sabato 28 dicembre 2013

2013 >> 2014

Saranno trentacinque tra una settimana, i miei. Per gli ultimi tre ho considerato seriamente di tornare a vivere a Milano, ma solo questo è stato decisivo.
Scrivo dalla mia nuova casa, al piano di sopra. Il soffitto a travi dipinte di bianco è a poco più di un metro dalla mia testa, e guardandolo mi accorgo di riconoscere già la sua trama, i nodi del legno e quel chiodo piantato in corrispondenza del centro del letto. Chi ce l'avrà messo, e perché? Ovunque guardi ci sono segni di decisioni prese prima del mio arrivo, e non ci ero più abituata. Eppure mi sembra che questa casa non possa essere stata vissuta che da me. Ci sto da meno di tre mesi, ma è già piena di vita. E' il posto che mi serviva per ricominciare, e per stare dentro di me ho avuto bisogno di stare dentro di lei. Non ho vissuto Milano come mi sarei aspettata - niente è mai come ci si aspetta, bisognerebbe proprio smetterla di aspettarsi le cose. Ho avuto nuova musica, nuove facce, nuova luce, nuove strade. L'azienda per cui lavoravo mi ha dato ancora lavoro, e grazie a questo riesco a dedicare quasi tutto il mio tempo ad altro. Mi sveglio ogni mattina senza sapere cosa farò. Non ho orari. Se la notte ho voglia di scrivere, lo faccio anche oltre le quattro. Vedo molte più notti che mattine.
L'acqua è il mio elemento, nuoto quasi ogni giorno.
Sto portando avanti nuovi progetti. Ho iniziato a scrivere il mio primo romanzo, sono nella fase di ricerca. La trama, sebbene ancora tutta da costruire, ha una struttura per scatole cinesi con infinite possibilità. Mi trovo nella posizione privilegiata di chi ancora non ha ancora tracciato la linea che collega le stelle in costellazioni, e ogni disegno è ancora possibile.
Sto scattando un progetto personale che (r)accoglie le persone che frequentano la mia casa. Ritratti in bianco e nero, pellicola. Una sorta di album di famiglia a mia misura. Immagini che parlano chiaro, fatte in modo molto semplice e immediato, e che credo raccontino bene il mio rapporto con i diversi soggetti. Ho in mente altri due progetti fotografici, uno di ritratto e un altro completamente diverso da quanto ho fatto finora. Vedrò di realizzarli a partire da gennaio. Per ora, le foto di cui sono più soddisfatta sono una serie di ritratti scattati a ottobre, credo tra i più veri che abbia mai fatto. Poi ci sono alcuni autoritratti, e anche quelli sono diversi da prima.
La maggior parte del tempo la impiego studiando libri di autori che mi possano essere utili a tirare fuori il mio sentire. Al momento sono su Salinger, al terzo libro - Nove racconti. Ho già scritto di questo autore per Franny e Zooey, ed è interessante vedere come lo stesso talento sappia declinarsi anche nel breve di una ventina di pagine per ogni racconto.
Ho una vita sociale soddisfacente e ricca di stimoli. Frequento amici di più o meno vecchia data, e tutti sanno stupirmi, ognuno a suo modo. Rido molto e taglio rami secchi. Il lavoro più importante che sto facendo è quello di concentrarmi su quello che voglio io, prima di quello che vogliono gli altri. Non è per niente facile, ma ci provo.
Questo un po' per rispondere a quanti mi chiedono notizie della mia nuova vita, ma anche per ringraziare. Innanzitutto me stessa, per il regalo più prezioso che un essere umano possa farsi: il tempo per se stesso. E parlando di regali, credo che ogni cosa e persona che incontriamo lo sia, nel bene e nel male.
Ringrazio quindi chi si è rifiutato di lasciarmi morire laggiù, aiutandomi a trovare il coraggio per il grande passo. Il percorso fatto con lui resterà, in ogni aspetto, indimenticabile.
Ringrazio colei che, a Roma, ha creduto in me e ha saputo spingermi a usare i miei talenti, pur andando contro il proprio più immediato interesse di capo. La sua energia mi arriva ancora oggi.
Ringrazio l'amico più diverso da me che potessi avere, perché è con lui che ho ritrovato il sorriso che tanto mi era mancato. Nessun giudizio, solo ispirazione.
Ringrazio le mie tre donne: Monica, Diana e Xolani. La vera amicizia prescinde dalle distanze, dai tempi e dalle modalità.
Ringrazio la voce della mia coscienza, nella speranza di dirgli, prima o poi, qualcosa che non sappia.
Ringrazio anche le presenze più discontinue, quelle ritrovate e quelle che partono per ritornare. Sono continue conferme. Ringrazio anche chi è sparito - sono conferme anche quelle.
Non per ultima, ringrazio la mia famiglia, che mi ha supportato in ogni modo nonostante le parziali perplessità. C'è molto da fare e non sarà una passeggiata.

Questo è stato l'anno della svolta, il prossimo sarà quello delle realizzazioni.
Buon anno anche a voi.

