lunedì 31 ottobre 2011

Within #10

Dopo nove uomini, una donna. Anzi, la donna: Anna. Avrete sicuramente già letto di lei in questo blog, ma se siete nuovi da queste parti vi basti sapere che è la mia Musa. E' l'unica persona che ho bisogno di fotografare sempre, ogni volta che la vedo. Mi prudono proprio le mani. Perchè voglio portarla con me anche quando non condividiamo lo stesso spazio fisico, e anche per rendere evidente, sulla carta, quanto meriti di essere fotografata. Almeno, da me. Quando mi accorgo di aver catturato qualcosa di suo provo una sensazione di orgogliosa vittoria, perchè sento di averla immortalata per sempre - cosa che generalmente non è il mio scopo nel fotografare. Più è importante chi ho davanti, più avverto quel senso di rapimento dell'altro.

Questo è il brano che ha scelto. Un pezzo grintoso, bello rock. Altro che canzoncina melodica da donnette. Eppure nelle pose non c'era nessuno degli stereotipi che la musica potrebbe suggerire: niente pose aggressive, nessuna recitazione. Anna come sempre si è rapportata pienamente con me, non con la musica o qualunque altro elemento dell'ambiente circostante. Nel fotografarla ero un po' come un animale: mi accovacciavo, strisciavo, gattonavo, mi avvicinavo e mi allontanavo trascinando il mio corpo come se non fosse che un'appendice di me. Tanto che a un certo punto lei ha iniziato a farmi da specchio, assumendo le mie stesse posizioni, e allora mi sono accorta che più che scattare foto sembrava che io facessi pilates... In generale, più mi dimentico di me stessa e più mi metto in gioco nelle foto, quindi ben venga il pilates.
Oggi Anna era felice, non aveva mai sorriso così tanto. Le ho scaricato addosso cinque rulli, a un ritmo piuttosto sostenuto. Ho posato la macchina solo per un momento, breve e lungo al tempo stesso.
Devo ammettere che in questo caso non mi è così chiaro quale sarà la foto che sceglierò, perchè i momenti rivelatori sono stati molti.
Quando ho finito, Anna mi ha mostrato le tavole con i suoi disegni: è stato come trovare la coincidenza dei tratti grafici con quelli caratteriali. I suoi acquerelli mi sono piaciuti molto, così come gli schizzi a matita. Le ho chiesto di ritrarmi. Ha preso carta e grafite e per una ventina di minuti siamo state ferme e in silenzio, studiandoci a vicenda. Lei alzava e abbassava gli occhi a intervalli regolari e dalla direzione del suo sguardo cercavo di indovinare quale parte del mio viso stesse disegnando. Intanto pensavo alle foto fatte poco prima, a quello che ci eravamo trasmesse, a ciò che ne avrei scritto in seguito - poco, rispetto a quello che è stato e a ciò che lei è per me. Il fatto è che alla fine la fotografia la capisce fino in fondo solo chi genera lo scatto, da entrambe le parti. E a volte non la si capisce neanche: accade e basta, come la sintonia tra due persone.

domenica 30 ottobre 2011

Within #9

Alek è uno dei miei migliori amici. Abbiamo fatto insieme il percorso attraverso la fotografia: lui, ben più giovane di me, ha sempre avuto le idee chiarissime, mentre io per lungo tempo ho brancolato nel buio prima di trovare la mia strada. Siamo stati fianco a fianco per un anno intero e anche dopo la fine dell'Accademia il nostro rapporto è cresciuto nonostante la distanza fisica. E' una delle poche persone di cui mi fido ciecamente e gli voglio un bene enorme e incondizionato.

Da tempo volevamo ritrarci a vicenda, ognuno a modo proprio. Laddove io ho optato per l'assenza di parole, lui ha scelto di non illuminarmi. Ci siamo trovati l'uno di fronte all'altra nel buio più totale, con la macchina sul cavalletto. Un solo scatto, trenta secondi di esposizione. Due scintille di fuoco sono state la sola fonte di luce per catturare le mie espressioni. L'unico suono era quello della sua voce, in sette brevissime frasi. Guardatela, ma non capirete ugualmente quel mentre. Rimarrà nostro per sempre.

