giovedì 27 maggio 2021

Carla

Oggi è morta Carla Fracci. Per me, non solo una che faceva la ballerina, ma una sorta di istituzione. Da bambina, il primo mestiere che ho detto di voler fare era la ballerina. E la Fracci era un'icona non solo italiana ma anche mondiale. Ricordo anche Margot Fonteyn, era l'epoca di Nureyev, Barisnikov e tutti questi grandi nomi.

Iniziai a studiare danza classica a nove anni, al Cairo, con una ex etoile del Bolshoi che si chiamava Madame Fatma. Egiziana, ovviamente. Capelli corvini, occhi scuri disegnati da due tratti di matita nera e la bocca un po' sempre serrata e in osservazione. Era un po' in carne ormai, e allora teneva sempre su quei pantaloni sintetici che facevano sudare. Io non capivo. Non la vedevo grassa e mi dispiaceva che si fissasse così severamente sul suo corpo. A me sembrava bella come quando si guarda una mamma. Ricordo che durante il Ramadan non mangiava e non beveva, con delle temperature spesso infernali. E allora ogni tanto andava in bagno e sciacquava la bocca con un po' d'acqua fresca, senza deglutire. Le madri sedevano in un angolo su delle sedie, guardando le figlie di ogni nazionalità che si cimentavano in tutti quei passi dai nomi francesi, che ancora oggi ricordo perfettamente. Eravamo in due ad essere più brave, l'altra era una ragazza inglese con bellissimi capelli lunghi, rossi e ondulati, e tante lentiggini. Si chiamava Iman. Era un po' stronza, anche. Molto competitiva. Iniziai ad andare sulle punte dopo meno di due anni di scuola, cosa che in genere non avviene così presto. Ricordo persino il motivo musicale al pianoforte con cui iniziava sempre la lezione. Alla sbarra, con i pliée. Madame Fatma mi voleva molto bene, aveva con me una sorta di dolcezza segreta che le altre non vedevano nemmeno con il binocolo.

Era molto bello andare a danza, era il primo dei diversi ambiti in cui poi riuscii nella vita, e probabilmente mi piacque fin da subito il fatto di sentirmi sicura delle mie capacità, e di saper imparare in fretta. Cosa che alcuni anni dopo, quando ne presi coscienza, mi portò a dire di me stessa che riuscivo in tutto quello in cui mi cimentavo: una bella iniezione di autostima, per un'adolescente. Della danza mi piaceva la concentrazione, il controllo sul corpo, l'armonia, la musicalità, la geometria, l'evoluzione. Non sentivo affatto la fatica, del resto i bambini hanno risorse sovrumane.
L'eredità più importante della danza è stato il portamento. Ora ne ho meno, per via della postura che il mio lavoro non favorisce, però per molti anni il modo in cui tenevo le spalle, in cui appunto portavo la testa, era per me come un filo invisibile che mi sosteneva e che, sentivo chiaramente, mi dava una presenza diversa rispetto alle altre donne.

La danza è un mondo. E oggi è morta Carla Fracci, una che per me era immortale. Non che si sia portata via qualcosa, ma anche se era decisamente di un'altra generazione, io la considero una dei "miei". E quando se ne va uno dei miei, mi sento sempre come se qualcosa scivolasse via per sempre dalle mani. Non c'è più. E uno dopo l'altro se ne vanno tutti, se ne vanno delle parti della mia storia. Restano solo nel pensiero e non più nelle azioni o nelle opere. (Sospiro).