venerdì 20 dicembre 2013

Franny e Zooey

Scrivi per piacere a una sola  persona. Se apri la finestra e fai l'amore con il mondo, per così dire, la tua storia si prenderà una polmonite.
Lo scriveva Kurt Vonnegut nel suo Otto consigli per scrivere una grande storia, e l'ho sempre pensato anche io. Voglio dire, non proprio la storia della polmonite eccetera, ma nell'avvicinarmi al foglio bianco ho sempre scritto, più o meno consapevolmente, per una persona specifica. Che fosse reale o parzialmente immaginata non era importante, ma c'era sempre. Il fatto è che quando scrivi hai una voce, e normalmente la usi per farti sentire da qualcuno. Se parli da solo in una stanza si potrebbe pensare che non sei del tutto a posto, anche se io non sono affatto d'accordo. Uno scrittore che non parlasse da solo non si potrebbe dire tale, secondo me. I libri sono le trascrizioni fisiche delle conversazioni che avvengono tra le sue tante voci interiori.
Quanto al destinatario della propria scrittura, non si può dire che lo stesso approccio uno-a-uno valesse anche per J.D. Salinger - almeno negli anni settanta, quando il suo ritiro a vita privat(issim)a a Cornish assunse le caratteristiche di un isolamento quasi totale. Continuava a scrivere regolarmente, ogni mattina, e pare che avesse completato ben due romanzi che però decise di non pubblicare mai. Non pubblicare mi dà una meravigliosa tranquillità… Mi piace scrivere. Amo scrivere. Ma scrivo solo per me stesso e per mio piacere. Egoisticamente parlando, non sono grata a Salinger per essersi tenuto nel cassetto le sue opere più mature, perché nel leggere la sua produzione ho sinceramente ringraziato questo autore per aver scritto dei libri. Per aver concesso a tutti il privilegio di avvicinarsi al talento straordinario che aveva e goderne come davanti a una sublime opera d'arte. Detesto la parola "sublime" quasi quanto "opera d'arte", ma ci siamo capiti.
Quella dei libri di Salinger è in realtà per me una rilettura, perché due fra i suoi romanzi che sto studiando li avevo già letti tanti anni fa. Ho iniziato dalla panna in cima alla coppa, e non poteva che essere Il giovane Holden. Non occorre che ne parli, credo. Voglio dire, tutti l'hanno letto e ne conoscono l'inattaccabile bellezza. Quello che ho appena finito è invece Franny e Zooey, parte della saga sulla famiglia Glass che Salinger scrisse in seguito. Quando l'ho ripreso in mano dalla libreria a casa dei miei, mi sono saltati all'occhio due particolari: che il prezzo era ancora scritto in Lire e che c'era una piccola orecchia verso pagina 140, cioè a una trentina di pagine dalla fine. Quindi non solo non l'avevo finito, ma avevo resistito quasi fino all'ultimo. Perché quest'insensatezza nel fermarmi a trenta senza fare trentuno? In effetti ricordo che ai tempi - parlo più o meno dei miei sedici anni, o almeno credo - non mi entusiasmò molto. E' chiaro, avevo appena letto Holden e volevo il bis. Invece Franny e Zooey era molto diverso, e le mie aspettative adolescenziali erano state in qualche modo disattese. Se dovessi fare un paragone culinario, direi che Il giovane Holden potrebbe essere una lasagna - il grande classico, ricco nell'insieme dei suoi sapori, immancabile su ogni tavola almeno una volta l'anno così come presente in ogni libreria domestica che si rispetti - mentre Franny e Zooey è un sauté di cozze. Quello che ti ci devi mettere con un po' più di buona volontà, insomma. E però il sapore è più raffinato, mangi direttamente dai gusci, e ogni tanto ti colano lungo i lati della bocca i rivoli del guazzetto, come le tante letture tra le righe che emergono, sottili, dalla narrazione. 
Franny e Zooey è un capolavoro di finezza per quanto attiene principalmente a due aspetti: la fotografia e i dialoghi. L'intero libro si compone di sole quattro scene, di cui la prima è una specie di antefatto rispetto alle altre tre. Non c'è praticamente trama, è un libro tutto-personaggi. Parlo di fotografia e non di semplice ambientazione, perché tutto quello che fa parte dell'inquadratura di Salinger in un dato momento non solo descrive ma, di più, esprime la storia in una maniera incredibilmente esaustiva, con pochi ma precisi tratti. Non una parola di troppo, né una di meno. L'autore dissemina il set di particolari come se componesse a ritroso la scena di un crimine non solo immaginato, ma vissuto in prima persona. Nessun movimento è casuale, nessun oggetto è inventato, la ricchezza di particolari mai banali è impressionante. Chi scrive è in qualche modo già stato lì, ha visto o posseduto ogni cosa. Gli spostamenti dei personaggi all'interno della stanza sono misurati nelle loro esitazioni, e ogni azione è al servizio della rivelazione del personaggio che la compie. Le sue immagini sono essenziali, eppure efficacissime.

Zooey s'interruppe. Diede un'occhiata a Franny che giaceva prostrata sul divano con la faccia sul cuscino, e sentì, forse per la prima volta, i suoi singhiozzi d'angoscia solo in parte smorzati. Diventò pallido di colpo: pallido d'ansia per lo stato di Franny e pallido, probabilmente, perché il fallimento aveva d'un tratto invaso la stanza con il suo puzzo sempre nauseante. Il suo pallore, tuttavia, era d'un bianco stranamente puro, non mescolato cioè con le sfumature gialle e verdi della colpa o della contrizione abietta. Ero lo stesso bianco del volto esangue d'un ragazzino che ami gli animali alla follia, tutti gli animali, e che abbia appena visto l'espressione della sua tenera sorellina prediletta, nel momento in cui apriva la scatola del regalo di compleanno che lui le aveva fatto: un giovane cobra appena catturato, con un nastrino rosso intorno al collo goffamente legato a farfalla.

L'invasione genitoriale è la ferita principale che sottende l'intera vicenda, ed è incarnata dalla madre Bessie: questa donna che non capisce, che non vuole sentire - con le orecchie e con il cuore. Che parla per sentito dire, che continua a rimproverare ai figli mali che sono invece conseguenze dei suoi errori, e che vede in una tazza di brodo di pollo la panacea di tutti i mali. Quasi tutto si esprime nella lunga scena che vede lei e il figlio Zooey nella stanza da bagno. Lui tenta in ogni modo di liberarsi di lei, che invece resta nella camera, completamente sorda ai suoi pur risoluti tentativi di allontanarla e recuperare una privacy fisica e mentale. E' un continuo dondolare tra un discorso e l'altro, inframmezzati da silenzi di colla e sigarette che si spengono da sole, abbandonate sulla ceramica. 
I figli sono consci di essere rimasti incastrati nell'immagine che il mondo si è fatto di loro, bambini-prodigio protagonisti di un programma radiofonico - Ecco un bambino eccezionale, titolo che basterebbe da solo a mandarli tutti in analisi per anni. L'educazione anormale provoca in loro turbamento, insofferenza, rabbia, crisi mistiche. I due protagonisti sono tra loro complici e nemici al tempo stesso, in quel particolare e benevolo rapporto di amore-odio che può esistere solo tra fratelli.
Salinger è caustico, pungente, non si risparmia. Critico, certo, ma mai gratuito o distruttivo per il mero gusto di sferrare un colpo ad effetto. Molte sue osservazioni, fatte passare attraverso i dialoghi tra i fratelli Glass, parlano direttamente al lettore, e in maniera sempre sincera e profonda. Il modo in cui fa uscire il suo pensiero da ogni bocca non è mai invadente, ma chiaramente percepibile da chi legge con attenzione. Si nota poi che spesso alcune parole sono scritte in corsivo (o anche solo alcune sillabe), per sottolineare determinate cadenze. Mi sono chiesta come questo fosse stato reso nella lingua originale, e probabilmente nella traduzione se n'è persa un po' l'incisività.