E poi è venuto il mio turno. Alek non solo ha scelto i Coldplay, uno dei miei gruppi preferiti, ma anche una traccia alla quale sono molto affezionata: Fix you. Con lui non ho davvero emesso una sola sillaba. Ci siamo messi sul suo letto, abbiamo scattato e cantato insieme. Ci siamo abbracciati e tenuti per mano.
Io un amore così lo invidierei, se non lo avessi.

mercoledì 26 ottobre 2011

Chi sono

Pensare, osservare, cercare, studiare, analizzare, discutere, confrontare, provare, sbagliare, piangere, ricominciare. Tutto così per mesi, anni. Un giorno ti svegli, riesci a vedere quel percorso in tutta la sua interezza e capisci quanto sei cresciuto. Sai che anche in quel momento sei pur sempre nel mezzo tra il tuo passato e il tuo futuro, che molte cose ancora cambieranno. Ma non importa, resti concentrato su quello che hai lì con te: la tua identità. Dico sempre che ogni ritratto di Within/Dentro è un'esperienza che mi fa scoprire un pezzetto di me stessa, dei miei soggetti e del nostro rapporto, ma devo ammettere che probabilmente nessuna finora era stata determinante quanto l'ultima. Il che è abbastanza paradossale, perchè fino a sabato Moreno per me era un completo sconosciuto. Prendete una persona che non avete mai visto, chiudetevici in una stanza per tre ore e raccontatevi a lei senza filtri. Ascoltatela, provate a capire cos'ha dentro. Ma soprattutto guardatela fisso negli occhi, senza abbassarli. Vincere la paura di rivelarsi agli altri è un passo fondamentale per qualunque essere umano. Lo è ancora di più quando si vuole comunicare attraverso mezzi come la fotografia. E' arrivato il momento di guardarvi negli occhi come se foste tutti in una stanza con me. Quello che penso un po' lo conoscete già; chi sono è qui.

lunedì 24 ottobre 2011

Within #8

Entro in casa sua e subito mi accorgo che non è né l'abitazione di un single né quella di una coppia, ma un mondo che, plasmato sulla dimensione dei bambini, restituisce nitidezza al ricordo dell'infanzia di ognuno di noi. Alla mia destra c'è lo spazio dei giocattoli, delimitato da un piccolo recinto di legno, ma le tracce dell'universo piccolo sono dappertutto. Tutti dormono, ma si respirano vita e calore ovunque mi giri. Mi rinfresco in bagno e l'occhio cade immediatamente su una piccola libreria di fianco al lavandino, dove, tra gli altri, stazionano Epicuro e Manzoni. Non c'è dubbio, qui abita uno scrittore: Moreno Pisto.

Questo suo post è la ragione per cui ho deciso di contattarlo, una settimana fa. Così, senza pensarci un momento di più, via e-mail. A istinto ho pensato che in un certo senso parlavamo la stessa lingua e infatti ha subito accettato di fare questo ritratto. Per me era il primo Within con una persona del tutto sconosciuta - abbiamo solo qualche conoscenza in comune, tramite cui sono arrivata al suo blog. Era tempo che volevo misurarmi su questo terreno: mettermi alla prova senza il vantaggio della confidenza amicale - sebbene quest'ultima non sia sempre una facilitazione, quando si fa un ritratto.

