martedì 28 febbraio 2012

Il basso letterario

Quando incontriamo una persona per un ritratto, spesso accade che la prima intuizione riesca ad andare più a fondo di quanto possa avvenire dopo, andando avanti a scattare. Sapere troppe cose rende più difficile il mettersele alle spalle per essere innocenti al momento giusto.

Ieri sera ho incontrato Ferdinando Scianna dal vivo, dopo averlo letto, guardato e citato per anni. L'occasione è stata la presentazione del suo ultimo libro, "Autoritratto di un fotografo", presso la Scuola Romana di fotografia.
Si è parlato a lungo di ritratto, cosa che ovviamente ho molto apprezzato (istante decisivo, aneddoti, approccio à la Cartier-Bresson vs Klein), ma anche di ossessione e necessità dello scatto, nonchè del rapporto fotografia-scrittura - Scianna ha anche scritto molto nella sua carriera, coltivando per tutta la vita anche una solida amicizia con il conterraneo Leonardo Sciascia. Ho trovato particolarmente interessante quest'ultimo spunto, a proposito del quale Scianna ha dichiarato: "La mia fotografia ci guadagna ad essere accompagnata da questo basso continuo letterario."
Io, inutile dirlo, mi ritrovo molto in quest'asserzione. Per chi nel raccontare si limita a fotografare non c'è necessità di spiegarsi ulteriormente, anzi il mistero che nasce da una foto è uno dei tesori di maggior valore che lo spettatore possa ricevere. Io stessa amo guardare e realizzare immagini non esaustive da questo punto di vista, eppure quando presento i miei lavori mi piace sempre raccontare come siano nati gli scatti - ne avete svariati esempi anche in questo blog, con i post su Within - perchè ho grande passione per la narrazione. E' come un sistema a due incognite interpretative, che non si risolve in una sola espressione: è necessaria la seconda equazione. E' per questo motivo che, come ho detto recentemente a uno di voi, non mi posso ritenere una fotografa: a me l'immagine non basta e io non basto a lei, tant'è vero che il nostro rapporto non è risolto. Dover scegliere tra le forme di espressione visiva e verbale non porta alla risoluzione del mio sistema personale. Quel basso continuo di cui parla Scianna lo sento anch'io, ma mentre per un fotografo con tutte le lettere è semplicemente un suono che può dare il tono del fare, per me se ne esce, un po' anarchicamente, anche come strumento solista. Saturnino style.

giovedì 23 febbraio 2012

L'incubo


Gli incubi di quand'ero piccola, certi me li ricordo perfettamente ancora oggi. Pelle scorticata, ferite, impotenza, paura. Si mischiano con l'oscurità del corridoio, il pavimento con la moquette verde e le tracce di gesso bianco, le porte con il vetro smerigliato, socchiuse. Da lì il buio entra lo stesso, posso solo provare a ignorarlo. Un dettaglio torna alla mente, strizzo gli occhi per chiuderlo fuori ma lui si riaffaccia senza avere pietà della mia richiesta - basta... fammi dormire... non voglio rivedere... non voglio rivivere. E invece è come un pendolo, che va e viene ineluttabilmente. Allora accendo la lucina bianca, ma non posso stare così fino al mattino. Ho sonno, però non voglio tornare ancora lì. Provo a girarmi sull'altro fianco, così per forza si gireranno anche i pensieri. Sul fianco destro c'è l'incubo, sul sinistro va tutto bene. Chiamo la mamma due o tre volte e lei arriva in camicia da notte, con gli occhi piccoli come asole. Ma no stai tranquilla, dormi... è solo un brutto sogno. Mi riaddormento per tuffarmi in un altro sonno confuso, forse ancora contaminato dal precedente. 

Ora quando faccio gli incubi sono sola e il mio letto è grande. Lo occupo tutto, sto in mezzo, prepotentemente. Mi è capitato di non riuscire a svegliarmi, sospesa nell'intenzione razionale che prova a spingere una porta dietro la quale si oppone qualcosa di oscuro: un braccio di ferro che toglie il respiro. Quando riprendo coscienza è un sollievo inquieto, una vittoria di Pirro. La notte è persa, non potrò riaddormentarmi facilmente. Devo alzarmi, scrollare il pensiero agitando anche il sangue. Rimango incagliata nelle immagini, nelle suggestioni che si ripropongono. Accendo la lucina rossa e percepisco il domani come una realtà parallela, che con questa qua non può incontrarsi. L'unico modo è richiudere gli occhi, ma rimango sempre un po' vigile. A strattoni, le rette s'incurvano come binari ubriachi che mi portano, in qualche modo, al mattino. Nel sonno spengo la luce rossa e il giorno mi accoglie con quella solare che filtra, puntinata, attraverso la tapparella. Lavarsi, truccarsi, vestirsi, uscire, accendere il motorino e guidare, ripensando a tratti a quel soffocamento che chissà dov'è, chissà perchè. 
L'incubo è il punto di non arrivo da cui ritorno senza capire.