lunedì 16 marzo 2020

La pentola a pressione

L'accendi, dopo qualche istante inizia a fischiare. A quel punto, abbassi la fiamma e lasci che il cibo cominci a cuocere. Passa qualche secondo, poi i minuti, e a cottura ultimata il profumo di quello che c'è dentro si fa sentire. A quel punto spegni il fuoco e lasci sfiatare.
L'emergenza Covid-19, nella vita quotidiana dei cittadini italiani, mi sembra molto simile a questo procedimento. Inizialmente pareva non stesse succedendo niente, ma la pressione aumentava pian piano. Il decreto è stata la fase del fischio e da quel momento gli italiani hanno iniziato la loro solitaria, personale cottura. Ognuno nella propria pentola, chiuso dentro. Beh, questo in teoria, perché molte in realtà sono rimaste mezze aperte. Ma guardiamo a tutte queste pentole chiuse, in pressione. Subito dopo il fischio, la fiamma si abbassa e sembra che tutto si calmi e resti così. A fatica, le persone si abituano alla clausura: chi incoraggiandosi a vicenda con gli hashtag, chi assicurandosi che andrà tutto bene, chi cantando sui balconi, chi con i flash mob delle torce del cellulare, chi portando il cane a spasso più di quanto ce ne sia bisogno, chi improvvisandosi maratoneta. Il tempo di cottura è impostato sul timer del decreto fino al 3 aprile. E qui, il primo vero problema: la gente si aspetta che per quel giorno sarà tutto finito, o in via di risoluzione. Nei training per reporter in zone di conflitto s'insegna, tra le altre cose, la gestione psicologica in caso di rapimento: mai crearsi aspettative temporali sulla fine della crisi. Mettersi un termine è la cosa più distruttiva che si possa fare, sia da un punto di vista psicologico che fisico. Perché molto probabilmente, quando penserai di essere quasi giunto al traguardo, non solo ti sarai illuso di qualcosa che potrebbe non accadere, ma sarai naturalmente portato ad accelerare il passo, potenzialmente sprecando le tue preziose energie. Non pensiamo dunque che il 3 aprile festeggeremo e potremo uscire di nuovo, perché - e questo è un mio pensiero, ma temo che possa essere verosimile - non penso che questo accadrà. Prepariamoci dunque all'eventualità di continuare la cottura ancora un po'.