Parto da Roma in tarda mattinata e Moreno viene a prendermi alla stazione di Pescia, il paese in provincia di Pistoia dove vive. La prima cosa che noto della sua persona è che è ha una gentilezza genuina, un fare aperto e curioso. Ancora prima di salire in macchina ho già la sensazione che il ritratto riuscirà. Scegliamo di scattare nel suo regno: il posto dove scrive. E' una stanza al piano di sotto, in pietra grezza e muratura bianca, con una lampadina al centro, una scrivania, i due quadri di Love appesi alle pareti e una piccola finestra che illumina i contorni di un divano in broccato color ocra. Il contrasto tra la ricchezza visiva del tessuto e l'essenzialità dell'ambiente circostante mi conquista immediatamente. Decido di restare nella penombra, perché quella poca luce naturale è perfetta per i miei scatti. Carico la pellicola, imposto il tiraggio e poso la macchina sul tavolo. Parliamo a lungo, intanto che mi abituo a quello spazio. Ovunque proteggi di Vinicio Capossela si ripete all'infinito, amalgamandosi con discrezione alle pareti. Osservo i movimenti di Moreno, le sue espressioni. Le parole si accavallano, i fili dei discorsi s'intrecciano, inerpicandosi fino a perdersi - come siamo arrivati a parlare di questo? La cifra è da subito introspettiva e i pensieri affiorano stimolati dalla densità del confronto. Lui ci registra dal primo momento: parole, passi, pause. I miei appunti sono invece negli occhi e, poi, nella macchina fotografica - a ognuno il suo. Il silenzio arriva quando deve, lentamente, senza fretta. Scattiamo per un tempo indefinito, un'ora, forse due: non me ne rendo conto. Ci mettiamo qua, ci spostiamo là. In piedi, seduto, inginocchiato. Moreno capisce perfettamente quello che sto facendo nel momento in cui lo sto facendo. Tiene lo sguardo quando intuisce che è giusto per me, ripete un gesto, mi asseconda. Non prevarica, nè lo faccio io con lui: siamo sullo stesso piano, anche perchè senza parole è molto più difficile chiedere all'altro: deve quasi nascere da sè. E' questa la sfida del mio progetto, il senso del contatto sta qui: tutto si trasferisce su un altro livello, e se lì non c'è intesa è finita. Quando arriva lo scatto ce ne accorgiamo entrambi e istintivamente emetto un suono gutturale, a cui lui risponde nello stesso modo. Ogni tanto ci raggiunge sua figlia, che pare aver perso la testa per me perchè da quando mi ha visto non ha smesso un momento di farmi le feste. E' tenera da sciogliersi. Li ritraggo insieme, poi ci fotografa lui. Finisco i miei cinque rulli sapendo di avere già le foto che voglio, ma andrei avanti ancora, c'è troppo gusto. Mi passa la sua G12 e ricomincio a scattare, ora in maniera completamente diversa, tecnicamente più sporca: uso il flash, il mosso; la luce è accesa, fredda, la metto in controluce o appena sopra di lui, a indurire le ombre. Sfoco il primo piano, compongo in maniera solo apparentemente disattenta. Anche il mood delle foto cambia, esce un altro dentro di Moreno, più aggressivo e determinato. Sapeva che avevo un'idea rimasta ancora irrealizzata e me ne regala il gesto senza che nemmeno glielo chieda. Stiamo giocando, ormai. Il tempo passa, e noi ancora là sotto con le macchinette. Smettiamo solo quando ci vengono a reclamare dal piano di sopra, tre ore dopo il mio arrivo. Prima di risalire, mi regala il suo libro appena pubblicato e un altro che gli prometto di recensire, sul rapporto tra fotografia e letteratura.
Questi alcuni degli scatti con la G12, le altre in pellicola arriveranno tra qualche tempo.

Questo è quanto, almeno per ciò che riguarda le foto. Tanto altro ci sarebbe da dire su quella famiglia, sull'amore che girava, sul molto che ho intuito senza che nessuno lo verbalizzasse, su di lui e sui messaggi che passano nel suo libro, che ho divorato in meno di ventiquattro ore. Ma queste cose rimarranno tra noi, vere e piene. Qui riporterò solo ciò che ho detto anche a lui ieri, al termine della mia lettura: Moreno fa sembrare il coraggio più a portata di mano di quanto non si pensi.
Adoro non sbagliarmi sulle persone: quelle autentiche si lasciano riconoscere subito, con una generosità priva di reticenze, persino da poche righe su un blog.

giovedì 6 ottobre 2011

Mind.eejay

Domenica 11 settembre mi trovo in una camera d'albergo a Cesena. Come di consueto, mi sveglio con una musica in testa e questa volta si tratta di Rain dei Beatles. Prima di truccarmi indosso le cuffie e accendo l'iPod in riproduzione casuale, con l'intenzione di ascoltare quella canzone più tardi. 2 Gb di musica, con una probabilità su oltre 200 che quel pezzo suoni. Alle prime note riconosco Rain e rimango immobile di fronte allo specchio a chiedermi come sia possibile che me la sia "chiamata" in quel modo.