(Franny, ndr) Era ancora più pallida, più postoperatoria, per così dire, di quando s'era svegliata. - Non so come (Lane, ndr) abbia fatto a non spararmi, - riprese. - Se l'avesse fatto, ti assicuro che mi sarei congratulata con lui.
- Questo me l'hai già detto ieri sera. Non voglio reminiscenze stantie, stamane, sorellina, - disse Zooey e riprese a guardare fuori dalla finestra. - Prima di tutto, quando cominci a prendertela con le cose e con la gente invece che con te stessa, sei fuori strada. Lo siamo tutti e due. Anch'io faccio lo stesso con la televisione, me ne rendo conto benissimo. Ma è sbagliato. Siamo noi. Non faccio che ripertelo. Perché sei così testona e non vuoi capirlo?
- Non sono così testona, ma tu continui…
- Siamo noi, - ripetè Zooey, dandole sulla voce. - Siamo degli anormali, ecco cosa siamo. Quei due bastardi ci hanno presi per benino da piccoli e hanno fatto di noi degli anormali con delle idee da anormali, ecco tutto. Siamo come la Donna Tatuata, e non avremo un minuto di pace per il resto della nostra vita finché tutti gli altri non saranno tatuati anche loro -. Si portò il sigaro alle labbra, con qualcosa di più che un'ombra di contrarietà sul volto, e aspirò, ma il sigaro s'era spento. - E soprattutto, - riprese subito, - abbiamo i nostri complessi del "Bambino Eccezionale". Non siamo mai usciti veramente da quella dannata radio. Nessuno di noi. Noi non parliamo, dissertiamo. Non conversiamo, diamo spiegazioni. Almeno, io faccio così. Nell'istante in cui mi trovo in una stanza con qualcuno che abbia orecchie in numero normale, mi trasformo in un veggente o in uno spillo umano. Il Principe dei Rompiscatole. Ieri sera, per esempio. Giù al San Remo. Ho continuato a pregare che Hess non mi dicesse la trama del nuovo copione. Sapevo benissimo che ne aveva uno. Sapevo benissimo che non sarei uscito di là senza un nuovo copione da portarmi a casa. Ma continuavo a pregare che mi risparmiasse un'anteprima a voce. Lui non è stupido. Sa benissimo che mi è impossibile tenere la bocca chiusa -. Zooey si girò di scatto, con violenza, senza togliere il piede dal davanzale della finestra, e raccolse, agguantò anzi, un pacchetto di fiammiferi dallo scrittoio della madre. Tornò a guardare fuori dalla finestra il tetto della scuola, e si rimise il sigaro tra le labbra, ma solo per toglierlo di nuovo. - Comunque, vada al diavolo, - disse. - E' così stupido che ti spezza il cuore. E' come tutti gli altri della televisione. E di Hollywood. E di Broadway. Secondo lui tutto ciò che è sentimentale è tenero, tutto quel che è brutale è realistico, e tutto quel che si risolve in violenza fisica è il culmine logico di qualcosa che non è nemmeno…
- Gli hai detto tutto questo?
- Certo che gliel'ho detto! Ho appena finito di dirti che non so tener la bocca chiusa. Certo che gliel'ho detto! L'ho lasciato là seduto a desiderare d'esser morto. O almeno che uno di noi due fosse morto. Accidenti, spero che si trattasse di me. Comunque è stata un'uscita dalla comune degna del San Remo -. Zooey tolse il piede dal davanzale. Si girò con un'aria tesa e insieme agitata, spostò la sedia a schienale rigido da sotto e si chinò in avanti irrequieto, con tutte e due le braccia sul piano di ciliegio. Vicino al calamaio, c'era un oggetto che sua madre usava come fermacarte: una piccola sfera di cristallo sopra una base di plastica nera, con dentro un omino di neve col cilindro in testa. Zooey lo prese, gli diede una scossa e rimase a guardare il turbinio dei fiocchi di neve. 
Franny lo guardava, riparandosi gli occhi con una mano. Zooey era seduto proprio al centro del più grosso fascio di luce che entrava nella stanza. Per continuare a vederlo bene, lei avrebbe potuto spostarsi sul divano, ma così avrebbe disturbato Bloomberg (il gatto, ndr), che le stava in grembo e sembrava dormisse. 
- Hai davvero l'ulcera? - gli chiese tutt'a un tratto. - Mamma dice che hai l'ulcera.
- Sì, ho l'ulcera, santo Dio! Siamo ai tempi di Kaliyuga, sorellina: Età del Ferro. Chiunque abbia più di sedici anni e non abbia l'ulcera è una maledetta spia -. Scrollò ancora, con maggior vigore, l'omino di neve.

Il rischio di un romanzo strutturato come questo, con lunghi, claustrofobici e vorticosi dialoghi, potrebbe essere quello di una narrazione pesante. Eppure Salinger pare possedere sempre il contrappeso perfetto per mantenere la bilancia in equilibrio. Conosce il bilanciamento tra pieni e vuoti, e gestisce il ritmo della narrazione in maniera magistrale. Carica, spara e poi si ferma per far scendere il polverone. Poi riprende la guerra portandoti in un altro campo di battaglia, magari dando una boccata al sigaro tra un affondo e l'altro.
Franny e Zooey è uno di quei libri che aprono la testa a uno che si prefigge di scrivere. E' un po' come una stampa di Ansel Adams: se la guardi da una distanza normale, ti piace senza che tu sappia esattamente perché, ma se fai lo sforzo di avvicinarti riesci a vedere ogni particolare, e capisci da dove venga tanta bellezza.

martedì 10 dicembre 2013

On white

Primo set di autoritratti della mia vita milanese.

La serie completa è sul mio nuovo Tumblr, Shanghai Unconscious

D'ora in avanti le mie immagini saranno pubblicate lì, mentre qui continuerò a scrivere. Stay tuned :)



martedì 12 novembre 2013

E invece

Tre assi di legno dipinte di rosso, con su disegnate grosse margherite.
Quel tavolo, non so perché, mi faceva venire in mente Biancaneve.
Quando è diventato troppo scrostato è stato ridipinto di giallo, un giallo acceso.
Chissà che fine ha fatto, sarà marcito come il resto della casa.
Muri ammuffiti, e poi crepe da terremoto, vetrini nel muro incrinati dal tremore tellurico.
Tutti pronti a uscire di casa quella notte, e avevamo dormito sulle poltrone al piano terra.
Al terzo piano mobili vecchi e polverosi, ricordi orfani accatastati senza cura.
Salò, millenovecentottantaqualcosa. Novantaidem.
Molte estati, una dietro l'altra senza sorprese.
Salò era per me il mondo bello, e non ancora un film di Pasolini tutt'altro che infantile.
Biciclette, uliveti attraverso cui scorrazzare. Conoscevamo ogni avallamento, le buche da evitare, i punti in cui prendere velocità sennò poi hai voglia a pedalare in salita, al ritorno.
L'albero di fico da cui tirare giù chili di frutti molli e viola. Raccolti in bacinelle di plastica verde, la metà si fermavano nel nostro stomaco prima di raggiungere casa. La goccia bianca che si gonfiava sul picciolo del frutto appena colto, appiccicosa che se la toccavi poi non potevi più metterti le mani in bocca.
Stavamo lì, tutti i cugini tranne due, zii vari quando non lavoravano.
Sugo di pomodoro nel pentolino pieno di bozzi che non stava mai fermo quando lo appoggiavi sul tavolo. Uovo crudo sbattuto con zucchero e cacao, per colazione.
La nonna. La Nenne. "La Nonna" la chiamavano quei due cugini che non vedevamo mai, che ne potevano sapere loro della nostra Nenne che giocava a scala quaranta mangiando le caramelle a spicchio arancia e limone, e si fregava le mani grinzose e portava orecchini di turchesi di tre sfumature diverse, e poi quel vestito rosso coi risoni bianchi che mi sembrava così chic.
Si addormentava tutti i pomeriggi guardando le telenovelas sul quattro. Poi veniva il nostro turno per i cartoni animati, a mangiare pane e Nutella per merenda. Ma stavamo fuori, tutti assiepati alla finestra che affacciava verso la tv, per non sbriciolare in casa. Perchè nessuno ci ha mai fotografato così? Oggi pagherei per scattare una foto del genere.
Il ritmo dei giorni era sempre uguale, lento e uniforme.
Raccoglievamo i pinoli caduti sui pietroni del selciato, poi li schiacchiavamo coi sassi sul muretto davanti alla botola amaranto del pozzo. Secondo me non sapevano di niente, ma li mangiavo lo stesso. Mi piaceva invece toccare il guscio un po' polveroso e striato di nero, e poi il modo in cui quel legno si spaccava in tanti pezzettini affilati. Un colpo con la mano alla fine, e finivano tutti in terra dove ormai non cresceva più l'erba.
Dell'estate mi piaceva che restava chiaro fino a tardi, e pensavo che nelle altre stagioni potevo sognarmelo di vederci ancora bene alle nove di sera.
Si stava tutti al tavolo di Biancaneve a pranzo, e la sera a cena.
Succedeva ad agosto che all'improvviso non ci cenavi più, con la luce naturale.
Quello era il momento in cui capivi che l'estate stava per finire. Le vacanze, i giorni che si accorciavano.
Qualcuno di noi veniva mandato dentro, ad accendere la luce esterna.
Una lampadina con il filo annodato al ramo di un pino. E poi un altro bulbo, appeso all'albero di fianco.
Le luci serali accompagnavano ogni tanto una vaschetta di gelato presa da Toldo in paese e poi portata su, e sembrava non bastare mai. Ci facevamo dare anche i coni, perché quando sei bambino un gelato è tale solo se lo mangi dal cono.
E nel bel mezzo di agosto, una sera, risentiremo il soffio freddo dell'autunno - il segno della fine.*
Era in una di quelle sere in cui si accendevano le luci che sentivo il soffio freddo dell'autunno.
Si andava a prendere una felpa su, per poi stare ore lì sotto i bulbi a parlare.
Mentre le voci si distendevano nell'oscurità, guardavo la casa perdere i suoi contorni contro il cielo.
Non capivo se quel momento volessi trattenerlo o lasciarlo, sapevo solo assaporarlo.
Mi faceva una tristezza contenta.

