venerdì 30 ottobre 2015

Back to black?

Un tempo la seconda serata in tv faceva da contraltare a un prime time imbarazzante. C'erano I bellissimi di Rete 4, ricordo. E un sacco di film stupendi che iniziavano alle due di notte e dovevi programmare il videoregistratore per vederli. Io devo alla prima serata dagli anni '90 in poi gran parte delle mie lacune cinematografiche, che poi sono una delle poche cose che proprio mi imbarazza ammettere quando mi trovo a parlarne con chi è cresciuto a pane e film. Quindi cerco di rimediare, ma non è una faccenda semplicissima perché molte cose neanche si trovano facilmente.
Stasera ero qui a sbrigare qualche faccenda pseudo-lavorativa con la tv accesa, appena finito un film su Iris - una delle poche reti che proponga cose guardabili. Giro il canale e finisco sui titoli iniziali di un film della Comencini, nello specifico "Mi piace lavorare (mobbing)". Fin dalle prime scene un senso di disagio mi percorre la schiena. Avete presente i barboni che ogni tanto salgono sui mezzi e ancora prima di averli visti ti accorgi della loro presenza per via della puzza? Ecco, le produzioni italiane hanno quella roba lì: nella maggioranza dei casi ti urtano immediatamente, come se fossero tutte pervase da qualcosa che le rende uguali una all'altra negli aspetti peggiori. Prima fra tutte la recitazione. Non voglio accanirmi sulla protagonista del suddetto film perché sarebbe come sparare sulla Croce rossa, ma l'esempio è sotto il naso e non posso non coglierlo. Nicoletta Braschi parla come se avesse qualcosa in bocca, ma non di forma smussata e gestibile: somiglia più a un oggetto spigoloso, che lei non sa bene dove mettere. E la Braschi dovrebbe essere la "star" del film, perché gli altri sono attori sconosciuti. I dialoghi sono imbarazzanti, tutti cercano di fare i naturali-grezzi ma fanno delle pause che nessuno fa mai quando parla normalmente. È tutto costruito, forzato, niente scivola. Quando penso a Ferruccio Amendola che doppia De Niro sembra il motore di una Ferrari, ed è qui che inizio a deprimermi. Perché mi chiedo dove sia finito il buon cinema italiano, e intendo sia quello di prima categoria, il più conosciuto, quello dei grandi registi noti a tutti, sia quello considerato di serie B. Mi chiedo quando tutto abbia iniziato ad andare a catafascio. Gli anni '70 e '80 sono stati decenni di forte identità culturale, e hanno prodotto cose senza dubbio interessanti in ogni campo. Non a caso, sono fonte d'ispirazione per qualsiasi revival e oggetto di innumerevoli citazioni di qualità. Il declino è iniziato negli anni '90, e io me li ricordo perché sono stati proprio quelli i "miei" anni, quelli in cui cominciava l'adolescenza e il conseguente risveglio dal torpore critico dell'infanzia. E mi chiedevo, giuro, lo facevo: ok, i settanta e gli ottanta sono stati decenni chiarissimi, importantissimi, così definiti, ma i novanta... cosa sono? Senza scherzi, cosa li avrebbe resi indimenticabili? Io li stavo vivendo e non riuscivo a dire cosa, veramente, rappresentassero. Internet nelle case ancora non c'era, e le finestre sul mondo erano rappresentate soprattutto dalla tv. Tutti sappiamo cosa si stesse sviluppando proprio in quegli anni nella televisione italiana, e ad opera di chi, ma non sono qui a far polemica politica. Il mio discorso vuole essere più ampio. Seppur priva degli strumenti critici che mi permettessero di comprendere quello che stava accadendo intorno a me, capivo che qualcosa si stava perdendo per strada. I novanta per me sono stati anni subdoli, perché covavano una trasformazione culturale che si sarebbe poi realizzata pienamente solo nel nuovo millennio, ma lo facevano zitti zitti, a piccoli passi, senza le forme eclatanti e le tinte forti dei decenni che li avevano preceduti. E mentre tu eri preso a distrarti con le modernità su larga scala che lentamente miglioravano gli aspetti pratici della vita quotidiana, le automobili cominciavano a smussare i propri angoli. Che belle erano invece le auto di un tempo. Avete presente quando capita di vedere vecchie fotografie e ci sono dentro delle macchine? Ci stavano da Dio. Erano belle, un design fantastico. Una popolazione urbana esse stesse, con un carattere forte. Se guardate una foto scattata oggi e c'è dentro una macchina, la foto è rovinata. Fa proprio schifo! A me 'sta cosa della modernità che ha piallato tutto a partire dagli anni '90 amareggia sul serio. Io sto scrivendo questo pezzo ascoltando Stelvio Cipriani e Franco Micalizzi, e li ho scoperti guardando proprio i B-movie da cui i cosiddetti registi italiani dovrebbero imparare il proprio mestiere. È musica che ti porta in un altro mondo, e quando spegni è come se ti risvegliassi da un sogno e tornassi, deluso, alla realtà. Io avrei voluto appartenere alla generazione dei miei genitori, sicuramente mi avrebbe calzato meglio. 
Ho abitato a Roma per otto anni con la voglia di tornare a Milano, e quando ho finalmente traslocato mi sono accorta che la mia città non era più quella che avevo vissuto prima di Roma. Saltando otto anni della sua storia ho reagito come quei parenti che non ti vedono per tanto tempo e ti dicono guarda come sei cresciuto, eri piscinin inscì! e quasi non ti riconoscono. Quando ci sono tornata a vivere, Milano era in piena beauty farm, tutta intenta a ripettinarsi. I vecchi riferimenti non c'erano più, i quartieri avevano preso nuove forme, e la cosa peggiore è che la città tutta - e le persone, anche - stava diventando come le macchine con gli angoli arrotondati che per me avevano segnato la rivoluzione estetica degli anni '90. Tutta altamente performante, la metropoli aspirazionale e ottimizzata, con tutte le cose al posto giusto, verso un'efficienza che però rimane velleitaria. Perché così com'è a me sembra tanto un trucco ricalcato su un make-up vecchio e sporco, che per pigrizia non si è prima ripulito. Immensa vetrina di una qualche idea che chissà da dove e perché abbiamo mutuato. Milano è infotografabile, se non ti cerchi i posti e i modi giusti - il che è già uno snaturare le cose. D'altro canto puoi fotografarne benissimo il disagio, ma ormai lo fanno tutti e tra l'altro, paradossalmente, è diventata anche questa una cosa un po' hipster.
Non posso dire di conoscerla a fondo perché come per i famosi barboni che puzzano uno cerca di non stargli troppo vicino, però Milano un po' l'ho girata. E ovunque vedi questi locali pretenziosetti, tutti fighettini e un po' hipster, wannabe design, una sorta di evoluzione mal riuscita del tu vuo' fa l'americano ma con la presunzione dell'eccellenza italiana - che poi cosa sarà mai tutta questa eccellenza? Questi posti, queste vie con tanta forma e nessuna anima. Dove sono finiti i contenuti in una realtà concentrata sui contenitori? Io sono una alla quale piace la sostanza. Sarà per questo che la mia testa non sta mai ferma, che rompo le palle criticando le cose, che ho una cabina armadio piena di vestiti che non uso più da quando non faccio più l'impiegata e mi metto sempre gli stessi due-tre jeans anche quando ho ormai cambiato taglia e mi scendono. Io con tutta 'sta città aerodinamica, i grattacieli vuoti, la settimana della moda con le blogger e le influencer che si fanno fotografare, 'sto cinema alla Paolo Sorrentino, la classe politica da puttanelle e risse da bar, questo grande videogame dove vince chi frega di più, tutta questa gente intorno a me che ci crede tanto ma che non si accorge di non credere più a niente, veramente... non c'entro niente. Non lo so dove debba andare, cosa debba fare, in quale nicchia infilarmi per non vedere tutte quelle macchine senza poesia nelle mie foto, per sfuggire ai nuovi linguaggi che servono solo a supplire a una mancanza di contenuti. Cosa mi fai vedere gli stuzzicadenti e le ciabatte dei migranti fotografati tutti dritti in pianta con le luci perfette, cosa mi stai raccontando del loro dramma, della loro storia? Su Time ancora gira una serie di foto, sempre sui migranti, che mostra le persone attraverso le zone di calore dei loro corpi nell'ambiente... Per non parlare di tutte quelle robe pittoriche iper-photoshoppate e orrende che sbancano i concorsi fotografici. Ma di cosa stiamo parlando? Dove stiamo andando? E poi siamo mangiati vivi dall'ansia del nuovo-ad-ogni-costo, con tutti che devono per forza emergere per dimostrare di non essere dei falliti. 