martedì 14 febbraio 2012

Prima D

Arrivo sulla soglia della classe e sulla porta c'è un foglio con sopra scritto, in rosso e con piccoli ghirigori, 1D. Mi trovo alla scuola elementare vicino a casa mia, per la prima lezione del corso di scrittura creativa. Apro la porta e vedo dodici tavolini da due posti ognuno, bassi, disposti in tre file da quattro. Vado a sedermi all'ultimo banco, mentre anche gli altri compagni di corso prendono posto, spostando dalle sedie gli zainetti dei bambini che li hanno lasciati lì per il giorno dopo. Mi siedo e mi ritrovo le ginocchia all'altezza del petto. Ah già, i bambini sono piccoli. Mi guardo intorno sorridendo e scorro lungo le pareti una successione alfabetica di fogli, ognuno con una lettera dell'alfabeto e il disegno di un oggetto o un animale con quell'iniziale. Albero, Banana, Casa... La lezione comincia, oggi siamo in sedici anche se sul registro ci sono ben venti nomi. Senza troppi preamboli, ci viene distribuito un foglio con un racconto di Boccaccio, tratto dal Decameron. L'insegnante fa una piccola introduzione e poi lo legge. Ci vogliono le pause giuste, sennò di quell'italiano così arcaico si capisce poco. Una volta finito, ci vengono dati sette minuti per scrivere di getto, in libera associazione con quanto appena letto. Per me, il buio. Inizio a pensare, e già sto sbagliando. Il testo mi ha suggerito un'idea, ma stendo quattro righette insulse in cui non racconto un bel niente. M'innervosisco, non è per niente facile. Come una bambina stizzita, tiro una bella linea diagonale sul mio misero scritto, che altro non era se una riflessione un po' cinica. L'insegnante, lo vedo, mi osserva da lontano mentre mi guardo intorno aspettando che quei benedetti minuti finiscano. Tutti gli altri scrivono e io mi sento come una che non sa le risposte del compito in classe - l'associazione è immediata, vista la scenografia. Scade il tempo e ognuno è invitato a leggere quanto ha scritto. Accidenti, questi qua devono avere un bel callo sul medio, perchè certi sono piuttosto bravi. Le storie gli sono uscite dalle dita come se niente fosse, e pure infarcite di aggettivetti giusti e qualche sottile ironia. Sento anche un po' di foto da studio, tutte belle illuminate con i loro bank a diffusione morbida, e mi scopro ad aggrottare mentalmente le sopracciglia. E' come quando capito su certi blog e leggo dei post talmente avviluppati nell'autocompiacimento da rendere del tutto incomprensibile ciò di cui si sta parlando. Io leggo per ultima. Il testo non viene accolto negativamente, ma io non avevo avvertito nessun ponte tra me e quel racconto di Boccaccio, quindi zero ispirazione. Cominciamo bene. Passiamo a una poesia di Ungaretti: stesso esercizio. Parte il conteggio dei sette minuti e io sto già scrivendo. Di getto, libera, divertendomi. Sto viaggiando indietro nel tempo, trainata da un unico piccolissimo gancio: tre parole di quella poesia mi riportano nella prima casa di Milano dove sono cresciuta, in Via Monti. Non mi fermo se non per sorprendermi di come gli elementi del ricordo mi tornino alla mente. Mescolo immagini e suoni di tante notti, sento la voce di mia madre, ho in mano gli oggetti che compaiono in ogni riga. Di minuti ce ne metto cinque, poso la penna per la prima volta dopo il punto finale e mi godo gli altri istanti ancora inebriata da quello che ho appena rivissuto attraverso le parole. Leggo per terza - qui sgomitano tutti per farsi avanti, altro che tempi della scuola - ma il compiacimento maggiore non sta nella buona accoglienza del mio scritto: quello che mi lascia secca è quello che altre quindici persone hanno tirato fuori dalla stessa poesia. Stranamente ora le parti sono invertite: i loro componimenti sono brevi, quasi che le corde fatte risuonare da Ungaretti fossero troppo spesse per dare un suono leggero. Nella classe ci sono molte persone di mezz'età e anche qualche anziano. Tra questi ce n'è più d'uno che ha scritto della morte del proprio compagno di vita, con un'intensità così sincera che disarma. La donna seduta accanto a me, che avevo solo visto di sfuggita quando è arrivata, un po' in ritardo, conclude il suo scritto con una frase che a momenti mi commuove. La guardo bene solo alla fine della lezione, mentre scambiamo qualche parola. E' robusta, ha capelli sale e pepe, occhi verdi e grandi. La maggior parte delle persone qui ha già una faccia che racconta da sola, sarebbero da ritrarre tutti.