Ma la metafora della pentola mi è utile anche per esprimere un altro concetto, che è diventato tale quanto a definizione solo questa mattina. Sono diversi giorni ormai che avverto una sorta di vibrazione di fondo che ci accomuna tutti e che ho sentito in pochi altri momenti storici, ma oggi sono stata in grado di darle una forma più definita: è l'energia compressa degli altri. La mia capacità di stare da sola, affinata in tanti anni, non ha incontrato grandi difficoltà a plasmarsi su questa quarantena: di regola lavoro da casa, molti miei passatempi si svolgono tra le sue mura. Da tempo ho smesso di essere interessata alla routine delle serate nei locali, al frastuono e alla confusione dello shopping cittadino; la necessità di ridurre la dispersione di tempo ed energie nei rapporti sociali mi ha fatto scremare le frequentazioni. Io a un sano isolamento sono abituata, e mi piace. Eppure c'è una sensazione estranea che avverto tra le mura che di solito mi sono di grande agio, e credo di averla identificata in questa compressione generalizzata, relativamente vicina al mio corpo. Sento tutte queste zucchine, broccoli, brasati, patate che cuociono nelle loro pentole, inizio a usmarne gli odori nell'aria. Sembrano sussurrare, nel sibilo della poca aria che esce dalla valvola, io voglio uscire, io sono pronto. Un fremito continuo. Io lo sento nonostante il chiasso, il clamore becero dell'orda di opinioni che riempiono l'etere. Ognuno dice la sua, ogni giorno una cosa diversa, tutto e il contrario di tutto, siamo uniti ma poi ci scanniamo per una parola fuori posto. Questa dittatura del disclaimer in ogni idea o emozione espressa, che ogni volta prima di iniziare un discorso devi fare mille premesse perché nessuno si senta offeso dalla scelta di focus o di stile che stai facendo. Io non farò alcuna premessa in quello che sto per dire, non mi interessa se gli altri mi diranno che hanno bisogno di alleggerirsi e sdrammatizzare. È lecito ma ci sono dei limiti.
Questa è una tragedia. Ho visto e sentito raccontare di persone cantare ubriache sui balconi, vivere questi flash mob come se stessimo ai mondiali di calcio. Non è una cazzo di festa, ripeto: è una tragedia. Centinaia di persone muoiono ogni giorno, e lo fanno in lucidità e in assenza dei loro cari. Ci sono tante famiglie che si devono tenere il morto in casa per giorni perché gli obitori sono sovraccarichi e i funerali sono vietati. Non è il caso di cantare Azzurro dai balconi. Accendete una candela, magari, e state in silenzio. Che le autorità facessero uno spot pubblicitario da mandare in tv in mezzo alle mille inutili maratone ansiogene, per chiarire alla gente se questa benedetta mascherina serva, o almeno come vada indossata e cambiata. C'è chi la mette al contrario, chi la mette e toglie continuamente strisciandosela sulla faccia, chi usa la stessa per una settimana.
Ma poi il vomito, il vomito che mi viene a leggere i commenti della gente in preda all'egoismo più delirante e al contempo l'ipocrisia del volemose bene per cui gli italiani sono uniti, che uniti ce la faremo, andrà tutto bene, saremo più forti di prima... e poi pur di accaparrarci una confezione di carta igienica cagheremmo in testa al vicino in fila. L'Italia, mi dispiace disilludere i buonisti, non è mai stato e nemmeno in questo frangente è un popolo unito. La maggior parte delle persone cerca semplicemente di salvare se stessa. Vi siete dimenticati che solo qualche mese fa i nostri leader hanno lasciato navi cariche di profughi in mare? Ebbene, siamo gli stessi che quei leader li votavano e li sostenevano. Come aspettarci qualcosa di diverso quando in gioco è la nostra stessa incolumità? E infatti, appena annunciato (anzi, trapelato) che la Lombardia sarebbe diventata zona rossa, tutti a correre in stazione per scappare nella notte al sud da mamma'! Bravi italiani, tutti uniti per il bene!
Certo, le donazioni e la solidarietà per gli ospedali in crisi non sono mancate, ma quando penso alle singole pentoline in pressione, se va bene ognuna nella sua casa, quando tra quindici giorni si gaseranno ancora di più perché si avvicinerà il 3 di aprile e magari verrà loro comunicato che ops la quarantena non è finita, voglio vedere a cosa porterà l'esasperazione. A quali inarrivabili vette arriverà il nostro precario senso civico? Abbiamo faticato tanto (e stiamo ancora faticando) a far capire a chi non sa stare solo con se stesso che forse fare l'aperivirus non è una grande idea: cosa pensate che succederà a lungo andare? Bisogna essere stagni, ma facciamo acqua da tutte le parti.

In tutto questo, per fortuna c'è anche chi sta cominciando a vedere nella lenta cottura anche dei benefici, o per lo meno un momento di reset. Perché quando il mondo esterno smette di pulsare all'impazzata, scompare il senso di colpa che si avverte quando a fermarci siamo solo noi. Smettiamo di non sentirci più al passo, di non stare facendo la nostra parte nel tran-tran generale. A me questo è scattato quando l'email ha smesso di suonare la sua notifica sul cellulare. Quel rumore che ormai il più delle volte associavo a rotture di palle lavorative a poco a poco è scomparso, lasciandomi finalmente in pace. Chiaro, non sto lavorando e questo danneggia le mie economie, ma da un lato mi sta liberando per un po' di qualcosa che avvertivo come opprimente. Nell'emergenza di un virus che toglie il respiro, si ricomincia a far respirare una parte importante di noi stessi. So che molti stanno cercando di arrendersi, come secondo me è giusto che sia, a una nuova immagine nello specchio. Al netto del divertissement di Netflix&Co, c'è più silenzio, meno distrazione, più ritorno a noi stessi. Come se invece che metterci le mascherine le stessimo calando. E allora un'altra riflessione si fa strada nella mia testa: come cambierà, dopo tutto questo, la prossimità tra gli individui? Nella nostra attitudine a relazionarci e a fidarci degli altri, ci sarà sicuramente uno stress post-traumatico da metabolizzare. Certo che abbiamo tutti voglia di abbracciarci, ma lo diciamo ora che siamo nella pentola a pressione. Quando ne usciremo sarà come strofinare la lampada del genio: dopo l'euforia della possibilità di esprimere i famosi tre desideri, cosa veramente chiederemo alla nostra vita? Questo periodo di cottura cosa ci avrà insegnato?