Io oggi mi sento peggio di quando mi accorgevo che gli anni '90 ci stavano fregando tutti quanti. Perché almeno allora una speranza poteva ancora esserci, il punto di non ritorno non era ancora stato tracciato. Qualcuno stava affilando la mina nera, ma intanto dipingeva il resto con i colori dell'arcobaleno per distrarre il grande pubblico. Recentemente ho letto un articolo su un esperimento per mostrare gli effetti dell'LSD su una disegnatrice man mano che l'acido avanzava: di ora in ora, il suo autoritratto diventava sempre più pittoresco e assurdo, fino a far sparire persino gli occhi - perché, diceva l'autrice spiegando in seguito il senso di quella scelta, le sembrava che non servissero. A me sembra tanto che siamo sempre più sotto l'effetto di qualcosa di inebriante che man mano ci toglie gli occhi. E se è vero che bisogna sapersi evolvere, è altrettanto sacrosanto - almeno ogni tanto - tornare un po' alle origini. Come diceva quella tossica della Winehouse, back to black

lunedì 28 settembre 2015

Moda e modi

Io detesto la moda, ma la moda non detesta me.
L'ho studiata, ci ho lavorato, me ne sono andata sbattendo la porta. Ma lei continua a tirarmi dentro ciclicamente, come le è proprio per sua stessa natura.
Tutto iniziò negli anni '90, quando in televisione mandarono in seconda serata uno speciale sfilate su Versace e Chanel. Quello di Gianni, ancora vivo, e di Karl Lagerfeld, ancora grasso. Conduceva Milly Carlucci. Lei, sempre uguale. Compravo Vogue da qualche tempo, mi piacevano le foto, i fotografi che ora sono diventati storici, i vestiti, le modelle che erano allora le Claudia, Naomi, Linda, Christy, Tatjana, Stephanie, Yasmeen, Amber, Shalom, Nadja, Nadege. Non capivo la parte sociale, patinata, gli eventi, i vip fotografati. Quello mi faceva cagare, era come la parte marcia della banana. Registrai quella trasmissione su una videocassetta che guardai e riguardai non so quante volte. La creatività, i materiali: una bellezza concreta.
Qualche giorno fa ho lavorato all'interno della sfilata di Fendi per la settimana della moda milanese. Stavo al secondo piano del backstage e vedevo tutto dall'alto, mentre aspettavo che i fotografi mi portassero le schede con le foto da editare con il cliente. Inizia la sfilata e in lontananza, davanti al monitor che mostra la passerella, vedo una sagoma che riconosco immediatamente. Piccolo, occhiali neri, vestito e cravatta neri, capelli bianchi raccolti in una coda corta. È Karl Lagerfeld. Lo osservo mentre assiste alla sfilata da dietro le quinte, continua a scambiare commenti con qualcuno vicino a lui. Espressione seria, imperturbabile, mano guantata vicino al viso. Poi, quando finisce tutto, si avvicina a dove sono io. Fotografi e ospiti gli si accalcano intorno, lui saluta con due baci qualche personaggio. Dalla tranquillità del mio punto di vista scatto una foto con l'iPhone, e penso a quella videocassetta in cui lui sembrava tanto inarrivabile.


