogata sul suo senso, quando qualcuno me la metteva sotto il naso associandola ad espressioni tutt'altro che geniali. Era come se qualcuno venisse da me con una macchinina e mi dicesse guarda che belle linee, che colore fiammante... poi quando la guidi è davvero il massimo. Di che cosa stiamo parlando? Non ti sei accorto che è solo un giocattolo? È come se queste persone girassero con degli occhiali deformanti nel cervello. Questo fatto di abusare delle parole è la manifestazione di un'allucinazione collettiva.
E a proposito di genio, credo di essere giunta alla mia personale conclusione. Il genio è colui che supera i propri pensieri attraverso le azioni. Quante volte si sentono riflessioni profonde, si leggono punti di vista rivoluzionari, si partecipa a momenti vibranti di promesse... e poi ci si scontra con realtà mille volte più bieche, basse, che vanno completamente da un'altra parte. Coloro che indossano gli occhiali allucinogeni confondono la sublimazione dell'azione con l'elevazione del pensiero. Per questo i geni sono davvero pochi. Perché tutti sono troppo bravi a raccontarsela, senza far seguire azioni o prodotti degni del pensiero che li avrebbe potuti generare. Invece troppo spesso vale come geniale il colpo, la boutade, l'intuizione. Quella non è che una scintilla, a cui dovrebbe seguire un incendio e non lo scoppio di un petardo da cortile.
Recentemente, ad Amsterdam, ho visto una bellissima mostra di Araki, il fotografo giapponese noto soprattutto per le sue immagini erotiche. Per la prima volta davanti a una serie di fotografie mi è venuto da piangere. Per la verità toccante, la straordinaria capacità di esposizione di sé, ben lontana dalla mera esibizione. Attraverso quelle immagini potevi sentire il suo pensiero, il suo cuore, il suo disagio. Il bondage, le modelle, certo. Ma soprattutto le foto della vita con la moglie, poi morta di cancro. Quelle del gatto. La metropolitana. Le composizioni di fiori e bambole rotte. Una serialità e una devozione incredibili. Non c'era quel malcelato atteggiamento autoconsolatorio volto a provocare compassione. Era la sua voce che diceva "eccomi, io sono questo, questo è il mio mondo reale e di fantasia", per quanto disorientante esso potesse essere. Non era sublimazione del disagio, ma fulgida rappresentazione di un'essenza. Araki è un genio perché non ti delude con uno scollamento tra pensiero e azione. Le sue fotografie riescono a stare al passo con la sua umanità e, infatti, toccano proprio dove lui muore. Perché tutte le opere di un vero artista sono al tempo stesso vita e morte, e non a caso questa è una dicotomia trasversale a ogni lavoro di Araki. Senza prepotenza, anzi con la delicatezza dirompente di chi ha davvero coraggio della propria verità.
Nessuno ha colpa di non arrivare a tutto questo; è soltanto un dono molto raro.

Araki @ Foam Amsterdam - Polaroids wall (1 of 3)

Araki @ Foam Amsterdam - Polaroids wall (detail)

giovedì 15 gennaio 2015

La città dei silenzi rotti

Le grandi finestre dei palazzi affacciano sui canali come occhi senza palpebre. 
La maggior parte delle case di Amsterdam manca di tende, persiane, tapparelle, grate. È tutto trasparente. I vetri più belli sono quelli più vecchi, un po' irregolari nella loro corsa verticale, e brillano d'imprecisione. 
Amsterdam è una città d'argento, una fiaba a cielo aperto. Uno scenario da pellicola in bianconero. I colori naturali, dai freddi marroni scuri ai beige più cremosi, è bene goderseli dal vivo.  
Non ho visitato una chiesa né un museo. Se hai poco più di due giorni, Amsterdam te la devi camminare. Procedi tenendoti il cappello sulla testa con una mano, il vento attraversa la lana fino alle orecchie. 
Le vetrine del quartiere a luci rosse sono tutte vuote, le tende tirate. Solo i neon all'esterno sono accesi, attraenti promesse del nulla. Sarà stata l'ora del tè anche per le prostitute. I sex shop pullulano di attrezzi dalla foggia sinuosa e il tocco setoso, ma non hanno nulla di veramente carnale, niente che stimoli davvero l'immaginazione. Nei coffee shop l'odore di ganja è lontano come una voce che chiama a tavola da un'altra stanza, tutto è ben aerato, i muri decorati nei modi più fantasiosi. Un signore distinto vende laudano e assenzio in un legnoso negozio in pieno centro, avvolgendo le belle bottiglie in fogli di carta a fiori acquerellati.  
Le persone girano anche senza berretto, spedite sulle loro biciclette con i freni a pedali. Non si fermano mai, è da loro che ti devi guardare quando attraversi il marciapiede. Senza luci, senza motore, non li vedi e non li senti. Di colpo si materializzano, da soli o in gruppo. Fuori dal centro, il reticolato delle strade offre solo edifici inclinati, ognuno diverso dall'altro, e strade perfettamente pavimentate. 
Ci si abitua in fretta a quel che di ovattato. Amsterdam é silenziosa ed elegante come una donna che porti a passeggio un cerbiatto. Non c'è segno di molestia, visiva o sonora. Tutto scorre sopra e sotto l'acqua che l'attraversa, ognuno va per la sua strada senza abbrutimento alcuno.