Ci vediamo il 3 aprile, cari i miei bolliti misti.

mercoledì 22 agosto 2018

Preziosi

Ho traslocato quasi cinque mesi fa, la casa è ancora tutta per aria perché non ho il minimo tempo per dedicarmici. Circa un terzo delle mie cose è ancora negli scatoloni, coperti da bellissimi plaid comprati l'estate scorsa dai tanto demonizzati venditori ambulanti su una spiaggia marchigiana. A sollevare quei teli ci trovi lampade, candele, cd, faldoni, cappelli, cuscini, libri, un paio di macchine da scrivere e Dio solo sa cos'altro. Era un po' di tempo che mi chiedevo dove fossero finiti i miei gioielli - il che include sia i miei pochissimi ori sia la mole di paccottiglia che non ha alcun valore se non quello estetico. Essere rimasta cinque mesi senza alcun ornamento la dice lunga su due cose: primo, quanto poco io sia in fissa coi gioielli e, secondo, quanto poco sia uscita da quando sono qui. Non è che uno per lavorare sette giorni su sette stia lì ad acchittarsi, e quando esce a cena si mette magari solo un vestito carino, che i gioielli boh chissà dove sono - ci penserò più avanti, oggi va così. E di oggi in oggi sono arrivata alla fine di agosto, con questo tarlo che pian piano si faceva sentire più forte: ok, ma dove sono i miei gioielli? Adesso li voglio. Fra dieci giorni me ne vado in Francia e voglio sentirmi in vacanza, mettermi le cose che mi sono fatta e sentirmi di nuovo una persona invece che una scappata di casa. Mi sono detta questa settimana li trovo. E poi ultimamente, in uno di quei momenti in cui sei lì nel letto a pensare alle cose più assurde, ho anche immaginato che se fosse entrato un ladro in casa e mi avesse puntato una pistola chiedendomi i gioielli, io non avrei saputo darglieli anche solo per salvarmi la vita. Un po' paranoico, ma si può immaginare una morte più stronza?
Così, appena chiusa la lavorazione dell'ultimo matrimonio, mi sono alzata dalla scrivania e sono entrata nelle tenebre della cabina armadio. Ho detto che casa è ancora per aria, no? Quindi ancora non ho messo una lampadina nella cabina. Con la torcia del cellulare mezzo scarico mi sono avventurata. Incredibilmente, e totalmente per caso, ho trovato due scatole in mezzo ad altre dieci uguali che contenevano chili e chili di filati - ma quanti ne ho? Le apro e - guarda te - trovo i gioielli. Tutti quanti, messi lì più o meno in ordine nelle loro scatole o ben sdraiati dritti, per non far prendere pieghe strane alle collane. Le ho tirate fuori e ne ho esaminato il contenuto alla luce della lampadina - quella sì che c'è - dello studio. La sola cosa che ho preso e pulito è una collanina con infilato un anello d'argento che mi regalò Alberto quando partì per l'Egitto, un mese dopo che ci eravamo messi insieme. Poi ho messo via le scatole e sono scesa per mangiare, con una sensazione di inspiegabile felicità. Era qualcosa di simile alla mattina di Natale, ma ancora più speciale. Man mano che elaboravo e mi godevo quella gioia - curiosa corrispondenza con il gioiello - cercavo di capire perchè mi sentissi tanto bene. Ho scritto due righe alla mia amica D. e lei mi ha capita subito. Per la prima volta in cinque mesi mi sono sentita davvero a casa. L'ultima cosa che avrei pensato potesse darmi quella sensazione erano proprio i gioielli. Sono quello che una donna indossa sempre senza neanche più sentirlo, oppure che si mette come ultimo ornamento prima di uscire. Quando è pronta. Forse quello che ho ritrovato stasera è proprio quella sensazione di compimento e completezza.