In una lezione ho imparato moltissime cose. Sono rimasta affascinata dal potere del confronto e dell'ascolto delle altre voci. Mi sono arrivati addosso, quasi violentemente, pezzi di altre persone del tutto sconosciute e con le quali altrimenti non avrei mai scambiato neanche una parola. Gli anziani, poi, sono meravigliosi.
Forse però la cosa più eclatante a cui ho avuto modo di assistere è stato il duplice spettacolo di me stessa: prima quella che pensa, ragiona, escogita e così facendo non combina nulla che le piaccia; poi invece quella che si butta a capofitto, senza freni, divertendosi ed esponendo qualcosa che le appartiene realmente, e allora il risultato esce - e pure buono. E' la stessa cosa che mi succede nella fotografia, solo che lì ancora non sono passata alla fase Ungaretti. Sto iniziando a farlo, ma al momento mi viene meno naturale che con la scrittura. Non vedo l'ora della prossima lezione e sono certa che questo lavoro di pancia influenzerà positivamente anche il mio modo di scattare.

venerdì 10 febbraio 2012

Avere musica

Oggi scuole e uffici pubblici chiusi. "Emergenza neve" hanno detto, eppure qui è più secco di un Martini. Fatto sta che l'ufficio è semideserto, sono alla mia scrivania e da tutta mattina cazzeggio su internet, mostly Youtube e blog vari, cercando di ridurre a icona la nausea da stanchezza che mi accompagna da quando mi sono svegliata - sono tre notti che mi do allo slalom del sonno e prima o poi dovevo inforcare.
Al momento ascolto James Blake, retaggio del penultimo Within, e mi piace un gran tanto. E' di quella musica che ti entra sottopelle e ti fa desiderare di stare nell'acqua a pancia in su, a fare il morto a galla. In quell'occasione, la colonna sonora del set era stata Limit to your love, ma una sera che mi stavo facendo massaggiare da una ragazza che mi viene direttamente a casa - lo so, è un lusso meraviglioso, del resto un modo per fare due foto in Purgatorio bisognerà pur inventarselo - ho messo inavvertitamente in loop un'altra traccia dello stesso album, Unluck. E così per cinquanta minuti abbiamo sentito solo quella. La ciclica ripetizione di quel brano, le cui percussioni elettroniche a tratti ricordano il ticchettio della pioggia sul davanzale (combinazione, sta iniziando proprio ora a piovere), mi ha fatto stringere con esso uno strano legame, e adesso ogni volta che iTunes me lo propone mi sento a casa, coccolata.

Unluck suona ora, ma è stata preceduta da una lunga sessione di musica per archi. Stanotte, mentre mi godevo i brividi che certe tracce mi producevano, ho pensato concretamente di comprarmi un violoncello. Qualcuno di voi sa quanto ami questo strumento, che sento molto più affine a me rispetto a quello che sono stata indirizzata a suonare da piccola - il pianoforte - e penso che prima o poi mi cimenterò. Oggi ho voluto approfondire un po' le differenze sonore tra cello e viola, che è uno strumento forse meno noto, vicino al violino ma di dimensione un po' più grande (circa 40 cm. o superiori, il che non la rende fisicamente comodissima da suonare) e soprattutto con una timbrica differente, più generosa e rotonda del suo fratello minore. E' anche ascoltando la viola che stanotte ho fatto le tre e mezza, precisamente con la Valse Sentimentale di Tchaikovsky. Non posso dire di amarne il compositore allo spasimo, ma questo valzer è così dolorosamente malinconico che mi arriva dritto alla pancia. Apprendo che fu scritto nell'estate del 1882 - più di un secolo fa... la musica è l'unica espressione artistica veramente eterna e incorruttibile, insieme alla letteratura - durante un periodo di profonda crisi dell'autore, come ultimo pezzo di una serie di sei, tutti dedicati a donne diverse e commissionati in origine dalla rivista musicale pietroburghese Nuvellist. Per una decina di anni Tchaikovsky aveva viaggiato continuamente, in preda a un'inquietudine che non lo faceva sentire a casa in nessun posto. Trovata momentanea pace in un cottage vicino alla cittadina russa di Kamenka, compose la Valse Sentimentale per tale Emma Genton, educatrice dei figli del suo avvocato e amico Nikolai Kondratev. Questi sei pezzi in realtà furono composti per pianoforte, strumento con cui - guarda caso - l'autore non sentiva particolare affinità.