La moda è un carrozzone di gente che fa un mestiere elitario convinta di salvare vite umane. Al suo interno ci sono fior di professionisti bravissimi, ma quello che arriva alla fine è un'estrema refrattarietà. Per entrare a fare il mio lavoro mi sono dovuta presentare all'ingresso di tre posti diversi dove sono stata freddamente rimbalzata da damerini incravattati con l'auricolare che mi dicevano che non ero in lista. Certo che non sono in lista, sono dello staff, imbecille. Poi finalmente arriva il mio contatto che mi fa entrare, e nella foga manco si presenta. C'è agitazione febbrile, tutti sono presissimi. Io li guardo dall'alto, calmissima. E ripenso al giorno prima, quando imperversava la tempesta meteorologica. Dovevo andare alla sfilata Fay ma il forte vento aveva fatto cadere degli alberi lungo il percorso finale della metro verde, sulla quale stavo viaggiando io. Risultato: tutto bloccato. Scendi, torna a Stazione Garibaldi e vai a piedi. Lungo il binario vedo una ragazza che ferma della gente di passaggio, mentre un ragazzo da parte con dei capelli improbabili cerca di sbloccare la zip della sua borsetta. L'abitudine mi fa pensare alla solita tossica che vuole l'euro, e forse è anche così, ma in quel momento la prendo diversamente. Appena le passo accanto, come previsto, mi ferma.
Scusa, avresti un euro? Mi si è fermata la macchina e non mi funziona la carta di credito per fare la benzina, non so come fare...
Agita un mazzo di chiavi di automobile in una mano e la carta di credito nell'altra. La guardo meglio: truccata e vestita più o meno bene, non sembra una balorda. Tiro fuori un euro, commentando che anche per me è una giornata sfigata, c'è anche la metro bloccata. Lei si allarma, ma poi dissimula. Forse questo particolare la smaschera, ma non mi importa. In realtà mi sento bene per averlo fatto.
Procedo verso l'uscita su Guglielmo Pepe, ha cominciato a piovere forte. L'acqua arriva da ogni parte nonostante l'ombrello, provo a ripararmi camminando vicino ai palazzi. All'attraversamento della strada attendo che passino un paio di macchine, e mentre mi appresto a procedere vedo appena oltre l'ombrello alla mia destra una donna che si ripara malamente la testa con il soprabito. È un attimo, una distanza brevissima che il mio ombrello percorre, e prendo la donna sotto con me. Quella si volta incredula e prende a ringraziarmi come chi si trova davanti un panino e non mangia da giorni. L'accompagno per un pezzo, e non faccio in tempo a dirle delle mie sfighe di quella giornata che lei attacca:
Non me lo dica, stamattina mi si è fermata la macchina...
Queste automobili che lasciano a piedi in un giorno di pioggia iniziano a sembrarmi in combutta fra di loro. La signora riprende:
La ringrazio davvero per questo gesto, mi ha salvato!
Una tale riconoscenza, per un'azione così piccola, mi fa effetto. Ma siamo a Milano, dove non ci si guarda in faccia se non si è in lista e non ci si presenta ai colleghi. Dopo poco le strade mia e della signora si separano e devo salutarla. Mi lascia con un gran sorriso e questa frase:
La sua gentilezza le porterà nuove felicità durante la giornata!
La guardo proseguire raso-muro col soprabito che la ricopre come una tendina e penso che in fondo, anche se uno deve lavorare nella moda, può migliorarsi la giornata con dei diversi modi. E in effetti, da quel momento, tutto è andato per il verso giusto.

giovedì 10 settembre 2015

The anti-social network

Che fatica seguirsi.
E pensare che in un tempo neanche troppo lontano ognuno andava, per così dire, per la sua strada. Poi sono arrivati i social network. Facebook, Twitter, Instagram, per citare i tre che uso io e che nel tempo ho avuto modo di apprezzare, conoscere e denigrare.
Spesso chi fa una professione che ha a che fare con le pubbliche relazioni segue, azzardiamo, almeno la metà dei propri contatti solo per convenienza/interesse/zerbinaggio. Una minima parte sono amici veri e il resto si divide tra animalisti e vegani, entrambi immancabilmente relegati tra i "conoscenti" vita natural durante. Fuori da Facebook ci sono i fautori dello spudorato like-for-like o follow-for-follow, che ti seguono solo se tu restituisci la cortesia entro un minuto netto, pena l'immediata e impietosa defalcazione. Se poi quello che scrivi su Twitter piace molto, tanto da portarti da zero a oltre cinquemila seguaci in pochi mesi, ma non sei un fan della conversazione futile, vieni additato come twitstar, alias snob. Infine, c'è la pletora dei morti di figa, e devo dire che quelli che impudicamente commentano "FREGNA" sotto alle foto delle tipe sono veramente i meglio.
Per quel che mi riguarda, me ne sono sempre fregata di tutto, anche delle persone che smettono di seguirti pur essendo tuoi "amici" nella vita vera. Ognuno è libero di fare ciò che vuole, anche di dirti che non gli piaci più. O che probabilmente non gli sei mai piaciuto, ma facevi numero. La maggior parte delle volte la cosa è reciproca, solo non sei stato il primo a perdere tempo a riconoscerlo.
La cosa sconcertante è quando questa impermeabilità non è più tale e lascia che i rapporti personali, quelli reali, quelli importanti, incespichino nelle trame perverse dei social network.

Il racconto che segue è tratto da una storia vera.