Questa mattina apro gli occhi nella mia casa romana e subito inizia a suonarmi in testa Occhiali rotti di Samuele Bersani. Sollevo lo schermo del Mac, attacco le cuffie senza fili, faccio partire iTunes, sempre in riproduzione casuale, e vado a mettere su la colazione. Finisce l'ultimo brano di ieri sera e, tempo trenta secondi, inizia Occhiali rotti. Ok i 2 Gb dell'iPod, ma sul Mac ho veramente migliaia di brani musicali: com'è possibile che fra tutte sia partita proprio quella canzone?

Mentre bevo il caffè mi viene da fare una riflessione forse poco lucida vista l'ora, però mi chiedo: non è che questo mio "chiamare" certi brani musicali - ho fatto questi due esempi perchè più recenti e relativamente ravvicinati, ma non sono certo le prime volte che mi capita - ha qualcosa a che fare con l'energia del pensiero? Io sono un tipo mediamente fatalista, nel senso che per certi versi credo che esista qualche forma di attività cosciente all'interno delle nostre vite da parte di quello che possiamo chiamare caso - qua dentro il concetto di Dio non ha i documenti in regola per circolare - ma onestamente non ho mai letto nulla in materia, nonostante essa sia stata oggetto di studio un po' in tutte le salse. Penso però che le convinzioni che abbiamo finiscano spesso per influenzare gli eventi e questa mattina, mentre ancora incredula ascoltavo Occhiali rotti, ho provato ad allargare il ragionamento: se iniziassi a "chiamare" davvero quello che dico di volere, probabilmente prima o poi mi arriverebbe. Il mio problema è che in realtà continuo ad attrarre l'esatto contrario, perchè sotto sotto non credo veramente nella possibilità che possa accadere ciò cui aspiro. Nel momento in cui imparerò a sconfiggere la paura di realizzarmi e perderò l'abitudine di dirmi di no, sarò anche in grado mixare col pensiero come una provetta Mind.eejay.

lunedì 3 ottobre 2011

Arma bianca

Se è vero che ne uccide più la lingua che la spada, oserei aggiungere che peggio della lingua fa solo una bocca chiusa.

If it is true that the tongue is more to be feared than the sword, I would add that worse than the tongue does only a shut mouth.

domenica 2 ottobre 2011

L'eccezione

Ieri sono stata su fino alle 4.30, perchè nel pomeriggio avevo ritirato i provini del Within #7 e a tarda notte mi sono dedicata a una delle mie operazioni preferite in assoluto: seduta sul lettone con della buona musica, dispongo tutte le foto e faccio la mia selezione. In questo caso, su tre rulli scattati tutta la vera "ciccia" stava nel secondo. Ora, io sono estremamente severa nel giudicare le mie foto, ma tra quelle ne ho tirate fuori ben 3+3 buone. Sei? Non proprio. Perchè tre sono molto simili tra loro e sono state scattate a pochi secondi l'una dall'altra, eppure raccontano tre cose diverse. Fra queste tre c'è la mia scelta: è sfocata e anche leggermente mossa. Tutte le altre foto sono tecnicamente giuste e questa è l'unica sbagliatina. Forse è per questo che l'ho scelta? Può essere, perchè in realtà con l' "errore" si è amplificata la tensione emozionale della foto. Per me questa foto si muove. Viene verso di me, in quegli occhi c'è qualcosa di indecifrabile: è la luce che segue un sorriso, ma non è neanche un sorriso che muore. E' vibrazione, è un dentro che esce: per questo l'ho scelta. E anche perchè lui non guardava in macchina, ma l'altro mio occhio libero dal mirino.
Faccio un'eccezione alla regola per cui tutti i Within/Dentro sarebbero stati pubblicati insieme e a tempo debito, ma mi sento di condividere adesso e qua dentro il piacere di guardare questo ritratto, che forse mi avrà già stancato fra tre giorni, ma ora mi pare uno dei migliori che abbia fatto.

Cliccare per ingrandire.