Salò, nonna di noi otto, dove sei finita. Gli sciacalli che un giorno ti animavano ora non sanno neanche smembrare il tuo cadavere.
E quando ti avvicino non sento più quel familiare soffio autunnale, ma il gelo immobile dell'indifferenza senza stagioni. Ognuno per la sua strada, nella propria casa. Più bella, più nuova, ma sempre nei pressi.
Ora sei silenziosa, solitaria, abbandonata a te stessa. Tutta come quei mobili del terzo piano che, a mettercisi, qualcosa si potrebbe anche recuperare.
E invece.


* Ennio Flaiano, "Diario degli Errori"

martedì 22 ottobre 2013

Il grigio


Di queste mattine milanesi
che iniziano sempre a un'ora diversa
quello che resta uguale
è la luce in sordina,
il grigio medio indeciso.
Guardi il cielo e ti chiedi
quando il giorno inizierà veramente.
E invece è già tutto lì,
il ragazzo è sveglio ma non si applica.
I milanesi devono spingersi da soli,
non c'è traino dal cielo,
e si lamentano senza sapere
esattamente di cosa.
Basterebbe che contemplassero
per qualche minuto il cielo.
Contemplare deriva dal latino cum templum,
e significa con lo spazio del cielo.
Profondità, distanze, mancanze, silenzi,
tutto si percepisce se si sta un po' lì dentro.
Il cielo è una tela piena di messaggi,
e quello di Milano è complice più di ogni altro.
Nel plumbeo peso sopra le teste
manca il contrasto, l'azione,
la lotta che rende le cose
nell'unico modo in cui possono essere.
Il grigio offre un alibi per non avere risposte,
che a volte sembrano buone tutte quante e nessuna.

lunedì 14 ottobre 2013

Blind date - Concerto al buio di Cesare Picco


Colpi di tosse,
di quella nervosa che prende quando bisogna star zitti.
Guardo il teatro dall'alto della balconata laterale
e mentre la luce scende sul pianista sotto di me
il teatro intero viene inghiottito dal buio.
Caverna immane e spaventosa,
formicaio dormiente e ordinato,
tutti rinchiusi in piena libertà d'immobilità.
Nero che non perdona, e la musica si fa onda abissale.
Lo sguardo indaga il nulla apparente,
la musica rapisce la coscienza
fin dove decide di condurla.
Un mattone di luce colpisce inatteso alla nuca,
il palco è offerto di nuovo alle corde.
Le formiche ricominciano a tossire,
si accorgono di essere materia.
Possono tornare a rifugiarsi nelle loro ansiose certezze,
partecipi di una verità riscoperta per qualche istante.

Applausi, e Hikari suonata in un modo che non avevi mai fatto.
Grazie Cesare, ancora una volta.

venerdì 4 ottobre 2013

All'Isola

Ho il frigo quasi vuoto, ma sempre birra per chi viene.
Non mangio quasi mai da sola. Cucino come non ho mai fatto.
Non so nemmeno dove siano i supermercati, in questa parte di Milano.
Uscirò a cercarli, ah quindi qui c'è il panettiere, qui le poste, qui un calzolaio.
"Isola" è un nome di fatto. Il ponte di Via Farini scavalca la ferrovia come se fosse un fiume d'acciaio.
Ogni volta che lo attraverso di sera guardo i grattacieli illuminati del Centro Direzionale.
La Milano che avanza, quella da bere che beve in tanti modi diversi.
La Milano che cresce, che vuole diventare, che aspira.
La Milano che chissà cosa farà da grande, e intanto i suoi abitanti invecchiano e si preoccupano.
Si ribellano al corso delle cose che li limitano, cercano di far perdere le proprie tracce.
Sotto i passi, sulla pelle. Rivendicano identità sbiadite.
E' strano ora per me, anche se sono vicinissima a tutto quello che so di prima.
E' tutta questione di calibrare le distanze, di variarne gl'interstizi con leggeri colpi sui fili.
Il tempo ha confini diversi, adesso. E' dilatato, non scandito.
Il mio condominio sembra Melrose Place, tranne che non è un puttanaio.
Tutti ingressi indipendenti, e qua davanti sembra una piccola piazza privata.
Tavolini all'esterno, angoli discreti. Qualche voce, portacenere, piccoli scorci.
Coppie giovani con figli nell'età più rumorosa. Gente da loft.
Salutano sempre quando passano. Dicono ciao, mai buongiorno o buonasera.
Mi chiedo se sentano la musica che metto. Magari la odiano.
Dormo tardi come sempre, ma prima di chiudere gli occhi ne ho vissute tre, di serate.
E come dormo. C'è qualcosa in quest'aria che rende il sonno profondo come quello di un bambino.
Sembra di stare in montagna, ma c'è qualcosa in più. Una tenerezza, nella notte.
Morfeo abita in questa casa, fa sentire il suo abbraccio.
La luce delicata della sera disegna le pareti con incroci di ombre.
Sembra che tutto possa succedere, qua dentro. Le ore scorrono fluide, non c'è necessità.
All'Isola si sta come sono io.

