domenica 4 gennaio 2015

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Da ieri ho trentasei anni.
A quest'età mia madre andava a vivere in Zimbabwe con marito e figli. Un Paese di cui ho relativamente pochi ricordi, ma quei pochi sono vividissimi. Ho una foto di me che rido accartocciata in una tinozza di poco più di mezzo metro di diametro che mi contendo con mio fratello, che ride anche lui mostrando le gengive.
Lorenzo mi suona ora nelle orecchie, è questa la vita che sognavo da bambino? Credo di no, credo che questa vita non me la immaginassi nemmeno, quando stavo in quella tinozza. Non ho calcato le orme che pensavo mi avrebbero portato ad avere una famiglia mia, o una scrivania da cui guardare un panorama di vetro e cemento.
Non mi aspettavo di tornare bambina dopo trent'anni da allora, a non preoccuparmi di cosa farò da grande. Perché proprio grande non mi ci sento mai, nonostante gli anni che passano.
Dopo tanto silenzio ho ripreso a studiare il pianoforte seriamente. Da meno di un mese mi misuro con un compositore tra i più complessi, avanzo di battuta in battuta mandandole a memoria con la fame che mi è sempre stata propria.
E poi mi sono comprata una batteria elettronica. Usata, di Foligno. Mi piace l'idea degli oggetti che circolano di mano in mano. Mi arriva domani, e temo che lascerà poco spazio ad altro. Perché se c'è una cosa che non cambia con il tempo è la fissa che mi prende quando metto le mani, la testa o il cuore su qualcosa che mi interessa davvero.
Ho quasi finito il disegno per un nuovo tatuaggio, che presto troverà posto sul braccio che scrive.
Ho cambiato il colore dei capelli, dopo tanto tempo che li volevo così: rossi, come il mio colore interiore. Mi ci sento benissimo, mi danno la luce giusta.
Il mio volto tutto è cambiato. E non solo per i capelli, io parlo proprio di ossa e volumi. Qualche giorno fa, a casa dei miei per Natale, mio padre mi ha chiesto di dare un'occhiata a un vecchio back-up fatto sul pc di Roma, che ancora era salvato su un hard-disk esterno. Salvare quello che ancora interessa, il resto si cancella. Ho portato via tutti i miei oggetti che ancora erano rimasti in quella casa, il cordone è ormai tagliato. Guardando nell'hard-disk, ho aperto qualche cartella di vecchie foto e quasi non mi sono riconosciuta. Il triangolo polposo del viso da ragazzina ha lasciato il posto a zigomi più prominenti e un profilo sfilato, un volto da donna. È la prima volta che riesco a vedere due immagini sostanzialmente diverse di me, come mi succede sempre quando guardo le foto di mio padre da ragazzo.
Anche io sto cambiando, e mi viene da dire finalmente. L'idea dell'invecchiamento non è più soltanto questione di una rughetta o qualche capello bianco, è proprio trasformazione globale. Non sei più lì a guardare solo in avanti, senza sapere cosa il futuro ti porterà. Sei tu che ti porti le cose, sempre più. Il passaggio dal sistema in cui spesso subivi scelte, persone e ambienti, a un altro in cui sei tu a selezionare, decidere, costruire come anche distruggere, è sempre più completo. L'atteggiamento di attesa e aspettativa diventa un sentire le cose in mano, ed è lì che sei chiamato a tenere o lasciare andare. Sei sempre più tu e solo tu a determinarti.
Forse partirò presto. Il mio Zimbabwe dei trentasei potrebbe essere in un altro continente, con un'altra durata e tutt'altre modalità. Ed è proprio quella fibrosa incertezza dell'avere le cose in mano l'essenza di tutto.


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