Io ho lavorato per otto anni in una delle maggiori multinazionali produttrici di gioielli e non me ne è mai - mai - fregato nulla dei gioielli. Ho visto le cose più meravigliose, dei folli capolavori di oreficeria, indossato anelli con diamanti grandi come noci, puri e rarissimi, sentito sul décolleté il peso di una bavarola di zaffiri colorati e diamanti da 650K€, affondato lo sguardo nel blu oceanico di tanti zaffiri, avuto per le mani e prezzato centinaia di pezzi provenienti da tutto il mondo... eppure niente. L'unico stordimento che me ne veniva era nell'inconcepibilità di tanto valore concentrato in un oggetto tanto piccolo. Il gioiello per me, da stasera, ha un altro valore che non gli avrei mai attribuito. Non solo quello economico - spesso irrisorio, nel mio caso - e nemmeno quello affettivo che lega l'oggetto alla persona che te l'ha regalato. Il gioiello è anche una parte d'identità e di storia della persona che lo possiede, ed è prezioso perché è quello e nessun altro. Ecco perché la gente si dispera tanto quando perde un gioiello.
Con questi pensieri in testa, sono tornata di nuovo di sopra, ho ripreso il cellulare con la torcia e ho ritirato fuori le scatole. Ho cominciato ad esplorare tutto, dalla prima scatola all'ultimo sacchettino. Mi si è stretto il cuore perché ho provato tenerezza per la me stessa di dieci o quindici anni fa, che metteva quelle cose per sentirsi più bella. Cose che ora magari sono rovinate dal tempo, i metalli ossidati, i colori sbiaditi. C'è un cofanetto a fiorellini che fu il mio primo portagioie di quando ero adolescente, e ci ho trovato due cose che con i gioielli non hanno nulla a che fare, ma che sono ricordi preziosi. Uno è un tappo di Veuve Clicquot con su scritto "fine esami - 21 gennaio 2003". Il mio ultimo esame universitario fu matematica finanziaria, fu un 25. Era una bella giornata invernale, di quelle con tanto sole e il freddo secco e pungente. I risultati erano appesi in bacheca nella sede di Via Necchi, e quando uscii ebbi questo momento di lucida realizzazione della fine di un'orda di fatiche. Sì, ok, ci sarebbe stato da scrivere la tesi - gli scandali finanziari di quegli anni legati al fallimento Enron, con tanto di modelli matematici che ora non so veramente da dove tirai fuori, non mi ricordo nulla - però l'università finisce con gli esami tutti a libretto. Te credo che uno stappa lo champagnino.
Il secondo ricordo assurdo è un piccolo cartoncino giallo con su il logo Kodak, contenente nove fototessere di me da piccola. Le rigiro e ci sono dei segni in apparenza indecifrabili, ma poi vedo due V rovesciate e mi viene un'illuminazione: sono due otto scritti in alfabeto arabo. 1988. Guardo meglio il cartoncino e leggo l'indirizzo della sede Kodak del Cairo. Quella sono io a nove anni, in Egitto. Il mio orecchio sinistro sembra più sporgente del destro, i dentini ancora da raddrizzare. Affianco mentalmente a questa foto la mia immagine riflessa nello specchio vista poco prima, mentre mi guardavo con addosso la collanina di Alberto. Dio, come passa in fretta. Quella bambinetta con i miei stessi occhi avrebbe mai immaginato tutto questo? Non ho idea del perché o del come quelle fototessere fossero lì, nel mio cofanetto, trovato una sera di agosto di trent'anni dopo, in una scatola dimenticata.
Ho rimesso via tutto e tenuto fuori i gioielli che userò nel prossimo periodo. Li ho puliti, asciugati e indossati. Solo gli ori. Mentre scrivo sento ticchettare gli anelli l'uno contro l'altro, il braccialetto del battesimo con la targhetta del mio nome strisciare sulla base del portatile. Non so quanto durerò, io che da pianista ho sempre amato avere le mani libere. Però stasera li tengo, li guardo luccicare, come se fossero vecchi e nuovi. I miei preziosi.

