lunedì 28 gennaio 2013

Farina di Chaplin


C. Chaplin, 1916

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito com'è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri, pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta, anche se quella persona ero io. Oggi so che questo si chiama "rispetto".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di desiderare un'altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere. Oggi so che questo si chiama "maturità".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre ed in ogni occasione al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene. Da allora ho potuto stare tranquillo. Oggi so che questo si chiama "stare in pace con se stessi".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro. Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi. Oggi so che questo si chiama "sincerità".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato di tutto ciò che non mi faceva del bene: persone, cose, situazioni e tutto ciò che mi tirava verso il basso allontanandomi da me stesso; all'inizio lo chiamavo "sano egoismo", ma oggi so che questo è "amore di sé".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di voler avere sempre ragione. E cosi ho commesso meno errori. Oggi mi sono reso conto che questo si chiama "semplicità".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono rifiutato di vivere nel passato e di preoccuparmi del mio futuro. Ora vivo di più nel momento presente, in cui tutto ha un luogo. E' la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo "perfezione".

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che il mio pensiero può rendermi miserabile e malato. Ma quando ho chiamato a raccolta le energie del mio cuore, l'intelletto è diventato un compagno importante. Oggi a questa unione do il nome di "saggezza interiore".

Non dobbiamo continuare a temere i contrasti, i conflitti e i problemi con noi stessi e con gli altri perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi. Oggi so che tutto questo è la vita.


(Charlie Chaplin)

venerdì 4 gennaio 2013

Doppler

Un ritorno caloroso, non caldo. La casa è sempre troppo fredda.
Riconosco i volumi, ne riprendo misura. Mi sorridono un poco, mi pare.
L'occhio cade su un angolo tra pavimento e muro, raggiunto dal pensiero che in questo spazio mi è possibile scrivere. Non ci sono disturbi, e ciò che mi urta è solo mia responsabilità.
Non c'è molto da mangiare, apro la dispensa e trovo scatole di sapori noiosi. Li assumo ugualmente, come si fa con le medicine da prendere con cadenza regolare - al gusto penserò domani. Domani. Sono niente rispetto all'enormità del suono acerbo della sveglia, e quando salgo le scale verso l'ufficio mi sento un eroe. Davvero riesco a fare questo tutti i giorni?
E' il mio compleanno. Tantissime voci ovunque, anche quelle che non ho voglia di sentire. Ringrazio, continuamente. Pensano a me, è una bella cosa. Lego il motorino fuori dalla piscina e sorrido dell'automatismo inconscio del Ah è il tuo compleanno? Auguri! Auguri di cosa? L'importante è farli. Tutti quel giorno lì, strabordanti, e poi basta. La parabola discende verso la fine del giorno, malore e malessere. Cerco di affogarlo nell'acqua, ma è denso e galleggia bene. L'istruttrice mette della musica davvero tremenda, ogni volta mi riprometto di non andare alla lezione del giovedì, ma cosa vuoi. Basta avere quei dieci minuti di acqua bollente dopo, con il costume appeso davanti a me nella piccola cabina. Gocciola. Lo strizzo. L'acqua scende verso il cavallo e riprende a gocciolare. Lo strizzo di nuovo. E intanto penso, poi osservo. Le donne che escono dalle docce hanno corpi umani, imperfetti in un modo confortante. Ma non sono attraenti, non c'è femminilità nel portarsi. Sono tutte diverse e su ognuna la vita ha lasciato segni.
Non ero così magra da tempo. I jeans formano pieghe vuote prima inesistenti, si aggrappano ai miei fianchi come mani appese alle pareti di una roccia. Sono mani forti, non molleranno la presa.
Non spengo candeline, non soffio desideri. Non stappo bottiglie, non bevo ebbrezza. Ma per un attimo di fiori e baci sorrido, e il profumo resta a farmi addormentare.
Di nuovo in ufficio, sala d'attesa di un turno che non arriva. Quanti numeri mancano? Tutti quelli delle mie qualità inespresse. Occupo il tempo come fossi in doppia fila, con il senso di colpa del posto sbagliato al momento sbagliato. Prima o poi qualcuno andrà via e mi lascerà spazio. Ovviamente quel qualcuno sono sempre io.
Cosa devo dire. La luce attraversa i pensieri come un'auto in corsa nella notte. Effetto Doppler su buio inquieto.
Presto farà giorno.