Interno notte, ristorante cino-giapponese in zona Isola.
C'è un nuovo cuoco dietro al bancone del sushi, ha l'espressione impenetrabile del samurai e nel silenzio delle sue labbra serrate sceglie, stratifica, avvolge, affetta, decora e serve eccellenti uramaki salmone-avocado. U3 il codice di quel piatto sul menu, e io ordino sempre quello. Stefano, il cameriere cinese che ormai ci conoscerebbe per nome se la sua discrezione orientale non gli impedisse di chiederci come ci chiamiamo, sorride annuendo mentre annota l'ennesimo U3 sul suo taccuino. Birra Asahi, e la cena scivola leggera sulle nostre parole alla fine di un lungo viaggio francese. Il bellissimo arowana, il pesce asiatico che abbiamo visto nascere nell'immancabile acquario, è ormai cresciuto a dismisura e temiamo che tra qualche mese non ci starà più, lì dentro. Speriamo di non trovarcelo nel piatto, ci siamo affezionati.
Al tavolo a fianco, una famiglia di tre - padre, madre e figlia adolescente. Mi arrivano all'orecchio frasi a proposito di gare e danza. Guardo la ragazza, non proprio filiforme. Ballerina, ecco... direi di no. Competitiva, sicuramente.
Arriva la portata di Alberto e ci sparge sopra la noce di wasabi presa dal mio piatto, che di solito fa fuori, grezza, in pochi lacrimogeni bocconi.
Quanto si sta meglio in Francia... Che sei tornato in Italia lo capisci dopo i primi chilometri sulla Genova-Ventimiglia, a vedere le squallide e claustrofobiche aree di sosta con i loghi che sanno di anni '80, e per le imprecazioni contro l'ennesimo stronzo con il SUV che ti si attacca al culo sfareggiando perchè lui sì che deve andare, e subito - anche se le due corsie sono gremite e arriverà a Milano (e dove, sennò?) più o meno cinque minuti prima di te, impiegando l'importante vantaggio in una dorata pisciata.
Eh, le vacanze vorrà dire che stavolta saltano, sento dire dal paterfamilias con un tono che non ammette repliche. Trovo la frase un po' sorprendente, a giudicare dal luculliano banchetto sul loro tavolo. La figlia ha capelli lunghi e lisci con lo shatush, la nail-art con le sbrecciature di fine estate, la pelle tesa delle sedicenni, un paio di stivaletti alla moda e l'iPhone 6 sfiorato dall'inarrestabile pollice della mano sinistra, mentre la destra taglia un fagottino strabordante di Nutella. Guardiamo un po' queste ciccione, mormora tra sé e me aprendo Instagram. In effetti la prima foto mi sembra ritrarre quella che ha tutta l'aria di una fashion blogger mancata. Autocritica a tavoletta, proprio - penso increspando le labbra per nascondere un sogghigno.
Ordiniamo dei tekka maki. Ottimi. Il bravo cuoco è quello che sa preparare una delizia solo con tonno crudo, riso e alga nori. Decido di testare il samurai su quello che normalmente conclude le mie ordinazioni al giapponese, il gunkan spicy tuna, con poca salsa piccante. K3 il codice. Il tre è da sempre il leitmotiv della mia vita, a partire dal giorno in cui sono nata. Le mie camere d'albergo contengono sempre un tre nel numero della stanza.
Tre sono anche le persone sedute al mio fianco, e iniziano a parlare del fatto che hanno dei cavalli. Ecco, già torniamo nei ranghi. Famigliola borghese benestante che si è comprata dei cavalli e fa gareggiare la figlia viziata con la mano a forma di iPhone. Con Alberto critichiamo sempre quelli che guardano il cellulare mentre sono a tavola, è una cosa che non sopportiamo. Ma mentre di solito ci fermiamo a constatare quanto siano tristi certi commensali, questa volta ammettiamo di essere incuriositi dalla situazione vicina. Madre e figlia ammiccano l'un l'altra mostrandosi foto spassosissime sui rispettivi cellulari - le classiche tipe che invece di godersi il concerto lo filmano, per capirci. Il padre, distaccato quanto basta, gusta la propria cena e il vino. Mi chiedo come faccia a sopportare quel teatrino, e se è così al ristorante chissà a casa. Provo un po' di pena per lui, ad essere sincera. Ma del resto ogni quadro familiare è il prodotto di lunghe e convinte routine più o meno liberamente condivise, quindi non deve essere poi tanto male per lui. Che infatti tira dritto versandosi un calice dopo l'altro ed entrando nelle conversazioni gracchianti della parte femminile come un esperto giocatore di scacchi alle prese con delle principianti ubriache.

Finché.

Che cosa hai scritto??

Immersa nel piacere quasi sessuale dell'ultimo gunkan, drizzo le orecchie verso la voce del padre, improvvisamente mutata nella sua vibrazione fino a quel momento serafica.

Adesso non ci muoviamo da questo posto finché non mi dici che cazzo hai scritto in quel commento.

Gelo. Qualcuno ha svegliato il can che dorme.

Alberto ed io ci scambiamo un'occhiata, sogghignando. Aspetta aspetta, stiamo ancora un po'... ammetto che mi sto incuriosendo, mi sussurra.

Ma sei pazzo? Io non ho scritto niente!
La madre prova a difendere la figlia, che peraltro le somiglia come una goccia d'acqua anche nell'inflessione milanese.
Ma sì, dai, non ha scritto niente...

No, no, questo è uno sputtanamento della Madonna. Quarant'anni della mia vita! Dio, che sputtanamento!!! Guarda, mi sta andando tutto di traverso. Veramente. 

Breve pausa, lei continua a scrollare sul cellulare, non sapendo dove altro guardare. Il padre riprende con una frase surreale.
Tu non vuoi che io commenti mai le tue cose, perché allora tu commenti le mie? 

Altra pausa. L'uomo cerca di fare ordine nelle idee e riparte da sergente.
Domani mattina come prima cosa vai subito da lei e le dici come stanno le cose, hai capito?

Sgrano gli occhi. Mi scappa da ridere ma non posso. Ok, stanno parlando di Facebook. Lui ha scritto qualcosa e lei deve aver messo un commento fuori luogo. C'entrano i cavalli. Sinceramente, non avrei mai pensato che lui stesse su Facebook.

Non posso credere che tu gliel'abbia detto. Lo avevo confidato a te! Sei una stronza!!! Non mi fiderò mai più di te, neanche in punto di morte!

Ellamadonna zio, calmati. È tremendamente serio, batte un pugno sul tavolo. Qualcuno si volta. L'imbarazzo travalica i confini del tavolo e si stende su quelli circostanti come una nube in fase di annerimento.

Ma guarda che io non ho scritto un cazzo... 
È evidente, la cavallerizza sta irrimediabilmente impantanata nel fango dopo aver preso l'ostacolo sui denti. La madre tenta di dragarla fuori, senza successo.
Le avrà scritto in privato, e la cosa è venuta fuori ma non per colpa sua... Non è successo niente...

L'escalation di rabbia del padre va a braccetto con il salire della probabile sbronza imparanoiante, che lo fa passare da una postura normale a un progressivo infeltrimento tra le spalle. Si porta le dita agli occhi, nascosti dalle lenti degli occhiali sottili. Ripete che non si va via di lì finché non leggerà quello che la figlia ha scritto - ed evidentemente cancellato non appena la merda ha colpito il ventilatore.
La situazione è ormai pesante anche per i nostri malcelati sogghigni. L'uomo ha la testa fra le mani e sta piangendo, immobile. La dignità di un uomo fatta a pezzi da un commento su Facebook. Ci alziamo dal tavolo increduli e andiamo a pagare. La scena prosegue su quella linea, ma resta ferma in quel punto.
Ci complimentiamo con Stefano per la bravura del samurai e lui ci mette la sigla sul cartoncino. Ogni venti cene ce n'è una gratis, e stiamo già a metà.
Una volta in strada, scoppiamo a ridere, raccogliendo i rispettivi indizi. Per qualche passo ci scambiamo impressioni, sconcertati della potenza distruttiva dell'anti-social network. Azzardiamo qualche ipotesi sull'immediato futuro di quella famiglia, e un centinaio di metri dopo siamo già tornati nella nostra Francia interiore. Contenti di saper proteggere il nostro privato dalle antenne di Mr Zuckerberg.