giovedì 21 dicembre 2017

Vita e morte

A chi fa il fotografo succede, prima o poi, di sopravvivere a uno dei propri soggetti.
A me è successo nuovamente ieri e si è trattato di una bambina che non è riuscita a venire al mondo. Avrei dovuto fotografarla a breve, una volta nata. Di lei ho soltanto qualche scatto del pancione, foto di gruppo in un'occasione di festa. Ho conosciuto la sua mamma quel giorno, avevo 38 di febbre ma ci tenevo ad esserci. Non avrei mai pensato di ritrovarmi con una notizia del genere, praticamente al termine di quella gravidanza.
Sto fotografando molte persone, ognuna con il suo mondo, e finora è sempre stato tutto un inno alla gioia. Poi arrivano cose come questa, e allora ti fermi a riflettere su quello che stai facendo, su ciò che una fotografia significa e rappresenta. Lo scatto blocca qualcosa per sempre, lo ferma a quel momento mentre tutto passa. Il tempo, le cose, e anche le persone. L'altro giorno, consegnando a mio padre un blocco di foto di nostri antenati restaurate in Photoshop, ci siamo ritrovati a guardare una fotografia in cui tutte le persone ritratte sono, oggi, morte. Tempo fa, una stampa minuscola di una fotografia scattata da me è stata messa tra le mani di una donna, nella sua bara. Sono esperienze mie, ma ne sento tante anche da altri miei colleghi. La fotografia è qualcosa che rende eterna la vita ma al tempo stesso è un incontro inevitabile con la morte. Prima o poi, tutto quello che immortali muore. Questo è uno dei tanti valori che porta con sé quello che faccio, e pochi lo capiscono. Ogni fotografo, presto o tardi, ci fa i conti.

lunedì 20 novembre 2017

La me degli anni '80

Il 17 giugno del 1988 scattava l'ora legale in Egitto. Come lo so? Perché quel giorno i miei genitori registrarono una cassetta con il piccolo registratore della Sony, quello grigio di metallo satinato con il microfono nero sull'angolo e il tastino "REC" rosso. Opportunamente collegato a un paio di casse, per molti anni quello è stato lo stereo della mia famiglia - noi bambini dovevamo stare molto attenti a maneggiarlo. Una volta, mentre smanettavo con un album dei Bee Gees - che non era un revival, ma la musica vera di quei tempi - il registratore mi cadde per terra e il suddetto microfono si deformò leggermente. Nessuno se ne accorse, ma il fatto che io me lo ricordi tutt'ora vi dà la magnitudo del mio senso di colpa.
Il registratore aveva il suo posto sul comodino accanto al letto in camera dei miei, una specie di suite divisa in due da un gradino: nella parte più alta il letto, nell'altra una libreria con un divanetto di velluto rosa antico e una consolle con un grande specchio con i bordi dorati. Era una casa signorile, piuttosto grande, nel cuore di Heliopolis. Tre camere da letto, tre salotti, tanto di scalinata d'ingresso... ma la musica si sentiva con un registratore che stava in una mano, e si andava in giro con una Fura bianca. La nostra vita negli anni '80 è stata tutta una contraddizione, in giro da un paese dell'Africa all'altro, con un prima e un dopo abbastanza diversi per molti aspetti.

