martedì 26 febbraio 2013

Chiaro di luna

A un saggio (avevo dieci anni) suonai il Chiaro di Luna di Beethoven. Presi male l'ultima nota ma la portai a termine, la gente rise, io buttai il violino e scappai, applauditissimo.

Parla Dino Risi, in un libro (bellissimo) che sto leggendo ora: I miei mostri. E immediatamente l'aneddoto ha fatto emergere un mio mostro.

Quel giorno, al mio saggio, suonai un Valzer di Chopin e, guarda caso, proprio il Chiaro di Luna di Beethoven. Non sbagliai l'ultima nota, ma qualcosa - non ricordo con precisione, credo un problema di audio all'inizio - andò storto. Nessuno rise di me, tutti applaudirono. Uscii dal palco da una quinta laterale, per tornare in sala dove mi aspettavano i miei genitori. Era il teatro dell'oratorio della Chiesa Rossa, sui Navigli. Non ci ero mai stata prima, e c'era un gran sole. Quel posto mi era subito piaciuto, immerso com'era in uno strano silenzio. E poi aveva il gusto della Milano che non vivevo, forse ci ero passata solo una volta in bicicletta. Qualche anno fa vi ho scattato un matrimonio, ma nessun ricordo di quel giorno lontano è affiorato. Troppo concentrata, probabilmente.
Dunque, uscii dal palco e passai per un cortile esterno - ricordo la luce di taglio, certe sagome di luce triangolari sul muro. E lo ricordo perchè quei triangoli li fissai, mentre da sola piangevo. La delusione per l'errore? La tensione? Rimasi lì qualche minuto, e poi con occhi rossi traditori tornai dai miei, che mi chiesero perchè mai avessi pianto. Anche il mio maestro mi rassicurò, dicendo che ero andata benissimo. In effetti, senza false modestie, avevo suonato meglio di tutti.
Lui si chiamava qualcosa come Bonetta, mi pare. Suonava il Tico-tico velocissimo - che cagata da pianobar. Non lo rividi più, dopo quel giorno. Non volli più andare a lezione da lui - teneva il corso di pianoforte alla KF Ricordi di Piazza Napoli - perchè, qualche giorno prima del saggio, era successo qualcosa che non avevo raccontato ai miei. I ragazzini hanno spesso grosse remore a farlo, quando si tratta di episodi di cui hanno in qualche modo vergogna. Avrò avuto tredici, quattordici anni al massimo. Non ero una donna, ma neanche una bambina. Ingenua, moltissimo. Davo per scontato che un insegnante dovesse essere una persona professionale e integerrima. Qualche giorno prima del saggio, erano le ultime prove. Andai allo studio un pomeriggio, e suonai entrambi i pezzi che avrei portato. Feci qualche errore. Suonavo troppo piano, le dita insicure. Il pensiero del saggio che si avvicinava mi aveva messo in tensione. Non mi è mai piaciuto suonare in pubblico. Anzi, l'ho sempre detestato. Ancora adesso, suono per qualcuno solo se è una persona molto, molto vicina a me. Insomma, quel giorno ero un po' tesa. Il maestro mi disse di fermarmi un momento. Di fare qualche respiro profondo. Mi diede una carezza sulla testa, ma sembrava un gesto rassicurante. E poi lo fece. Mi mise una mano sul petto. A mano aperta, impertinente. Senti come ti batte forte il cuore, disse viscidamente mellifluo. Aveva uno sguardo strano. Non saprei dire se sorridesse o fosse serio. Io mi scostai, lo guardai sconcertata. Confusa. Non capivo cosa fosse stato quel gesto, se avessi frainteso io. Sul momento non dissi niente, nessuna prontezza di riflessi - come avrei potuto averne? Forse suonai ancora una volta, e poi me ne andai, fredda, con addosso un forte disagio. Per giorni mi tenni tutto dentro, con la sensazione di essermi sbagliata. Il senso di colpa, in un minore, ce l'ha sempre vinta.
Nel tempo, seppi leggere perfettamente quel pianto, il giorno del saggio. Non era per la mia performance. Dissi ai miei che non volevo più prendere lezioni da lui, ma accampai una scusa - probabilmente la buttai sul tecnico, dissi che la sua didattica non mi piaceva.
Smisi del tutto di suonare. Aprii gli occhi, per la prima volta.
Ricordo ancora la sua faccia.

giovedì 7 febbraio 2013

At the movies

In quel piccolo cinema si arrivava sempre un po' in ritardo, scendendo a passi piccoli e affrettati verso il paese. Seguire l'andatura della mamma metteva il fiatone, e l'aria fredda lo rendeva divertente da guardare mentre usciva dalla bocca. Pareva di fumare, e ci si sentiva un po' grandi. Vagamente necessari.
Era inverno anche d'estate, là. Io credo che ogni luogo abbia la sua stagione genetica, un'indole climatica che ne rispecchia i tratti. Persino quando l'erba non era più bianca e le strade erano asciutte, si respirava la stessa aria nevosa dei mesi più freddi.
Al cinema si entrava da una porta di legno a lato della chiesa parrocchiale, in fondo a un breve vicolo stretto tra due alte pareti di pietra. Più di ogni altra cosa ricordo la cordigliera di teste dei bambini seduti davanti a me, e tanto rumore infantile: risa, chiacchiere, movimenti continui. Eravamo sempre in fondo, talvolta in piedi, appoggiati con la schiena alle ginocchia dei genitori. Vedi, ad arrivare in ritardo. 
Per un attimo tutto si spegne, e lo schermo frastagliato inferiormente da quel mare mosso di bambini prende vita.
Titoli di testa.

Incanto.