Parlando di sentire personale, tra i vari blog di questa mattina sono andata a rileggermi un post di Toni T., presente nei miei occhi in questi giorni con le foto che sto selezionando per Within, perchè ricordavo che tempo fa aveva scritto qualcosa a proposito di un concerto dei Massive Attack, che sono stati la colonna sonora del suo ritratto. Quando iniziai a scattare gli chiesi perchè avesse scelto quella traccia e lui mi raccontò, per sommi capi, la storia che trovate anche nel post. In diretta mi disse però una frase che mi colpì molto, perchè parlò di quello in cui i Massive Attack entrarono nella sua vita come un periodo durante il quale non aveva musica. Trovo che sia un'espressione quanto mai efficace nel suo illustrare, in tre parole, con lo sguardo e le pause giuste, uno stato di smarrimento psicologico. Per gente come noi, non avere musica equivale a non sentire e non sentirsi, come se si fosse altro da se stessi: non riconoscersi in quello che si vive, avvertire di non volerne fare parte ma rimanendoci impantanati. La musica è quella meravigliosa, intangibile linfa che nasce da mondi interiori e li porta all'esterno, si mischia con il vissuto e ritorna dentro, e avanti così in un continuo circolo di indubitabile bellezza e pervasiva energia.
C'è un passaggio nel post che vi ho citato, che ritengo particolarmente significativo:

In Massive trovai le note oscure, minacciose, sospese che giustificavano i miei sogni e le mie immagini più personali, trovai la colonna sonora alle fotografie più intime del mio archivio, riconobbi le vibrazioni ossessive che dimoravano nascoste sotto alla mia pelle e nel mio inconscio. La musica di Massive Attack mi aiutò ad accettare la parte oscura di me stesso, a seguire i segnali del mio cambiamento, diventò la mia migliore alleata, il mio nutrimento, era mio fratello.

La stessa matrice di sensazioni io spesso la avverto con gli archi di cui sopra. Nell'ambito del progetto Within, solo in un caso ho potuto fotografare in compagnia del violoncello: in occasione del ritratto di Anders Petersen, anche lui amante di questo strumento. Forse è per quel motivo che alla fine fui così sopraffatta dall'emozione: avevo scattato con una musica che conteneva le mie note. Mia alleata, nutrimento, fratello.

lunedì 6 febbraio 2012

We are lucky

Oggi vi racconto una Matrioska: una storia che ne contiene altre. Si tratta di un progetto che si chiama We are lucky, che un mio conoscente sta portando avanti da un po' di tempo. Riporto la storia per come la racconta lui, risparmiandovi la lettura in inglese dal sito, che linkerò comunque in chiusura per vostro approfondimento.