martedì 1 ottobre 2013

A domani

C'è un soffitto che mi aspetta, a qualche chilometro da qui.
L'ho guardato oggi, per la prima volta veramente.
Ho visto una faccina nella trave di legno sopra ai miei occhi.
Un sorriso congelato in un nodo dipinto di bianco.
Stava facendo buio, la luce al piano di sopra spenta.
Arrivava, calda, quella da giù.
Vedevo fuori, attraverso la grande finestra sopra la porta, ma non stavo proprio guardando.
Ero sdraiata, e sapeva di bucato fresco.
Una casa comincia a esistere solo nel momento in cui metti le lenzuola al suo letto.
Prima è porto di mare, terra di tutti e di nessuno.
Me ne stavo lì, dopo una giornata passata ad assegnare un nuovo posto alle mie cose.
Quello dove le ritroverò ogni giorno, con gesti abitudinari.
Non c'era immaginazione di futuro, piuttosto un sapore di passato già assaggiato.
Come l'avessi conosciuta da sempre, quella luce, quell'atmosfera.
In quel momento ho capito che ci sarei stata bene.
In quel momento ho deciso che la notte seguente l'avrei dormita lì, e poi tutte le altre.
Nonostante il casino e il mio mondo ancora per aria.
Ché mischiare le carte, i libri, i vestiti, le lampade, le spezie, gli asciugamani, i contenitori e i contenuti
è sempre una buona cosa.
Le prime volte ci sono ancora, ci sono sempre.
A domani.

sabato 28 settembre 2013

Via Vincenzo Monti 81

La moquette verde bosco
che bruciava le ginocchia
le porte smaltate col vetro smerigliato
le sagome indefinite
il buio dell'uomo nero
la lucina della notte
il fazzoletto da succhiare
ma solo agli angoli che è più dolce
lo striscione bordeaux del barone rosso
no l'acqua in faccia no
i miei in bagno che parlavano sempre
la cucina bianca
il mio posto a tavola sempre stretto
la bilancia Berkel d'acciaio
con i tondini che giravano alla base
no che la starate!
la cena con il pane inzuppato
nel latte col Nesquik
io a dieci anni con il walkman bianco
della Irradio con l'equalizzatore
sotto le coperte scoprivo la musica leggera
con le cuffie fino a tardi
è tardissimo dormite sono le dieci meno venticinque
che non fai prima a dire sono le nove e mezza
e fino ad allora in sala
sui divani marrone chiaro
così anni ottanta
di quel tessuto che mi dava fastidio
Widor e l'organo che mi terrorizzava
e Prokofiev e Pierino e il Lupo
con Eduardo De Filippo che narrava
poi facevo gli incubi
chiamavo la mamma
no, è tutto finito, era solo un sogno
ma non ricordo mai di mio padre
che faceva la notte e i cesarei
che non sapevo neanche cosa fossero i cesarei
la sua voce non fa parte di quella casa
lui parlava con la musica
tutta la musica classica che conosco
e che ascolto ancora oggi
è la voce di mio padre
e se ora te la faccio sentire
su questo divano
tu forse non sai
quanto fa parte di me
quanto mi è nel sangue
e invece l'hai capito.



mercoledì 25 settembre 2013

Svestìti

Mi cadono i pantaloni, ormai.
Li sollevo da dietro quando esco,
e in due passi sono di nuovo giù.
Non ho cinture qui con me.
Larghi sul bacino ancora rotondo,
fanno pieghe che pensavo traguardi.
Ma forse sono solo sentieri e fossati.
Mi restringo dentro di loro lentamente,
come corpo lavato troppe volte
in acque troppo calde.
Consumata, logorata, erosa da te
che mi scalpelli goccia a goccia.
Li piego su loro stessi,
tirandomene fuori.
Metto una gonna
fatta del tuo drappo di stelle.

domenica 15 settembre 2013

Maria

Maria l'ho fotografata due volte, a pochi giorni di distanza, sia in digitale che in pellicola. La seconda sessione non era preventivata, ma sapevamo entrambe che sarebbe successo.
E' intensa, gioca a modo suo. Sembra restia a farlo, ma quando esce dal recinto delle sue paure è in grado di dare molto. Si è fidata di me senza conoscermi, e la ringrazio per questo.
Per vedere le foto aspetterò, non c'è fretta. Quello che m'interessava di più era di rivivere l'esperienza, mi ha detto quando ci siamo salutate a Roma.

(Cliccare per ingrandire)






















sabato 14 settembre 2013

Backstage - Madalina Ghenea by TT

Alcune mie immagini di backstage scattate per il servizio di Toni Thorimbert a Madalina Ghenea, per Io Donna.

(cliccare per ingrandire)

mercoledì 11 settembre 2013

Il lungo tempo del corto

Scrivere una storia su (...). 
E' questa la frase che ricorre più spesso tra le note che aggiungo ogni giorno sul telefono, durante e dopo le proiezioni dei corti del Milano Film Festival. Tra appartamenti da visitare, pratiche burocratiche da espletare, lavori da presentare (sì, di già!), relazioni sociali da coltivare e chi più ne ha più ne metta, il momento più bello in assoluto della mia nuova vita è quello in cui chiudo tutto il resto fuori e mi siedo nella sala Scatola Magica del Teatro Strehler, alle ore 15:00 di ogni giorno.


Ci resto più o meno fino alle sei e mezza-sette, quando ne esco - il più delle volte fulminata d'idee per prossimi ambiziosi progetti. E' il primo anno che posso permettermi tali orari e continuità al MFF, e sono stata completamente colta di sorpresa da quanto fertile sia per me questo terreno. Continuo ad appuntarmi cose, assorbo stimoli come una spugna. Mi è chiaro come il cinema sia la sola arte in grado di far confluire nello stesso prodotto immagine, parola e suono, tutte cose che m'interessano moltissimo e che prese da sole non mi bastano mai.
Per me è letteralmente una "scatola magica", quella dello Strehler. Lì dentro vengono proiettate le fantasie, le follie, le ossessioni, i ricordi, le passioni, le denunce, i mondi di quelli che hanno capito le potenzialità del mezzo cinematografico: la loro voglia, anzi il loro bisogno assoluto di raccontare storie che li riguardino, più o meno direttamente. Non c'è cosa che non possa essere espressa, e i modi sono infiniti. Io sono totalmente presa all'amo da tutto questo, tanto che il solo pensiero che con questa settimana finisca il "rito dei corti" mi fa venire le crisi d'astinenza in anticipo. Per me sono pillole a lento rilascio, ne avverto gli effetti benefici anche dopo essere uscita dalla sala.
Mi rendo conto che il Festival nelle fasce pomeridiane sia un privilegio per pochi, anche a giudicare dalle presenze in sala. Inizio a riconoscere alcuni volti, siamo un po' sempre gli stessi a cui ogni tanto si aggiunge qualche altro gruppetto. Il tipo che stacca i biglietti all'entrata della Scatola Magica, vedendomi sempre, mi chiede ogni volta qualcosa di me e dice cose superflue pur di trattenermi un po' lì con lui. E cosa dire del tempo settembrino di Milano? Un piacevole torpore mi accoglie all'uscita, dove c'è sempre un dj-set che suona per i cinefili sparsi sulla scalinata dello Streheler, birretta alla mano. Io me ne sto un po' seduta sulle casse di legno lì intorno, assaporo l'atmosfera, libero la mente, raccolgo le idee. Poi riprendo la mia bicicletta e torno verso casa, con il sole in faccia. La lunga curva di Foro Bonaparte apre a squarci di luce abbaglianti e improvvisi, tanto che a volte devo farmi ombra agli occhi con la mano per vedere la strada. A tratti mi fermo, scatto una foto, scrivo un pensiero. Incido momenti, accolgo la loro scia.
Quello del Film Festival è il primo grande regalo che mi sono fatta lasciando la mia vecchia vita. Tempo, tempo, tempo: la sola vera ricchezza di cui possiamo e dobbiamo disporre.

lunedì 26 agosto 2013

M.