Forse.

giovedì 23 luglio 2015

Di punto in bianco

Impara l'arte e mettila da parte.
Ma prima o poi ritirala anche fuori.

È successo per caso, di punto in bianco, che mi sia messa a lavorare all'uncinetto durante un soggiorno lacustre verso maggio-giugno. Producevo borse, poncho, top, sciarpine, costumi - come non ci fosse un domani. Mi avevano soprannominata Penelope, a tessere la tela intanto che Ulisse era via. La signora delle lane di Salò ormai mi conosceva, perché ogni settimana tornavo nel suo negozietto caldo e vuoto a cercare nuovi filati.
Sono tornata in città, al lavoro di ritoccatrice ormai avviato e che per qualche settimana mi ha tenuta occupata. Poi, quasi all'improvviso, il pensiero: l'uncinetto mi piace, ma mi sono già fatta tutto quello di cui potessi avere bisogno. Avrei dovuto smettere quell'hobby per insufficienza di spazio negli armadi? Certo che no. E così, in capo a tre giorni l'idea di vendere i miei manufatti è diventata realtà.
Nel giro di un paio di settimane ho trovato fornitori, disegnato e stampato i loghi, elaborato il packaging, approfondito la ricerca dei modelli da realizzare, aperto una pagina Facebook, un blog,  un profilo Instagram e un sito web, ricevuto proposte di collaborazione da blog esteri, realizzato pezzi promozionali per blogger e clienti, ideato una collezione strepitosa per il prossimo anno, scattato le foto di indosso e gli still life.
Di punto in bianco è il mio primo progetto imprenditoriale personale, e questa etichetta mi fa anche un po' sorridere, perché è nata davvero per gioco - e voglio che continui ad essere tale. Stimola la mia creatività e mi dà la soddisfazione che solo i lavori manuali sanno dare.
Partito con i costumi da bagno in cotone per l'estate, Di punto in bianco proseguirà d'inverno con la lana.

Stay tuned!

Website
Facebook
Instagram







domenica 12 aprile 2015

Within the family

Scatto per il progetto Within da ormai quattro anni. Volti su volti, incontro su incontro, e di ognuno ricordo tutto. A un certo punto, due anni fa, pensavo di averlo concluso. Invece era solo sospeso. Non dico che sia finito ora, perché voglio proseguire, ma sono giunta senza dubbio a un punto fondamentale. In senso letterale, delle fondamenta: le mie. Pensando alle persone da ritrarre, ho capito che nonostante avessi pensato, per varie ragioni, di tenere la famiglia fuori dal progetto, in realtà proprio quello sarebbe stato un tassello immancabile. E così ho fissato due date, il 28 e 29 marzo, sabato e domenica. Papà le ha segnate sulla sua agendina, con la stilografica, come un impegno di quelli veri. Non appena l'ho proposto, i miei si sono subito dedicati alla scelta del brano musicale che avrebbe dettato i loro ritratti, ed era proprio lì che li volevo. Nella mia famiglia la musica è sempre stata una presenza importante, una passione, una cultura tramandata. Le prime idee sono state istintive, riferite a brani che ascoltano in questo periodo. Poi, sentendosi chiamati a una scelta che rappresentasse al meglio la loro essenza, hanno trovato i loro brani. E sono così loro, in effetti.

Papà è stato il primo, sabato pomeriggio. Ci siamo messi in sala, dove lui ascolta sempre la musica e dove sapevo per esperienza che a una certa ora sarebbe arrivato un fascio di luce calda contro la libreria. Dura pochi minuti, bisogna essere svelti. Il sole in discesa sull'orizzonte arriva da destra, lungo la via perpendicolare a quella dell'edificio e s'infila come in un corridoio attraverso la grande vetrata.
Come ogni buon intenditore, mio padre non si era accontentato del brano ma ha scelto anche l'esecutore preferito. Gustav Mahler, Sinfonia N. 4 diretta da Abbado. Perché ho il cd in cui dirige Fritz Reiner, ma la fa un po' troppo veloce... preferisco come la prende Abbado. E siccome il cd non ce l'aveva, si era scaricato un video da Youtube. Dunque in sala c'eravamo io, la macchina fotografica, mio padre e il video con Abbado che sbacchettava l'orchestra.
Contrariamente a quanto mi aspettassi, non c'era in mio padre alcun imbarazzo o reticenza davanti all'obiettivo. Si è subito messo a disposizione, fin dal primo momento, come se non avesse fatto altro nella vita che posare per un ritratto. Era lì con me, non con la macchina. Ho iniziato a scattare, e senza che glielo avessi domandato, mi ha detto cosa significasse quella musica per lui.
Quando l'ascolto vedo il cielo dello Zimbabwe. Mi ricordo che guardavo le palme, altissime, del giardino dei Bhana, e la musica sembrava ampliare ancora di più l'altezza del cielo contro quelle palme.
Aveva quarant'anni, ai tempi di quel ricordo. Ora ne ha sessantotto, sono almeno trent'anni che ascolta quella musica e l'ha portata a me, nel mio progetto. Una certa responsabilità, ma di quelle belle da portare.
Abbiamo scattato per un'oretta. Ha fatto tutto quello che è tipico di lui, e io ho ripreso i suoi gesti, il suo canto, il suo riso. Ma anche qualcosa che non avevo mai avuto modo di soffermarmi a guardare, a raccogliere, a riconoscere in lui. Mio padre diverso. Forse non più solo mio padre, ma l'uomo.
Una nuvola ha coperto il sole proprio nell'ora in cui l'aspettavo, e abbiamo concluso. Sono tornata nella mia vecchia stanza a guardare quanto avevo fatto, e dopo una decina di minuti, all'improvviso, sento mio padre chiamarmi dalla sala. C'è la luce, vieni! Velocemente riaccende Abbado, io riprendo la macchina fotografica in mano, lo faccio sedere contro la grande libreria su cui si staglia il fascio di luce e scatto per una decina di minuti. Non era più neanche questione della musica, né della luce in sé e per sé... era questione di momento, di presenza. Le foto brillavano, oscure e vibranti.