All'epoca della cassetta vivevamo al Cairo da qualche mese, in un'era dove comunicare con l'Italia era possibile solo con il telefono (raro, perché caro) e con le lettere scritte a mano. Le telefonate non si effettuavano da casa, ma facendo una passeggiata a piedi fino a un call-center, dove c'erano tante cabine di legno da cui si poteva chiamare l'estero. Andare a telefonare era una specie di festa, per noi bambini. Ricordo la quiete di quelle vie attorniate di verde, subito dopo cena, e i racconti delle conversazioni, al ritorno.
Una volta, quella volta, approfittando di un infermiere che il giorno dopo sarebbe tornato in Italia - papà lavorava all'ospedale italiano del Cairo, a suo dire il posto peggiore dove abbia mai prestato servizio - i miei gli affidarono una cassetta audio da consegnare ai miei nonni, cosicché potessero sentire le nostre conversazioni in una serata "normale". Avevo nove anni.
Oggi, quasi trent'anni dopo, ho riascoltato la voce petulante di quella bambina, che scherzava continuamente con un fratello un po' permalosetto, faceva compiti a iosa, recitava poesie ridendo, suonava "le canzoni" (=pezzi classici) al pianoforte, danzava quattro volte la settimana ("non sono mai libera!") e possedeva ben 14 dollari, anzi 15. A parte essere piegata dalle risate, perché i bambini non hanno nessun tipo di filtro e dicono tutto quello che gli viene in mente, penso a questo mezzo così inconsueto per tramandare i ricordi. Le fotografie, e i video molti anni dopo, sono così rassicuranti, quanto a linguaggio. La voce che spacca il fruscio di una cassetta sembra invece una piccola frustata, che ti colpisce con tutta l'immediatezza del pensiero che è appena diventato parola.

Ho ascoltato la prima cassetta, cui ne è seguita un'altra, registrata il 4 febbraio 1989. Risate a non finire anche lì, durante un'altra cena in cui si è parlato di scelte che avrebbero in qualche modo determinato il mio futuro - questo lo dico, ovviamente, con il senno di poi. E tra un discorso e l'altro, risuonavano le esortazioni dei miei: Francesca, finisci il riso! Sono passati dieci minuti e sei ancora lì! Oppure gli interventi di mio fratello che chiedeva continuamente l'ora, perché voleva vedere il TG in inglese che annunciava il passaggio dell'allora Presidente italiano Cossiga (!) per Assuan, località sul Nilo famosa per la diga.
Due sono i discorsi che mi hanno provocato più di un'alzata di sopracciglia qualche minuto fa: uno verteva sulla scelta del liceo che avrei voluto fare - alla faccia dell'anticipo, non avevo neanche finito le elementari. I candidati erano quelli che sarebbero poi stati, più o meno, i due poli delle mie inclinazioni naturali: il liceo classico (ma solo per emulazione dei miei, che entrambi avevano fatto) e il liceo artistico. Alla fine feci lo scientifico, ma quella di non optare per l'artistico, per cui avevo chiare e lampanti doti, rimase il mio più grande rimpianto per quanto riguarda la formazione scolastica. Che però la cosa risalisse addirittura a quel periodo, non lo ricordavo.
La seconda grande scelta di cui si discusse durante quella cena fu quella di salire in Italia nell'aprile dello stesso anno per farmi tentare l'audizione alla Scala di Milano ed entrare nel corpo di ballo per intraprendere la carriera di ballerina classica. Altra cosa in cui riuscivo molto bene e che iniziai appunto a studiare al Cairo, con una ex etoile del Bolshoi. Su quel famoso divanetto rosa della camera dei miei, la sera del 31 dicembre 1987 - giorno in cui io e mio fratello raggiungemmo i miei al Cairo - trovai adagiato un tutù da ballerina cucito da mia mamma. Era rosa, con tanti strati di tulle e qualche stellina e lunetta cucite qua e là sulla gonna. Ce l'ho ancora, in un armadio a casa dei miei, e mi rifiuto di darlo via. Comunque, al momento della registrazione, la decisione non era ancora stata presa. La storia ci dice che quell'audizione poi la feci, proprio ad aprile. Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Queste grandi sale con gli specchi e le sbarre per gli esercizi lungo tutto il perimetro. C'erano gli operai che lavoravano su delle impalcature esterne, e ricordo che mentre io e tutte le altre ragazzine che si erano presentate ci cambiavamo, una di loro protestò con gli organizzatori perché questi operai guardavano dentro, attraverso le vetrate. Furono bacchettati a dovere. Comunque, racconto questo aneddoto perché in Italia come altrove, le raccomandazioni hanno sempre fatto girare il mondo - qualsiasi mondo. L'audizione consistette nel farci mettere tutte in fila in mutande, un tot alla volta. Gli esaminatori guardarono la struttura del nostro fisico, davanti e dietro. Quando ci fecero voltare di nuovo di fronte, dissero: "Adesso i nomi che chiameremo facciano un passo avanti". Snocciolarono nomi e cognomi uno dopo l'altro, con una rapidità e precisione che non potevano non far presupporre che la lista fosse stata già stilata tempo prima. Il mio nome ovviamente non fu chiamato, nonostante a quel tempo avessi indubbiamente un fisico da ballerina, magro ma forte, con le linee e le aperture giuste. Ingenuamente pensai che ci stessero solo suddividendo in due gruppi, dal momento che subito dopo ci fecero mettere alla sbarra per fare degli esercizi base. Qualche salto in centro sala, e poi fummo congedate. Siccome saremmo dovuti ripartire per il Cairo a breve, i miei chiesero di anticipare loro l'esito dell'audizione, nel caso in cui mi fossi dovuta ripresentare a stretto giro. Era un giorno assolato di primavera, eravamo appena usciti in strada, e sentii mia mamma sussurrare all'orecchio di mio padre "È un no". Non so se feci finta di niente, ad ogni modo raccontai come la cosa si fosse svolta e i miei ovviamente capirono la manovra.
Quello fu il primo vero no della mia vita. Qualcosa contro cui non potei niente, a differenza di tutte le altre occasioni in cui ebbi la possibilità di lottare per portare a casa il risultato. Spesso mi dico che è stato molto meglio così, e anche sulla questione del liceo artistico forse è stato lo stesso. Perché tanto poi, a fare il lavoro che mi realizzasse nelle mie forme espressive, ci sono riuscita ugualmente.
Ma la cosa che rimane di tutta quella storia della Scala, è la mia domanda, il mio dubbio che lunga la diceva già allora sul mio carattere, fedelmente registrati dal Sony: ma facendo la ballerina poi, ballo solamente...