mercoledì 2 gennaio 2013

Ultim'ora

L'ultimo banco, territorio del sotterfugio e del casino.
L'ultima fila in pullman, seduta più ambita nelle gite scolastiche.
L'ultimo giorno di scuola, cuscinetto tra il colpo di reni finale e la libertà.
L'ultimo anno di università, soglia di una vita che presto cambierà in tutto.
L'ultima sigaretta che ha accompagnato un dolore.
L'ultimo respiro che è la morte, già intravista così spesso tempo prima nei picchi più alti dell'arte.
L'ultima volta che hai visto chi ami, così piena di bellezza che non osi sfiorarla per non romperla.

In tutto ciò che è ultimo c'è un senso di desiderio. Un elastico che tira di qua e di là, dibattendo le sorti di presenti vicinissimi e indissolubili. Malinconia e smania, paura ed entusiasmo, conforto e ignoto.

Questa in cui scrivo è l'ultima ora dei miei trentatrè anni. Mi sento dentro tutta l'energia delle ultime cose, e non mi preoccupo delle prime a venire. Anche se spesso mi sento ultima, a rincorrere quello che non capisco e che credo di volere, io sono qui e ora. A ricordarmi che l'ultim'ora è quella delle notizie appena battute, delle cose colte da poco. Fresche ed eterne nel presente.

Vasco Rossi - Tabularasa

La mia copia di Tabularasa ha già gli angoli vissuti. Si fa guardare e consumare, e secondo me un po' rovinato è anche più bello. Per chi non lo conoscesse, sto parlando del libro fotografico su Vasco Rossi di Efrem Raimondi e Toni Thorimbert, edito da Mondadori e in vendita da circa un mese. Un libro da avere, e ora provo a dirvi perché.

Un viaggio di ventisette anni intorno a Vasco Rossi, si legge nella prefazione degli autori. Dal 1985 ai giorni nostri. Nessuna foto in copertina, dove i grandi caratteri del titolo la fanno da padroni su uno sfondo grigio. Ci passi sopra le dita e ti accorgi che sono stampati a impressione. Riconosci nei polpastrelli la sensazione piacevole che ti danno le cose curate nei particolari.
Innanzitutto si tratta di un libro di fotografia. Solo le immagini hanno quel particolare potere di attrazione immediata che "ti tira dentro", senza darti modo di uscirne finché non ti hanno raccontato tutta la storia almeno una volta per intero. Magari dovrai riguardarla ancora per capirne tutti i significati, ma questo libro il tuo fiato iniziale se lo prende tutto, senza disturbarsi a chiedertelo per favore. Con le parole non è la stessa cosa, quelle hanno modi più pacati e tempi più dilatati. Qua di parole, prefazione e didascalie a parte, non ce n'è neanche una.
Quindi un libro di fotografia, e su Vasco. Nelle sue diverse vesti: sul palco e fuori da esso. Un grande ritratto, fatto di molti ritratti. Gli sguardi sono quelli di due fotografi differenti per stile e contenuti, ma che tra queste pagine s'incontrano sul territorio di un linguaggio che ha le stesse caratteristiche di schiettezza ed efficacia.
Le immagini si muovono come chi le ha realizzate. A volte questo moto è simile a quello di un animale a caccia: davanti, dietro, di fianco alla rockstar. In altri casi è invece insieme all'uomo, come in un dialogo quasi intimo. Dietro all'immagine del Vasco che tutti abbiamo in mente - quella sul palco davanti a migliaia di fan - qui c'è tutto un mondo che non solo si mostra ma anche coinvolge. E questo a prescindere dalla passione che si può avere per il cantante e i suoi lavori: quella che si ha in mano con Tabularasa è la storia di un uomo e di un mondo, e la sola decisione sensata riguarda il volerla ascoltare o meno, senza (pre)giudicarla.
Dunque è questo che ho fatto: mi sono messa in ascolto, provando a sentire la voce di questa storia. Dapprima ho percepito il racconto, puro e semplice, nel suo insieme. Poi ho attivato altri canali, alla ricerca degli strumenti che componevano l'orchestra. Recentemente ho trovato spunti connessi a questo discorso in un libro di Daniel Barenboim (*), famoso pianista e direttore d'orchestra. Vi si legge: In musica, niente è indipendente. La musica esige un equilibrio perfetto fra intelletto, emozione e carattere. (...) La gerarchia che vige in tutta la musica rispetta l'individualità di ciascuna voce, che può non avere gli stessi diritti, ma certo ha la stessa responsabilità di tutte le altre.  Applicando questo concetto a Tabularasa, il senso di questa responsabilità delle voci è subito chiaro: ogni fotografia è individuale, ma non indipendente dalla musica che il libro sta suonando. Ed è il frutto di un incontro fra intelletto, emozione e carattere di chi la realizza. Il senso della gerarchia forse qui può sfuggire, perché le immagini di questo libro sono tutte molto forti. Come se l'orchestra fosse composta di strumenti che da un momento all'altro possono fare tutti i solisti. E allora diventa interessante ascoltarle tutte, queste voci. Per  capire fino a che punto siano soliste.
In un certo senso, dentro a Tabularasa, accanto a Vasco Rossi, ci sono altri due cantanti: Efrem Raimondi e Toni Thorimbert. La voce di un autore è il suono della sua storia, ed è ciò che la rende viva. Nel concetto di voce ho trovato la chiave di lettura alle peculiarità delle fotografie dell'uno e dell'altro.
Le foto di Toni hanno una voce colloquiale, quelle di Efrem una informale. Mi spiego meglio, anche attraverso alcune immagini tratte dal libro.