Mamma l'ho ritratta il giorno seguente, di mattina, nel suo atelier. La stanza che era di mio fratello è diventata il posto dove lei dipinge. Pennelli, tele e colori a non finire. Dmitri Shostakovic, Concerto per pianoforte N. 2. Al contrario di mio padre, lei ascoltava quel brano da poco tempo. Anche questa musica è così tanto rappresentativa di lei da bastare come ritratto anche da sola. È fatta di tanti elementi diversi, passaggi in maggiore e in minore, una costruzione musicale grandiosa, da ascoltare e riascoltare sperando di non impararla mai a memoria. Un cerchio che si chiude perfettamente, ha detto giustamente lei.
I suoi occhi sfuggivano, rapiti la musica. Catturarli non era facile, lei era lì con tutta se stessa ma fluttuava. Mio padre aveva sempre lo sguardo inchiodato in camera, così com'è lui, ben piantato e terreno. Allo stesso e opposto modo mia madre svolazzava, inseguendo la creatività della musica e la propria. E poi lei è cantante, la musica ce l'ha proprio dentro e la fa uscire sempre, anche quando gira per casa. Cantava anche durante il ritratto, come fosse lei stessa un pianoforte o un violino.
Per la prima volta nella mia vita mi sono commossa fotografando. Ci siamo commosse entrambe. Molte immagini, specie quelle leggermente mosse dove i dettagli si perdono, evidenziano le nostre somiglianze fisiche ed espressive. Ricorderò sempre il suo sorriso finale, e non perché stia in una fotografia.

L'editing di quei due set non l'ho ancora fatto, anche se da quanto ho visto mi sembrano le foto migliori di tutto il progetto. Certe cose vanno lasciate un po' lì a decantare.
L'altro giorno ero in treno, c'era uno splendido sole e ho pensato bene di riascoltare quelle due musiche. Mi sono ritrovata con gli occhi bagnati. Certe cose diventano intoccabili, e ormai metto in conto di avere quella reazione ogni volta che le riascolterò. Proprio in quel vagone ho capito perché quei due set fossero così importanti e cosa significassero per me. Quando ho proposto ai miei di fare le foto per il progetto, ho riposto una grande aspettativa nelle loro scelte musicali, e non solo perché ritenevo che potessero essere qualitativamente eccellenti, data la loro cultura. Io in realtà volevo che loro mi lasciassero un segno preciso di quello che erano e che erano sempre stati. Quando ascolto quelle due musiche io vedo precisamente la nostra famiglia, il nostro passato e il nostro essere, il mondo in cui sono cresciuta, quello che loro mi hanno trasmesso. E per me avere fatto delle fotografie che rappresentano tutto questo - il momento attuale e quello del tempo che scorre da sempre nelle nostre vite insieme - è qualcosa di importantissimo, bello e terribile al tempo stesso. Solo adesso ho inteso come la fotografia possa essere morte e vita, qualcosa che congelando uccide e nel contempo rende eterno il suo oggetto. Sentire tutto questo è ben diverso dal capirlo solamente.
Mi è diventato chiaro che facendo questo progetto io ricerco tante piccole parti di me stessa, se ci sono, nelle musiche degli altri - e quindi, in loro. Che poi è quello che fa un fotografo: cercare e possibilmente trovare una zona d'intersezione tra se stesso e l'altro, e rappresentarlo al meglio. La musica è la chiave, ma gli spazi che apre sono tutti da esplorare.

martedì 20 gennaio 2015

Di moderni abusi

Per molti versi, si stava meglio quando i social non esistevano. Se non altro perché le occasioni di imbattersi in due parole decisamente abusate nell'ultimo decennio erano nettamente inferiori e strettamente legate alle frequentazioni dirette, che, si sa, sono senz'altro più selezionate di quelle offerte dal diramarsi dei collegamenti virtuali. Le due parole sono disagio e genio.

La prima, gramigna del gergo giovanile che si attorciglia al parlato come un ricciolo attorno al dito. Vezzo annoiato, il più delle volte impertinente (nel senso di non-pertinente), una sorta di posa. Una volta ero in fila all'uscita d'imbarco in aeroporto. Credo si trattasse di una destinazione vacanziera, perché sulla tratta serale Roma-Milano non c'erano mai ragazzine con le unghie dipinte di azzurro che tra un risolino e l'altro ripetessero "che disagio!" a qualunque sollecitazione il loro orecchio percepisse. E io ricordo di aver pensato qualcosa del tipo ma cosa ne sai tu del disagio, ragazzina viziata, stupida oca egocentrica. Non sono mai morbida quando incontro, se non la stupidità, almeno le sue gratuite manifestazioni.
Disagio. Sentimento del sentirsi fuori posto, fuori corrente, fuori ascolto. In realtà è una parola che mi piace, di quelle che racchiudono interi mondi in poche lettere. Non ce ne sono tante di parole così, sono come termini eletti, perché esprimono non solo concetti ma anche stati d'animo. Beh, molti sono stati gli artisti e gli scrittori del disagio, e sembra che nelle loro opere si sia identificato un numero via via maggiore di persone. La mia percezione è che però non si tratti solo di una questione empatica, di identificazione e similitudine. Mi pare che spesso il tutto diventi atteggiamento autoconsolatorio, un crogiolarsi e glorificare la condizione di chi sta più in basso, a lato, comunque da un'altra parte della via. E allora il disagio è diventato pop. Una celebrazione invece che qualcosa di ombroso e relegato alle caverne interiori di ognuno. Fenomeno a tratti irritante, ma senz'altro interessante.
La seconda parola: genio. Mi sono spesso interrogata sul suo senso, quando qualcuno me la metteva sotto il naso associandola ad espressioni tutt'altro che geniali. Era come se qualcuno venisse da me con una macchinina e mi dicesse guarda che belle linee, che colore fiammante... poi quando la guidi è davvero il massimo. Di che cosa stiamo parlando? Non ti sei accorto che è solo un giocattolo? È come se queste persone girassero con degli occhiali deformanti nel cervello. Questo fatto di abusare delle parole è la manifestazione di un'allucinazione collettiva.
E a proposito di genio, credo di essere giunta alla mia personale conclusione. Il genio è colui che supera i propri pensieri attraverso le azioni. Quante volte si sentono riflessioni profonde, si leggono punti di vista rivoluzionari, si partecipa a momenti vibranti di promesse... e poi ci si scontra con realtà mille volte più bieche, basse, che vanno completamente da un'altra parte. Coloro che indossano gli occhiali allucinogeni confondono la sublimazione dell'azione con l'elevazione del pensiero. Per questo i geni sono davvero pochi. Perché tutti sono troppo bravi a raccontarsela, senza far seguire azioni o prodotti degni del pensiero che li avrebbe potuti generare. Invece troppo spesso vale come geniale il colpo, la boutade, l'intuizione. Quella non è che una scintilla, a cui dovrebbe seguire un incendio e non lo scoppio di un petardo da cortile.
Recentemente, ad Amsterdam, ho visto una bellissima mostra di Araki, il fotografo giapponese noto soprattutto per le sue immagini erotiche. Per la prima volta davanti a una serie di fotografie mi è venuto da piangere. Per la verità toccante, la straordinaria capacità di esposizione di sé, ben lontana dalla mera esibizione. Attraverso quelle immagini potevi sentire il suo pensiero, il suo cuore, il suo disagio. Il bondage, le modelle, certo. Ma soprattutto le foto della vita con la moglie, poi morta di cancro. Quelle del gatto. La metropolitana. Le composizioni di fiori e bambole rotte. Una serialità e una devozione incredibili. Non c'era quel malcelato atteggiamento autoconsolatorio volto a provocare compassione. Era la sua voce che diceva "eccomi, io sono questo, questo è il mio mondo reale e di fantasia", per quanto disorientante esso potesse essere. Non era sublimazione del disagio, ma fulgida rappresentazione di un'essenza. Araki è un genio perché non ti delude con uno scollamento tra pensiero e azione. Le sue fotografie riescono a stare al passo con la sua umanità e, infatti, toccano proprio dove lui muore. Perché tutte le opere di un vero artista sono al tempo stesso vita e morte, e non a caso questa è una dicotomia trasversale a ogni lavoro di Araki. Senza prepotenza, anzi con la delicatezza dirompente di chi ha davvero coraggio della propria verità.
Nessuno ha colpa di non arrivare a tutto questo; è soltanto un dono molto raro.