In breve, è successo che questa persona a un tratto si sia trovata a poter disporre di una grande somma di denaro, a suo dire più di quanto potrebbe mai aver bisogno di spendere nella sua vita. Decide di acquistare un biglietto per un volo spaziale con la Virgin Galactic. Parlandone con i suoi amici, si confronta sui differenti modi in cui essi avrebbero impiegato quella somma e si rende conto di quanto le loro idee siano più fantasiose, generose e responsabili del suo capriccio. Ci ripensa, cancella il viaggio ed elabora un progetto per "passare" la sua fortuna: decide di donare 1.000£ ogni giorno a qualcuno, affinchè utilizzi quella somma per fare del bene. Lascia alla discrezione di ognuno determinare cosa sia bene, limitandosi a chiedere di sapere in che modo vengano impiegati i soldi, scattare qualche ritratto per il sito e fare una piccola intervista in proposito a ognuno dei suoi beneficiari/benefattori. Il progetto sta quindi diventando una raccolta di storie su come ognuna di queste persone abbia ricevuto, materialmente e umanamente, questo tipo di offerta.
Uno degli aspetti interessanti che il mio amico cita è che a dispetto di tutto non è affatto facile donare quella somma ogni giorno: scegliere le persone con le quali collaborare in modo da non essere preso per pazzo, o cercare di non suscitare diffidenza. Dice che ci sono giorni in cui l'opportunità non si presenta e altri in cui gli è successo di elargire più di un "bonus" nel giro di poche ore.
A me questa cosa ha veramente colpito. Innanzitutto perchè ho letto le storie e mi sono resa conto di quante diverse applicazioni e implicazioni questo progetto stia avendo nel tempo, anche a seconda dei luoghi - come si confà a chi si può godere la vita, il mio amico sta girando il mondo e ha quindi la possibilità di venire a contatto ogni giorno con realtà e persone diverse, così il progetto diventa anche una sorta di "diario" dei suoi incontri e delle relative storie. In secondo luogo, mi è servito per fare una serie di riflessioni: come impiegherei io quella somma se me ne fosse data l'occasione? Una cosa che mi è subito stata chiara è che non la utilizzerei per me stessa e anche io a mia volta "passerei" la fortuna. Un po' perchè non è una somma che potrebbe cambiare la mia vita (mentre quella di qualcun altro sì), e un po' per quello che un gesto di generosità produce in chi lo mette in atto, ossia un senso di appagamento maggiore di quello egoistico. Il fatto è che non si tratta di semplice beneficienza: qui c'è una ratio differente, un esercizio non banale che attraverso la parcellizzazione della somma totale diffonde molto più capillarmente il suo senso, andando a smuovere la coscienza di tante persone che fino a quel momento non avrebbero mai pensato di donare qualcosa (o che magari lo fanno, ma in maniera diversa). In una parola, c'è un'idea. La sua forza sta nell'importo di ogni donazione, che in certi casi può fare la differenza. Riproporzionando la cosa su budget più normali, sarebbe come se ogni giorno dovessimo decidere di donare un euro a qualcuno: ma che ci si fa? E' per questo che di solito si finisce per destinare una somma più grande a un unico progetto, ma a mio parere è una cosa ben diversa, perchè non ha la stessa passione.

Vi lascio ora alle storie di We are lucky, buona lettura e... meditiamo sulle nostre fortune.

mercoledì 1 febbraio 2012

Within #18

Quella macchina è troppo nera per te.
Lo so, io odio il nero.
Appunto. Dovresti usarne una un po' vecchia, sai, di quelle che hanno una parte cromata... Anzi, neanche: dovresti usare una di quelle in cui guardi nel pozzetto, una Rollei. Perchè questa qui invece a un certo punto devi mettertela davanti alla faccia, coprirti, e...
... e io detesto staccare il contatto, dover andare dietro la macchina. Mi fa proprio incazzare!
Eh sì, si vede.

Quello in corsivo è Toni Thorimbert, nelle parole che mi ha detto non appena ho alzato la macchina fotografica verso di lui, all'inizio della sessione per Within. Senza dubbio il soggetto che mi ha messo più in crisi di tutti - ma lo sapevo, del resto non è una di quelle persone che passano senza lasciare segni. Feci con lui un workshop di ritratto lo scorso anno e ricordo bene quello che mi disse e il modo in cui mi fece sentire, e stavolta è stato lo stesso. Solo che dall'altra parte dell'obiettivo oggi c'era lui e tutt'intorno Protection dei Massive Attack.
Scatto i primi tre rulli, ma potrebbe averlo fatto chiunque: non sono male, ma la foto non esce, perchè non esco io. M'incalza, il tempo scorre. Aspetta che faccia quello che dovrei, ma io sono come bloccata a tre scatti dalla fine del terzo rullo. Lo finisco, perchè voglio ricominciare. Mi parla a lungo, articola un paio di metafore molto azzeccate, tocca due-tre corde fondamentali, ammetto due-tre verità su di me. Parole chiave, e si ricomincia. Nei due rulli che seguono c'è l'inizio di qualcosa che svilupperò nei miei prossimi progetti, qualunque essi siano. Perchè oggi concludo questo - l'ho pensato non appena sono uscita dallo studio. Magari in futuro lo riprenderò, non lo so. Ora ho bisogno di fermarmi un momento e lasciare che queste cose si siedano sulla mia pelle. Ce ne sono altre che voglio e devo fare per me stessa, prima di riprendere la macchina in mano. O anche continuando a tenerla in mano, ma ritrovando uno spirito che si è perso in me da tanto, troppo tempo.
M'incammino verso Corso Sempione con la mia immancabile musica nelle orecchie e, mentre mi esce fiato fumoso nell'aria gelida, guardo in faccia la neve che mi accarezza cadendo, leggera.