venerdì 21 gennaio 2011

Blind date

Ancora prima di uscire di casa sapevo che avrei passato il resto della serata a scrivere, perchè quello cui mi stavo dirigendo era l'appuntamento per me più atteso degli ultimi mesi: "Blind date", il concerto al buio di Cesare Picco. Ero emozionata quando ho spento la luce prima di chiudere la porta, consapevole che al mio ritorno nulla sarebbe stato lo stesso.
Mi trovo un po' in difficoltà nell'affrontare questo post. Innanzitutto perchè, ancora presa dallo scombussolamento dell'evento, non ho ancora pienamente recuperato il linguaggio verbale. In secondo luogo perchè mentre ero nel teatro ero una tela sulla quale le emozioni arrivavano addosso come secchiate di vernice, mentre adesso, per essere efficace nelle mie descrizioni, devo cercare di tornare in quel mondo dalla sedia su cui sono seduta, nella mia camera. Mi aiuta il fatto di essere venuta poco fa in possesso della registrazione del primo "Blind date" (avvenuto nel 2009 a Milano), in vendita all'uscita dal concerto insieme agli altri dischi di Picco, che in parte possedevo. Ma ora basta con tutti questi cappelli introduttivi... togliamoceli e vediamo di tornare a teatro.

"Si suona ad occhi chiusi, al buio e a memoria." (F. Chopin)

Le luci calde dei riflettori bagnano il palcoscenico per i primi minuti. Lentamente i volumi si perdono in semplici e sottili linee gialle. La tastiera del pianoforte diventa un mare calmo di piccole fiamme, le cui bave si alzano e si abbassano accarezzate dalle mani di Cesare. Rimane un solo occhio di bue verticalmente sopra alla sua testa. I miei bulbi si aggrappano agli ultimi centimetri di contorni rimasti, fino a perdersi del tutto nel buio più totale. Come se avessi mollato la presa del salvagente, mi lascio trasportare dalla corrente, con fiducia. Eppure sono distratta dall'assenza della vista. Non riesco a concentrarmi sulla musica, perchè sto sperimentando tutto il resto di me che normalmente dimentico. Capisco di essere presente con tutta me stessa lì, in quel momento. La mente continua a lavorare. Mentre le arti figurative come la pittura non godono dell'immediatezza dell'attimo - e nemmeno la fotografia lo fa completamente - l'improvvisazione musicale ha questo carattere d'indubitabile contemporaneità tra il concepimento e la nascita dell'idea. E' lì con te, sta accadendo in quel momento, e mai sarà uguale in un altro istante del mondo. Cesare è il tramite geniale di tutto questo: lo cerco - senza realmente cercarlo - con lo sguardo e mi accorgo di avere gli occhi spalancati. Non sento nemmeno il bisogno di sbatterli. La fronte è sollevata, la bocca contratta. Ogni parte di me è protesa all'ascolto di lui e di me stessa. La musica scivola da melodie morbide e delicate a sussulti gravi e dissonanti, lasciandosi fare a tratti compagnia da suoni quasi psichedelici, percussioni delle mani sul legno, graffiate direttamente sulle corde, forti respiri e deboli fischi del pianista. Le sonorità di Gershwin, Debussy e lo stile dei pezzi di Picco si mescolano in un insieme indefinibile. Sonaglietti agitati e quasi liquidi mi fanno pensare a branchi di piccoli pesci colorati. Ho gli occhi lucidi e lascio scendere le lacrime sulle guance. Le asciugo con le mani e mi rendo conto che nessuno ha potuto vedere questi gesti accadere. E' talmente buio che, se mi avvicinassi al volto di qualcuno senza far rumore, questi non potrebbe accorgersi della mia presenza. Sono libera. Di piangere, di sorridere, di toccare il mio viso. Senza essere vista. La percezione del tempo che passa mi fa temere il momento in cui tornerà la luce e quando questo avviene ne sono infastidita. Sarei rimasta al buio con la musica di Cesare per molte altre ore. La luce mi offre però un altro spunto: mentre suona, lui è la musica. Il suo corpo è a totale servizio di essa e si contorce, si alza e si siede, inquieto. Come se avesse dentro una forza che lo muove indipendentemente dalla sua volontà. Dall'inizio alla fine, non ha mai aperto gli occhi; non guarda nemmeno la tastiera. Le luci in sala si riaccendono e lui si appresta a suonare le ultime note. Sembra concludere sulle più alte, che rotolano lentamente una dietro l'altra come briciole. Ma poi decide di offrire loro un contraltare, con un unico tasto bassissimo. Insieme, terra e cielo si toccano, piano piano. Cesare tiene i tasti schiacciati fin quando le note non si addormentano, lasciando cadere le dita con la forza di gravità, sotto la tastiera. Silenzio in sala. Un miracolo di contemplazione della magia. E poi, gli applausi.
Dopo diverse uscite e rientri sul palco, Cesare prende la parola. E' visibilmente provato, io sono in terza fila e vedo le sue mani tremare leggermente. Muove nervosamente piedi e gambe, cercando di riprendere fiato mentre ringrazia tutti per l'energia che ha avvertito da parte di ciascuno di noi. Parla del suo concetto di "Blind date" e passa quindi al bis: "Hikari" (che in giapponese significa "luce"), un pezzo da lui composto e ispirato ad una leggenda secondo la quale una volta all'anno l'imperatore andava da solo nei giardini reali di Kyoto a contemplare il tramonto per tutto il suo popolo. Ecco quindi tornare la musica in una nuova veste, dopo un concerto che è già stato tramonto, notte e alba: una ciclicità di cui si diventa parte, come il naturale e quotidiano alternarsi della luce e del buio.