Quando si parla in modo colloquiale, si va abbastanza a ruota libera, accantonando volutamente certe forme. Non è però una modalità senza regole, anzi. Così come fotografare colloquialmente non significa tralasciare il senso dell'inquadratura o altri elementi che contribuiscono a fare la foto. Quello colloquiale è un tono che presuppone una certa confidenza con chi guarderà l'immagine, ed è un atteggiamento che rispecchia una personalità di un certo tipo, un modo molto diretto d'intendere le cose. Come se intercorresse una conversazione con lo spettatore, per cui il fotografo dicesse, più o meno con queste parole: sono dentro una storia, vedo queste cose e le fotografo: la storia diventa la mia e te la porto. L'arco temporale delle immagini di Toni è quello tra il 1985 e la fine degli anni novanta, quello quindi di un Vasco nel pieno del suo essere rockstar. Le foto che risultano dalla colloquialità di Toni sono ritratti intensi, situazioni spesso raccontate con uno stile da reportage: vive, ironiche, sudate, dannate. Ti mettono lì anche se pensavi di essere altrove. Una potenza.









Efrem: voce informale. E' un tono che non è eccessivamente confidenziale, forse più timido, senza tuttavia essere formale. Nell'informalità c'è molto spazio di manovra, e infatti vi s'intrecciano immagini caparbie e irriverenti con altre d'impostazione se vogliamo più tradizionale. Il gioco delle parti tra Vasco ed Efrem è diverso da quello tra Vasco e Toni. Efrem parla attraverso molti primi piani, le sue foto sono più vicine alla ritrattistica in senso stretto che al reportage. Mi pare che Efrem faccia emergere da una parte un lato più teatrale di Vasco, dall'altro la coscienza della sua maturazione di uomo, oltre che di cantante. Questo è acuito anche dal fatto che le foto di Efrem partono dal 2000, dunque un'epoca più recente, sempre rock ma in un modo un po' diverso. Ancora, sentiamo lo sguardo penetrante di Vasco che ci incrocia e arriva attraverso le fotografie di Efrem in tutta la sua verità. Efficacissimo.








Toni ed Efrem mostrano un approccio alla spettacolarità e all'intimismo differente, con un denominatore comune: quello di provare a mettercisi dentro completamente. Questa interessante commistione dà corpo e ritmo alla sequenza delle immagini, che diventano libro perché si amalgamano come gli elementi di un'orchestra, pur conservando ognuna la propria individualità e la propria voce. I due autori sono fra loro complementari, e non solo per ragioni prettamente cronologiche. Il libro non potrebbe esistere se mancasse uno dei due - almeno, non in questa forma. Sarebbe un'altra cosa, e sarebbe come monca. Una melodia non armonizzata.
Un'esecuzione unica e irripetibile quella di Tabularasa. E meno male che Vasco odia essere fotografato.


(*) D. Barenboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli 2007