Araki @ Foam Amsterdam - Polaroids wall (1 of 3)

Araki @ Foam Amsterdam - Polaroids wall (detail)

giovedì 15 gennaio 2015

La città dei silenzi rotti

Le grandi finestre dei palazzi affacciano sui canali come occhi senza palpebre. 
La maggior parte delle case di Amsterdam manca di tende, persiane, tapparelle, grate. È tutto trasparente. I vetri più belli sono quelli più vecchi, un po' irregolari nella loro corsa verticale, e brillano d'imprecisione. 
Amsterdam è una città d'argento, una fiaba a cielo aperto. Uno scenario da pellicola in bianconero. I colori naturali, dai freddi marroni scuri ai beige più cremosi, è bene goderseli dal vivo.  
Non ho visitato una chiesa né un museo. Se hai poco più di due giorni, Amsterdam te la devi camminare. Procedi tenendoti il cappello sulla testa con una mano, il vento attraversa la lana fino alle orecchie. 
Le vetrine del quartiere a luci rosse sono tutte vuote, le tende tirate. Solo i neon all'esterno sono accesi, attraenti promesse del nulla. Sarà stata l'ora del tè anche per le prostitute. I sex shop pullulano di attrezzi dalla foggia sinuosa e il tocco setoso, ma non hanno nulla di veramente carnale, niente che stimoli davvero l'immaginazione. Nei coffee shop l'odore di ganja è lontano come una voce che chiama a tavola da un'altra stanza, tutto è ben aerato, i muri decorati nei modi più fantasiosi. Un signore distinto vende laudano e assenzio in un legnoso negozio in pieno centro, avvolgendo le belle bottiglie in fogli di carta a fiori acquerellati.  
Le persone girano anche senza berretto, spedite sulle loro biciclette con i freni a pedali. Non si fermano mai, è da loro che ti devi guardare quando attraversi il marciapiede. Senza luci, senza motore, non li vedi e non li senti. Di colpo si materializzano, da soli o in gruppo. Fuori dal centro, il reticolato delle strade offre solo edifici inclinati, ognuno diverso dall'altro, e strade perfettamente pavimentate. 
Ci si abitua in fretta a quel che di ovattato. Amsterdam é silenziosa ed elegante come una donna che porti a passeggio un cerbiatto. Non c'è segno di molestia, visiva o sonora. Tutto scorre sopra e sotto l'acqua che l'attraversa, ognuno va per la sua strada senza abbrutimento alcuno.

E mentre cammini tra queste vie in cui tutto sembra un delicato intreccio di morbida alienazione e rilassato libertinismo, insospettabile si fa strada un rombo nell'aria. Alzi la testa e nel giro di una decina di secondi ecco un aereo sorvolare basso la città. Cinque, dieci minuti e ne arriva un altro. Da sud-est verso nord-ovest, quasi sempre.  Gli aerei sono la bussola della città, quando ti perdi basta aspettare che ne passi uno per capire da che parte andare.  
Viene dall'alto l'unico suono forte di Amsterdam, il flusso che ne sovrasta i calmi equilibri. Ed è proprio qui, quando quelle grosse frecce si stagliano nel cielo nuvoloso, che la città mostra tutta la sua essenza di bianconero. 
Scenario ideale per un moderno Fellini. 