lunedì 3 gennaio 2011

In the mood for Wong


L'ho fatto di nuovo: ho imparato a memoria la colonna sonora di un film prima di vederlo. E così, quando ieri in treno ho guardato "In the mood for love", mi sono sentita completamente avvolta nelle sue atmosfere come se in qualche modo ne fossi già parte da giorni. Dopo le prime concitate scene di solo parlato, come una regina che si è fatta attendere da una sala gremita di ospiti, arriva lei: la già nota su queste pagine "Yumeji's theme". Mi sono lasciata sorprendere dalla sua delicata eleganza, mentre accompagnava i miei occhi sulle riprese al ralenti della sinuosa camminata della protagonista. Mai mi sarei aspettata un'entrata così regale e rotonda per quella musica già splendida di suo. Compare ciclicamente nel corso del film, come un ritornello che ha una propria vita: è quasi essa stessa un personaggio, una prima donna. Quando essa recita nessun altro parla e rimane unica voce della scena fin quando non decide di lasciare il campo. Io non posso fare a meno di sorridere ogni volta che gli archi cominciano a pizzicare, godendomi tutto il rituale che portano con sè: il punto di ripresa è all'altezza della vita e rigorosamente da tergo, le forme curve e snelle dei corpi femminili che si muovono tra i corridoi e le stanze delicatamente illuminate sembrano sciogliersi nelle nuvole di fumo espirate dai personaggi misteriosi, che si sussurrano a vicenda frasi che paiono segreti. Il ritmo della camminata è sincronizzato con quello della musica e "tira" lo spettatore ipnotizzandolo dolcemente. Gli abiti si pennellano sui fianchi e salgono a colmare il corpo di eleganza fino alla nuca, come a voler chiudere in pacchetti perfettamente sigillati una sensualità che non si può imprigionare perchè trasuda attraverso tessuti che sembrano dipinti a mano. I movimenti della macchina da presa seguono quel lento incedere che narra, da solo, un'intera storia, inframmezzati da carrellate laterali che accompagnano e uniscono lembi di vite che s'incrociano simultaneamente, come nastri di un fiocco che si forma con delicatezza allacciando l'uno all'altro i due rassegnati protagonisti.
Infiniti silenzi interiori, paure, dolori, incertezze s'intingono nell'onnipresente gesto del cibarsi: ora di aromatiche zuppe, ora di succose carni, ora di spaghetti di riso. Di tutto ciò che è caldo conforto e condivisione della propria fragile umanità: il cibo visto come ponte tra due solitudini, come contraltare di una quotidiana deglutizione di amarezze. Le cupe atmosfere interiori sono ulteriormente inzuppate da violente piogge improvvise, sotto le quali si consumano, in contrapposizione con il disagio dell'umidità, gesti di tenerezza in attimi sospesi nel tempo. Così come atemporali sono le realtà parallele che i protagonisti vivono di riflesso: il Giappone e l'"estero", dimensioni indefinite dell'adulterio; oppure piccoli mondi che essi stessi creano (la simulazione di una confessione), o che si ritagliano per uscire dalla consumante malinconia (la stanza di un albergo). In tutto questo, delizia assoluta la fornisce un Nat King Cole che, con le sue "Aquellos ojos verdes" e "Quizàs, quizàs, quizàs", conferisce un che di esotico alle atmosfere orientali dell'ambientazione: la romantica leggerezza delle melodie non smentisce nei testi delle canzoni lo stato che avvolge i personaggi principali. Un sentimento d'incompletezza li pervade in un gioco di sottili riflessi: dialoghi che sembrano costruiti specularmente, a dipingere non solo le stesse interiorità ma, ironicamente, anche gli stessi fatti che le determinano. Il doppio impregna ogni cosa. Come non perdersi nell'amore per qualcuno quando quest'ultimo non è che un altro se stesso? Questo amore non trova mai totale ed eclatante sfogo, ma al tempo stesso si compie ugualmente nell'ambito dell'illusione che attraversa l'intera vicenda. Esso non pretende nulla di più di quanto lo ha generato: non il desiderio, ma la condivisione di uno stato.
Ultima, ma non meno importante nota, i colori: rossi profondi, ocra, verdi, beige e grigi caricano la pellicola delle stesse note emotive narrate nella storia, con una cura e un accordo tra i diversi elementi della scena davvero notevoli. I luoghi stessi raccontano così le pieghe dei segreti di un incontro generato di riflesso da altri incontri, facendo da vivo sfondo a gesti di una quiete incredibilmente composta. Ricco di simbolismi e scomposizioni, questo film ha molte chiavi di lettura, tanto che meriterebbe di essere visto e rivisto per metabolizzarle tutte. L'ho adorato, veramente. Un mood for love raccontato così ti si cuce addosso come un vestito del quale non vorresti spogliarti.