Non scattavo un ritratto da più di un anno. Intendo uno di quelli che lo proponi al soggetto, ti metti d'accordo e ti dai appuntamento il tal giorno alla tal ora. E' stato oggi pomeriggio nella mia camera da letto, con luce naturale - la poca che arriva nel pomeriggio, e che non vedo mai perché a quell'ora sono sempre al lavoro. Non avevo mai scattato una sessione lì, e sono stata contenta di averlo fatto ora che me ne vado. Lei non era mai stata fotografata, ed è stato un incontro molto bello.

Qui una preview, seguiranno altre.

Grazie M.

(cliccare per ingrandire)


mercoledì 21 agosto 2013

Il congedo

Ci sono cose negli armadi e scatoloni che le aspettano. Mi guardano, nei loro posti giusti e immutati da anni. Ogni giorno cerco di mettere via qualcosa di diverso genere, e credo che il peggio sia quasi finito. Sapete no, la roba che non appassiona, che non ha emozioni attaccate, insomma le cose "di servizio" che però vanno portate via anche loro.
E poi ci sono io, a fine giornata, mezzo sdraiata sul divano, che non ho voglia né forza per tirarmi in piedi e dedicarmi a quelle cose. Passo dal divano al letto, accaldata da una temperatura stranamente di nuovo in aumento. Accendo il mio vecchio Nokia per recuperare un numero che mi serviva, e lentamente scorro tutta la rubrica. Ci sono diversi contatti che non avevo trasferito, un po' per la fretta, un po' perché, dai, quando mai mi servirà questo numero. E mi accorgo che non sto salutando. Che ci sono persone che vorrei rivedere un'ultima volta perché tutto quello che ci riguarda resterà solo qui, a Roma, senza seguirmi a distanza. Mi riprometto di organizzare un caffè, un aperitivo, qualcosa, anche se mi manca il tempo. Restano ormai solo dieci giorni, e c'è una strana energia intorno a me. Una sorta di imprevista elettricità. Una frenata prima della svolta, che serve per prendere la curva e proseguire, ma durante questo rallentamento a cui non avevo pensato, vedo cose che in velocità non era possibile. E' come se tutti si stessero accorgendo di me solo adesso che me ne vado. Ma perché non ti ho "conosciuto" prima? mi dicono. Io sono più aperta, gli altri lo vedono e ricambiano. Chi mi vede andare via e chi mi vede arrivare: l'atteggiamento è lo stesso, a Roma e a Milano.
Solo che ora è come se volessi fermarmi ancora un momento a guardarle, queste cose che sto lasciando. Queste persone che (non) sto salutando e che spero di riuscire a vedere ancora una volta, con quegli occhi che mi stanno così fortemente invidiando, sognanti un po' per me e un po' per se stessi, se magari potessi andarmene anch'io...
Mi sembra un po' come andare in bicicletta in discesa, ma senza freni. Bello, adrenalinico, ma non puoi fermarti, e pare che d'un tratto tutto ti sfugga invece di essere tu a sfuggire dal tutto. Sono stata otto anni e mezzo qui, quanto medie e liceo insieme. Una vita. E ora torno là dove la mia vita è iniziata, per iniziarne una nuova. Ma prima bisogna chiudere bene con questa città che tanto mi ha amareggiato. Riconoscerle i suoi meriti, i regali che mi ha fatto, le possibilità che mi ha offerto, le vite che mi ha fatto incrociare.
Chiedo a questi ultimi dieci giorni di darmi il loro tempo, di non farmelo passare via senza che possa accorgermene. Che mi lascino gli sguardi da cui congedarmi, più che le parole di circostanza o di augurio. Perché sono quelli che mi porterò dietro. Fotografie.

mercoledì 24 luglio 2013

Traslocare

Traslocare non è spostare oggetti da un luogo a un altro.
Traslocare è un processo, e lo si affronta poco per volta. Un paio d'ore al giorno dopo il lavoro, non di più. Bisogna sapersi fermare anche quando si ha preso il ritmo. Perché magari non sembra, ma le cose hanno un peso maggiore di quello che si percepisce maneggiandole.
Traslocare significa scegliere cosa portarsi dietro e cosa lasciare andare. Cosa tenere, cosa buttare, cosa donare e cosa restituire. Cosa fa ancora parte di sé e cosa no.
Traslocare significa ritrovare cose che non si ricordava neanche di avere. Come la cartolina di un quadro di un giovane Picasso comprata al Guggenheim perché ti ricordava il viso e l'essenza di un'amica. O gli appunti scritti a mano durante un workshop di ritratto, lo stesso in cui pochi mesi fa hai posato come modella. Concetti che ti porti dentro anche oggi, e che ancora senti dalla stessa voce di allora. E ancora foto, scritti, tracce di vita passata.
Traslocare significa prendersi del tempo. Del silenzio. Significa elaborare il valore degli oggetti, dei ricordi, delle immagini che di noi si sono formate negli anni. Significa anche lasciarsi piangere nel vedersi come allora e come oggi. Riconoscere come sono cambiati i propri occhi.
Traslocare è gioia e malinconia, anticipazione e sospiro.
Traslocare è trasformazione cosciente.
Traslocare è vedere tutto ciò che si è attraverso ciò che si ha. E' scelta e accettazione. E' passato, presente e futuro nello stesso momento.


mercoledì 10 luglio 2013

Zaira

Lei entra e io m'illumino.

Donna consapevole del proprio fascino leggero, Zaira. Sta bene con se stessa, senza mentirsi. Ironia spiazzante, diverte e si diverte.
Mi confronto da anni con lei. Le sue domande sono mirate e il suo ascolto è rispettoso. Evita giudizi a caldo, si prende il tempo per pensare e per sentire. So che mi dice sempre la verità.
Zaira è la parte di Roma che mi dispiacerà non vedere più. Quello di oggi è stato il nostro ultimo pranzo insieme, ma nessuna delle due, pur rendendosene conto, ha voluto fare esplicito cenno alla cosa. Per i veri saluti ci sarà tempo.
Verso la fine le ho scattato qualche foto. Quel suo essere completamente presente nel pensiero, nella parola e nel sorriso.

martedì 25 giugno 2013

The Office

In bocca al lupo allora!