giovedì 8 gennaio 2015

The special need

The special need, lungometraggio di Carlo Zoratti, 2013.
C'è sempre da stare attenti quando si fa un post su un film, per non rovinare la visione a chi volesse procedere dopo la lettura. E non solo per quanto riguarda la trama, ma soprattutto per non prevaricare sulle emozioni altrui attraverso le proprie, che sono sempre un fatto personale che va a intessersi con il proprio vissuto. Ho deciso di parlare di The special need perché ha fatto risuonare domande che mi sono sempre fatta.
Ho un cugino affetto da sindrome di down e, seppure con relativa incostanza, siamo cresciuti insieme. Tra un paio di mesi compirà trentotto anni, ma è solo un numero. Il suo spirito sembra essere lo stesso da sempre. È uno showman, gli piace stare al centro dell'attenzione, è divertente, una vera forza. Quando i miei nonni mancarono, si trasferì con la famiglia nell'appartamento che era stato il loro, di fianco a quello dei miei. La finestra della sua camera, al primo piano, affacciava sull'ingresso del palazzo. Spesso, rientrando, mi capitava di vederlo in piedi dietro il vetro chiuso, a guardare fuori. Serio. Come assente. Mi sono sempre chiesta a cosa pensasse in quei momenti, quando non era in mezzo alla gente a fare il brillante. In tutti i giorni dell'anno in cui non c'era qualcosa da festeggiare, nelle lunghe ore in cui non c'era nessuno in casa.
Ha sempre avuto un po' un debole per me, mi diceva che ero bellissima e che ero la sua sposa. Non moglie, ma sposa. Poi ha smesso. Ma quando lo faceva io me lo chiedevo lui che idea avesse dell'amore, della donna, della compagna. Cosa sentiva, la sua pulsione era uguale a quella di tutti gli altri? Quanto speciale, o normale, era il suo bisogno? Me lo chiedo ancora oggi. Non ho mai osato domandarlo a lui.
Quello di Zoratti è un documentario che ha come protagonista Enea, un trentenne autistico che intraprende un viaggio, fisico e interiore, insieme a due suoi cari amici. La meta è quella più appassionante, destabilizzante ed eternamente misteriosa: la donna. "Bisogno", recita il titolo. Perché non si tratta solo di un desiderio, ma di una vera e propria necessità, quella di ogni essere umano - e in questo caso di un maschio - di conoscere l'amore, viverlo e goderne, con tutta la confusione che è propria di questo universo così delicato. Enea è proteso, con gioiosa ed erodente curiosità, verso un mondo da cui si sente (ed è, di fatto) respinto. Nonostante tutto, i suoi slanci sono ostinati, la sua fede non è mai davvero rotta dalla frustrazione.
Disabile è la parola che utilizzano i suoi due amici per riferirsi alla sua condizione, ed è qualcosa di cui personalmente non so molto e su cui preferisco non avventurarmi troppo qui, ma il racconto molto ben fatto del film induce a porsi diverse domande in merito. Fino a che punto Enea è cosciente della propria diversità, quanto è in grado di conciliare dentro di sé le risposte che il mondo dà alle sue domande, sia quelle del corpo che quelle della mente? Perché il corpo domanda anche per un disabile. Credo che nessun istinto dell'essere umano capace d'intendere e di volere cessi di pulsare nonostante tutto, e men che meno lo fa quello che porta ognuno alla ricerca di un compagno di vita. Cos'è che vuole Enea? Perché cerca una donna, veramente? La risposta arriva da più parti, nel film. Come suggerisce una voce femminile, il bisogno speciale va ben oltre quello di "svuotare il sacco", sessualmente parlando. Al contrario, Enea vuole riempirsi. Vuole una donna da amare, baciare, tenere per mano. Una che sia la sua. Una compagna. Ed è spiazzante come questo gli sia chiaro, così come è chiaro che il suo bisogno non sia il frutto di un condizionamento socio-culturale: non cerca una donna perché è ciò che fanno tutti intorno a lui, ma perché è il suo istinto, il suo io profondo a chiederglielo. E la sua ricerca è di una tenerezza senza pietismi, toccante, delicata e sincera. Anche goffa, incerta, agrodolce.
Il salto che il film ha il merito di fare è l'estendere tutto questo oltre i confini della disabilità, rendendo in fondo tutti uguali nei loro dubbi, nel valore dell'esperienza e nel contatto d'amore. Una bella impresa, e che impresa.

domenica 4 gennaio 2015

36

Da ieri ho trentasei anni.
A quest'età mia madre andava a vivere in Zimbabwe con marito e figli. Un Paese di cui ho relativamente pochi ricordi, ma quei pochi sono vividissimi. Ho una foto di me che rido accartocciata in una tinozza di poco più di mezzo metro di diametro che mi contendo con mio fratello, che ride anche lui mostrando le gengive.
Lorenzo mi suona ora nelle orecchie, è questa la vita che sognavo da bambino? Credo di no, credo che questa vita non me la immaginassi nemmeno, quando stavo in quella tinozza. Non ho calcato le orme che pensavo mi avrebbero portato ad avere una famiglia mia, o una scrivania da cui guardare un panorama di vetro e cemento.
Non mi aspettavo di tornare bambina dopo trent'anni da allora, a non preoccuparmi di cosa farò da grande. Perché proprio grande non mi ci sento mai, nonostante gli anni che passano.
Dopo tanto silenzio ho ripreso a studiare il pianoforte seriamente. Da meno di un mese mi misuro con un compositore tra i più complessi, avanzo di battuta in battuta mandandole a memoria con la fame che mi è sempre stata propria.
E poi mi sono comprata una batteria elettronica. Usata, di Foligno. Mi piace l'idea degli oggetti che circolano di mano in mano. Mi arriva domani, e temo che lascerà poco spazio ad altro. Perché se c'è una cosa che non cambia con il tempo è la fissa che mi prende quando metto le mani, la testa o il cuore su qualcosa che mi interessa davvero.
Ho quasi finito il disegno per un nuovo tatuaggio, che presto troverà posto sul braccio che scrive.
Ho cambiato il colore dei capelli, dopo tanto tempo che li volevo così: rossi, come il mio colore interiore. Mi ci sento benissimo, mi danno la luce giusta.
Il mio volto tutto è cambiato. E non solo per i capelli, io parlo proprio di ossa e volumi. Qualche giorno fa, a casa dei miei per Natale, mio padre mi ha chiesto di dare un'occhiata a un vecchio back-up fatto sul pc di Roma, che ancora era salvato su un hard-disk esterno. Salvare quello che ancora interessa, il resto si cancella. Ho portato via tutti i miei oggetti che ancora erano rimasti in quella casa, il cordone è ormai tagliato. Guardando nell'hard-disk, ho aperto qualche cartella di vecchie foto e quasi non mi sono riconosciuta. Il triangolo polposo del viso da ragazzina ha lasciato il posto a zigomi più prominenti e un profilo sfilato, un volto da donna. È la prima volta che riesco a vedere due immagini sostanzialmente diverse di me, come mi succede sempre quando guardo le foto di mio padre da ragazzo.
Anche io sto cambiando, e mi viene da dire finalmente. L'idea dell'invecchiamento non è più soltanto questione di una rughetta o qualche capello bianco, è proprio trasformazione globale. Non sei più lì a guardare solo in avanti, senza sapere cosa il futuro ti porterà. Sei tu che ti porti le cose, sempre più. Il passaggio dal sistema in cui spesso subivi scelte, persone e ambienti, a un altro in cui sei tu a selezionare, decidere, costruire come anche distruggere, è sempre più completo. L'atteggiamento di attesa e aspettativa diventa un sentire le cose in mano, ed è lì che sei chiamato a tenere o lasciare andare. Sei sempre più tu e solo tu a determinarti.
Forse partirò presto. Il mio Zimbabwe dei trentasei potrebbe essere in un altro continente, con un'altra durata e tutt'altre modalità. Ed è proprio quella fibrosa incertezza dell'avere le cose in mano l'essenza di tutto.