E mentre cammini tra queste vie in cui tutto sembra un delicato intreccio di morbida alienazione e rilassato libertinismo, insospettabile si fa strada un rombo nell'aria. Alzi la testa e nel giro di una decina di secondi ecco un aereo sorvolare basso la città. Cinque, dieci minuti e ne arriva un altro. Da sud-est verso nord-ovest, quasi sempre.  Gli aerei sono la bussola della città, quando ti perdi basta aspettare che ne passi uno per capire da che parte andare.  
Viene dall'alto l'unico suono forte di Amsterdam, il flusso che ne sovrasta i calmi equilibri. Ed è proprio qui, quando quelle grosse frecce si stagliano nel cielo nuvoloso, che la città mostra tutta la sua essenza di bianconero. 
Scenario ideale per un moderno Fellini. 





giovedì 8 gennaio 2015

The special need

The special need, lungometraggio di Carlo Zoratti, 2013.
C'è sempre da stare attenti quando si fa un post su un film, per non rovinare la visione a chi volesse procedere dopo la lettura. E non solo per quanto riguarda la trama, ma soprattutto per non prevaricare sulle emozioni altrui attraverso le proprie, che sono sempre un fatto personale che va a intessersi con il proprio vissuto. Ho deciso di parlare di The special need perché ha fatto risuonare domande che mi sono sempre fatta.
Ho un cugino affetto da sindrome di down e, seppure con relativa incostanza, siamo cresciuti insieme. Tra un paio di mesi compirà trentotto anni, ma è solo un numero. Il suo spirito sembra essere lo stesso da sempre. È uno showman, gli piace stare al centro dell'attenzione, è divertente, una vera forza. Quando i miei nonni mancarono, si trasferì con la famiglia nell'appartamento che era stato il loro, di fianco a quello dei miei. La finestra della sua camera, al primo piano, affacciava sull'ingresso del palazzo. Spesso, rientrando, mi capitava di vederlo in piedi dietro il vetro chiuso, a guardare fuori. Serio. Come assente. Mi sono sempre chiesta a cosa pensasse in quei momenti, quando non era in mezzo alla gente a fare il brillante. In tutti i giorni dell'anno in cui non c'era qualcosa da festeggiare, nelle lunghe ore in cui non c'era nessuno in casa.
Ha sempre avuto un po' un debole per me, mi diceva che ero bellissima e che ero la sua sposa. Non moglie, ma sposa. Poi ha smesso. Ma quando lo faceva io me lo chiedevo lui che idea avesse dell'amore, della donna, della compagna. Cosa sentiva, la sua pulsione era uguale a quella di tutti gli altri? Quanto speciale, o normale, era il suo bisogno? Me lo chiedo ancora oggi. Non ho mai osato domandarlo a lui.
Quello di Zoratti è un documentario che ha come protagonista Enea, un trentenne autistico che intraprende un viaggio, fisico e interiore, insieme a due suoi cari amici. La meta è quella più appassionante, destabilizzante ed eternamente misteriosa: la donna. "Bisogno", recita il titolo. Perché non si tratta solo di un desiderio, ma di una vera e propria necessità, quella di ogni essere umano - e in questo caso di un maschio - di conoscere l'amore, viverlo e goderne, con tutta la confusione che è propria di questo universo così delicato. Enea è proteso, con gioiosa ed erodente curiosità, verso un mondo da cui si sente (ed è, di fatto) respinto. Nonostante tutto, i suoi slanci sono ostinati, la sua fede non è mai davvero rotta dalla frustrazione.
Disabile è la parola che utilizzano i suoi due amici per riferirsi alla sua condizione, ed è qualcosa di cui personalmente non so molto e su cui preferisco non avventurarmi troppo qui, ma il racconto molto ben fatto del film induce a porsi diverse domande in merito. Fino a che punto Enea è cosciente della propria diversità, quanto è in grado di conciliare dentro di sé le risposte che il mondo dà alle sue domande, sia quelle del corpo che quelle della mente? Perché il corpo domanda anche per un disabile. Credo che nessun istinto dell'essere umano capace d'intendere e di volere cessi di pulsare nonostante tutto, e men che meno lo fa quello che porta ognuno alla ricerca di un compagno di vita. Cos'è che vuole Enea? Perché cerca una donna, veramente? La risposta arriva da più parti, nel film. Come suggerisce una voce femminile, il bisogno speciale va ben oltre quello di "svuotare il sacco", sessualmente parlando. Al contrario, Enea vuole riempirsi. Vuole una donna da amare, baciare, tenere per mano. Una che sia la sua. Una compagna. Ed è spiazzante come questo gli sia chiaro, così come è chiaro che il suo bisogno non sia il frutto di un condizionamento socio-culturale: non cerca una donna perché è ciò che fanno tutti intorno a lui, ma perché è il suo istinto, il suo io profondo a chiederglielo. E la sua ricerca è di una tenerezza senza pietismi, toccante, delicata e sincera. Anche goffa, incerta, agrodolce.
Il salto che il film ha il merito di fare è l'estendere tutto questo oltre i confini della disabilità, rendendo in fondo tutti uguali nei loro dubbi, nel valore dell'esperienza e nel contatto d'amore. Una bella impresa, e che impresa.