La voce è quella di Giulio, e risuona decisa tra le pareti dell'ufficio del personale. Posa la penna con la quale ha appena firmato le mie dimissioni, mentre la sua collaboratrice aggiunge ancora qualche dettaglio burocratico. Io la guardo annuendo, ma non la sto ascoltando. In quel momento, più che in ogni altro di questa strana giornata, mi sento galleggiare.

L'ho fatto, finalmente.

Non che l'avessi deciso oggi al mio risveglio, ma sapevo che ormai sarebbe stato il momento. Verso metà mattina, senza pensarci, ho aperto un nuovo documento Word e buttato giù un paio di frasi nel gergo delle cose serie. Ho stampato due copie e firmato sotto il mio nome con dita leggere. I miei colleghi mi hanno invidiato, e neanche troppo velatamente. Sì, mi riconosco di essere invidiabile, anche se non ho alcuna certezza su cui posare i piedi. Non m'importa, anzi ben venga.
Finalmente la sento, l'aria ad alta quota. La sensazione delle cose che stanno per finire e ricominciare. La zona fotofinish, tutta da godere al massimo. L'ultima volta è stata dieci anni fa, quando mi sono laureata, ma adesso è molto meglio.
Non solo ho di nuovo musica, ma ho quella giusta.
Scendo le scale verso il mio ufficio, e mentre cammino nei corridoi mi rendo conto che presto arriverà un giorno che sarà l'ultimo. Quello a partire dal quale non verrò più qui - e non per un po' di tempo, ma proprio mai più. Non sarò più a Roma, in queste stanze, nella mia casa, nella mia piscina, in tutti gli altri posti che in questi otto anni sono stati mia abitudine.

Negli ultimi mesi ho fotografato questo ufficio in tante sue facce, creando una serie che ho chiamato The Office. Mi restano da ritrarre i miei colleghi, e presto lo farò. Intanto ieri ho girato anche un piccolo video con l'iPhone, senza alcuna pretesa qualitativa. Dura solo quindici secondi e non è certo esaustivo. E' semplicemente uno spezzone dei miei sguardi sempre alla ricerca di un'evasione senza risposte.
Il pensiero che si sfoca andandosene per i fatti suoi.
Affacciarsi a una finestra, a un'altra.
Poca vita che scorre accanto al fiume.
Grazie, grazie di tutto davvero, ma la mia è proprio altrove.


giovedì 20 giugno 2013

Ok.

Terry Richardson è veramente, profondamente, totalmente americano.
Non ha bisogno di stare lì a raccontarsela, nè a raccontartela. Poche storie, lui è e basta, così come lo vedi. Fa quello per cui viene pagato e lo fa sempre al 100%, anche se cambi idea tre volte di seguito.
Ok è la sua risposta, imperturbabile. Tu sei il cliente, tu ci metti i soldi e tu hai l'ultima parola. Fine.

E' sempre a casa sua, in qualsiasi posto. Sa stare con chiunque, parla di tutto e di niente come se ti conoscesse da sempre. E' facile, aperto, è proprio lì con te. Sa farlo, è un professionista furbo.
Da vero newyorkese, mette il più bell'hip-hop che abbia mai sentito - subito dopo pranzo, quando tutti sono abbioccati dal rigatone ai fiori di zucca. E tu lì a Shazammare ogni pezzo con l'iPhone, mentre corri di qua e di là facendo il tuo lavoro.
Mentre scatta, piegato sulle gambe, ondeggia a tempo di musica. La modella, senza avere l'aria di accorgersene, ondeggia con lui. Tutto è giusto, estremamente fluido.
Flash. Bam, bam, bam. Come in un round di boxe, serrato fino al suono del campanello. Solo allora si vedono le foto - non guarda mai lo schermino per controllare il lavoro. La sua non è la raffica di un pazzo, ma una successione misurata di colpi. Sa cosa fare, quando farlo. Preciso. Spesso tiene la macchina con una mano sola, per minuti interi, senza mai tremare. E non è una compattina, ma una reflex di quelle grosse, con il flash montato su una slitta laterale - non proprio una piuma, come ambaradam.

E mentre lavora, ti fermi un attimo ad assaporare la tua occasione. Lo guardi, con le sue braccia completamente tatuate, il Rolex d'oro, le All Star blu, i jeans. Quest'uomo che sembra quasi un bambino ingrandito. Pensi a tutto quello che ha raccontato di sè attraverso i suoi lavori, il blog, le tante storie di modelle e star - quelle deluse e quelle innamorate. In quel momento tu sei lì, a un passo da quel personaggio tanto chiacchierato, e vedi solo un professionista. Un uomo che fa fotografie. Nè Dio nè il demonio. Al massimo ti dà della sexy italian girl, ed è evidente che per lui è tutto un gioco. Ma anche un gioco serio. E' solo più sfacciato della media, del resto se non lo fosse non sarebbe dove sta.
Alla fine dello shooting gli chiedi una foto insieme. Sure. Ti abbraccia, monta su la sua posa standard con il pollice alzato.

Sorride.

Ci salutiamo.
- See you next time then!
- There won't probably be any next time, Terry. I'm quitting my job, this is my last shoot.
- No matter. See you next time. You never know.

Già. You never know. Probabilmente è questa la sua forza: l'imprevedibile.
Poi guardi quella foto, e anche il ritratto che gli hai fatto poco prima against a white wall, il suo elemento, con addosso una collana da milioni di euro. Guardi quel sorriso, quei pollici, quel modo. E vedi un amore strano, in tutto questo. Come se fosse più quello che manca di quello che resta. Ciò che appare privo di complessità ne cela una sotterranea. Dura poco, il tempo di un click, ma se la sai vedere c'è.
Lui aspetta, fermo lì davanti a te, il compiersi dell'ennesimo rituale di sè.
Non ti dà niente di più e niente di meno.
La sua risposta è sempre, comunque, ok.

Terry Richardson wearing vintage Bulgari, shot by me with iPhone

sabato 1 giugno 2013

La luce nera

Oggi per tutto il giorno è andata e venuta quella che io chiamo la luce nera.
Filtra attraverso nubi scure e cariche di pioggia per finire rovente sugli edifici, implacabile come quella dell'occhio di bue su un palcoscenico.
Cielo nero, luce gialla. Contrasti forti, messaggi confusi. Quiete e tempesta, amore e odio, conforto e rabbia. C'è un enorme specchio sopra di me, e mi riflette sulla città.
Dura poco la luce nera, come tutti i sentimenti forti. Tempo che il giorno finisca e tutto sarà di nuovo omogeneo, coerente, diffuso. La pioggia tornerà a frusciarvi nelle orecchie, il sole asciugherà la pelle. Amanti del bel tempo e detrattori di quello cattivo, che ne sapete voi della luce nera.