domenica 4 gennaio 2015

36

Da ieri ho trentasei anni.
A quest'età mia madre andava a vivere in Zimbabwe con marito e figli. Un Paese di cui ho relativamente pochi ricordi, ma quei pochi sono vividissimi. Ho una foto di me che rido accartocciata in una tinozza di poco più di mezzo metro di diametro che mi contendo con mio fratello, che ride anche lui mostrando le gengive.
Lorenzo mi suona ora nelle orecchie, è questa la vita che sognavo da bambino? Credo di no, credo che questa vita non me la immaginassi nemmeno, quando stavo in quella tinozza. Non ho calcato le orme che pensavo mi avrebbero portato ad avere una famiglia mia, o una scrivania da cui guardare un panorama di vetro e cemento.
Non mi aspettavo di tornare bambina dopo trent'anni da allora, a non preoccuparmi di cosa farò da grande. Perché proprio grande non mi ci sento mai, nonostante gli anni che passano.
Dopo tanto silenzio ho ripreso a studiare il pianoforte seriamente. Da meno di un mese mi misuro con un compositore tra i più complessi, avanzo di battuta in battuta mandandole a memoria con la fame che mi è sempre stata propria.
E poi mi sono comprata una batteria elettronica. Usata, di Foligno. Mi piace l'idea degli oggetti che circolano di mano in mano. Mi arriva domani, e temo che lascerà poco spazio ad altro. Perché se c'è una cosa che non cambia con il tempo è la fissa che mi prende quando metto le mani, la testa o il cuore su qualcosa che mi interessa davvero.
Ho quasi finito il disegno per un nuovo tatuaggio, che presto troverà posto sul braccio che scrive.
Ho cambiato il colore dei capelli, dopo tanto tempo che li volevo così: rossi, come il mio colore interiore. Mi ci sento benissimo, mi danno la luce giusta.
Il mio volto tutto è cambiato. E non solo per i capelli, io parlo proprio di ossa e volumi. Qualche giorno fa, a casa dei miei per Natale, mio padre mi ha chiesto di dare un'occhiata a un vecchio back-up fatto sul pc di Roma, che ancora era salvato su un hard-disk esterno. Salvare quello che ancora interessa, il resto si cancella. Ho portato via tutti i miei oggetti che ancora erano rimasti in quella casa, il cordone è ormai tagliato. Guardando nell'hard-disk, ho aperto qualche cartella di vecchie foto e quasi non mi sono riconosciuta. Il triangolo polposo del viso da ragazzina ha lasciato il posto a zigomi più prominenti e un profilo sfilato, un volto da donna. È la prima volta che riesco a vedere due immagini sostanzialmente diverse di me, come mi succede sempre quando guardo le foto di mio padre da ragazzo.
Anche io sto cambiando, e mi viene da dire finalmente. L'idea dell'invecchiamento non è più soltanto questione di una rughetta o qualche capello bianco, è proprio trasformazione globale. Non sei più lì a guardare solo in avanti, senza sapere cosa il futuro ti porterà. Sei tu che ti porti le cose, sempre più. Il passaggio dal sistema in cui spesso subivi scelte, persone e ambienti, a un altro in cui sei tu a selezionare, decidere, costruire come anche distruggere, è sempre più completo. L'atteggiamento di attesa e aspettativa diventa un sentire le cose in mano, ed è lì che sei chiamato a tenere o lasciare andare. Sei sempre più tu e solo tu a determinarti.
Forse partirò presto. Il mio Zimbabwe dei trentasei potrebbe essere in un altro continente, con un'altra durata e tutt'altre modalità. Ed è proprio quella fibrosa incertezza dell'avere le cose in mano l'essenza di tutto.