martedì 28 maggio 2013

The seventies

Venga giù, le faccio vedere anche l'appartamento di sotto. Per farle capire il livello. Che, per inciso, secondo lui era alto. In sala un muro completamente dorato, roba che secondo me neanche a casa Versace. Fortunatamente il livello dell'appartamento per cui avevo fissato il sopralluogo era radicalmente diverso, e sul finale del post capirete perché.
Nel mio recente excursus tra le locazioni milanesi - ma sono certa che nessuna città faccia eccezione - mi sono resa conto che l'unico modo per non uscirne trafitti nel costato dell'estetica è cercare appartamenti non arredati. La maggior parte di quello che il mercato propone sembra rimasto congelato intorno agli anni settanta, con picchi di modernità zippata in monolocali dove dormire in verticale o rivisitazioni vintage palesemente artefatte. A un certo punto dell'evoluzione architettonica sembra che tutti siano stati colpiti dal misterioso virus dell'archetto, che fa la sua comparsa tra le mura degli appartamenti milanesi puntuale come la varicella nei primi anni di vita. La casa è un po' anonima? Piazziamoci un bell'archetto! Rigorosamente profilato da mattoncini a vista. Un'altra chicca sono le "pareti attrezzate" dei salotti. Una distesa di legno color nocciola assolutamente indefinibile, omogenea, simmetrica, impreziosita nei casi più fantasiosi da qualche vetrinetta. Divani ormai stravaccati su se stessi, pavimenti in marmetta di cemento di qualsiasi genere, ma attenzione, tutti diversi da stanza a stanza.
Il momento in cui il padrone di casa, o l'agente immobiliare secondo i casi, gira la chiave nella serratura e la porta mostra il primo spiraglio degli spazi domestici è un attimo di apnea trepidante. Il mio sguardo va immediatamente sulla pavimentazione, sperando di non trovare le suddette marmette o le tanto odiate piastrelle - non voglio apparirvi snob, ma dopo otto anni ho proprio un conto in sospeso con le piastrelle: mai fatta una foto che includesse il pavimento, un incubo. A dire il vero tutta la mia casa romana non si è mai prestata a farci foto, ed è una cosa che mi è sempre pesata molto. Qualcuno che capisce bene queste cose, e che ha potuto rendersi conto in loco personalmente di tutto questo, mi ha dato un consiglio che mi ha guidato lungo tutta la mia ricerca di casa a Milano: la tua prossima casa dovrà essere giusta per le foto. In termini di luce, certo, ma anche di spazi e soprattutto di energia. Perché le case hanno tutte la propria energia, non c'è niente da fare. E' quella che si avverte quando la sua porta ci viene aperta per la prima volta e si muovono i primi passi nei suoi locali. Le case sono un po' come le persone, a pelle ci danno sempre una sensazione di un certo tipo: in linea di massima, capisci subito se ti ci prenderai o meno.
Nell'ultimo mese ho guardato centinaia di annunci e foto, battendo le zone di mio interesse come una volante di pattuglia, selezionato attentamente e visionato una quindicina di appartamenti. Ho sviluppato il senso della casa finta, quella che vuole farti credere di essere molto più di quello che è, stile tipa con le extension e le unghie ricostruite, così come il senso della sòla sincera, quella che se ne sta lì a sfoggiare bellamente il suo collant smagliato e magari ti mostra anche il dito medio. Avete presente. In tutto questo, tenevo bene a mente il mio mantra e non mi perdevo d'animo, anche se la mia scelta provvisoria non mi convinceva del tutto. Del resto quando vedi solo case sbagliate, quella che ti sembra la meno sbagliata diventa progressivamente sempre più quella giusta. Ma bisogna fare attenzione a non prendere lucciole per lanterne e non cedere troppo ai compromessi.
Poi ti capita anche di trovare anche cose inaspettate, e questo rende la ricerca anche divertente. La casa sorpresa stava al piano attico di una via tra le più eleganti di Milano. Mi guida la mamma anziana della proprietaria, una vecchina coi capelli ricci e l'aria di chi ha cucinato tanti biscotti. Sguardo al pavimento sulla soglia, e già non ci siamo: piastrella bianchiccia. Intanto che la signora alza le tapparelle svelando i contorni degli spazi, mi ritrovo proiettata nel solito scenario degli anni settanta congelati. Alla parete legnosa e al divano stanchissimo si aggiunge un tavolo rotondo con quattro sedie intagliate, con tanto di tovaglia e brocca azzurrina. Quella cazzo di brocca, che poesia. La cucina giallo canarino, con le ante della credenza profilate di scotch decorativo stile Castorama, il bagno azzurro intenso con un water inserito in diagonale nell'angolo. Ma come ti viene in mente. Man mano che giro per casa mi accorgo dei particolari: è piena di specchi. Sul retro delle porte, intere pareti in bagno, ovunque ti giri ti rivedi. Le tende sono bianco-azzurrine e hanno l'aria di non aver visto acqua e sapone neanche sul viso di un'adolescente. In camera da letto c'è persino una sorta di spogliatoio, stile camerino di negozio. Anche quello, ma come ti viene in mente. In compenso c'è una terrazza da capogiro, con vista su mezza Milano. Altro pezzo forte è una verandina ricavata da un balcone chiuso da una vetrata, che la incapsula in uno spazio tra il dentro e il fuori. Una scrivania su misura, smaltata di bianco, con tanto di cassetti e un calabrone gigante stecchito a terra. Lo battezzo immediatamente "l'angolo dello scrittore", e ne resto stregata. Penso che ci potrei scrivere un romanzo. Per un po' provo a calarmi in questa visione un po' bohémienne di me, in una casa assurda con i mobili colorati stile scuola materna e la bellissima terrazza, i cazzo di specchi che fanno parlare tutti i muri tra di loro e il bagno con il water diagonale. Lampade bellissime, vero vintage. Quella della camera da letto gliel'avrei staccata dal soffitto all'istante: fasci di lamine metalliche ovali concentriche tutte avvolte una intorno all'altra. Chissà che luce assurda faceva. Scatto qualche foto, e mi rendo conto di essere già soddisfatta di quelle. Non si vive in una capsula di vetro o su una terrazza con in mezzo un po' di casa anni sessanta - sì, questa andava persino più indietro della media. Un conto è vedere uno spazio, un altro è viverlo.

La casa sorpresa

Scegliere una casa è un atto estremamente istintivo. E' una delle rare occasioni nella vita in cui si richiede di basarsi per forza sul colpo di fulmine.
E così succede che la sera prima di ripartire per Roma vedi un annuncio, chiami l'agente e fissi un sopralluogo per la mattina seguente, un'ora prima di salire sul treno. Succede che hai un incidente in macchina mentre ci vai, ma riesci a raggiungerla ugualmente. Succede che il padrone di casa gira la chiave nella toppa, lo sguardo va al pavimento e non c'è la piastrella, non c'è la marmetta, ma un bel rovere scuro a listoni opachi. Succede che le tapparelle si aprono a una bellissima luce che attraversa la casa da destra e sinistra, e che non c'è nessun mobile a disturbare la fantasia. Ok, c'è l'archetto, ma quello, come ormai sappiamo, è come la varicella. Se non altro non ha i mattoncini a vista. Nessun decennio congelato, tutto è estremamente fluido e caldo.
E' quell'energia affine, è la casa giusta per le foto.