venerdì 30 giugno 2017

La mia storia sono loro

L'altra notte ho fatto un sogno strano. Faccio sempre sogni strani, in realtà, e quando al risveglio li racconto ad Alberto, lui mi ferma prima che possa finire. Troppo assurdi, intricati, di una fantasia inquietante.
Beh, l'altra notte, nel mezzo di una delle mie trame da psicanalisi, mi sono sognata la mia insegnante di matematica e scienze delle medie. Si chiamava Francesca Ianni, aveva dei ricci fitti e scuri, tenuti indietro da un cerchietto di quelli un po' imbottiti, che si usavano in quegli anni là. Gli anni erano i novanta, e lei avrà avuto poco più di trent'anni. Aveva un viso tondo e l'espressione buona, forse perché io le andavo molto a genio. Parlava sempre bene di me ai miei, diceva che ero diligente e brava. Ed era vero, io sono sempre stata così, una che faceva quello che doveva ma anche qualcosa in più. Mai da secchiona, piuttosto da una sveglia. I grilli per la testa mi sono tutti saltati molto tempo dopo. A parte questo ricordo di bonarietà, in realtà la Ianni era una tosta. Faceva la severa e si faceva rispettare. Poi successe che un giorno facemmo una gita in un qualche posto che ora non ricordo bene, ma prendemmo un treno e ci ritrovammo a visitare una specie di sito geologico. Mi ricordo quest'immagine della pietra stratificata e lei che ci spiegava i minerali di cui era composta. Ma la cosa che più ricordo di quella gita fu quando la Ianni si lasciò andare, togliendo i panni dell'insegnante seria e diventandoci un po' amica. Si sa come sono i ragazzini a quell'età, soprattutto quando si trovano in una situazione un po' fuori dai canoni come una gita scolastica. Dai prof, ce lo dica: lei è fidanzata? Lei tergiversò per un po', finché cedette e disse che sì, stava con uno che si chiamava Guido. Come il mio papà - forse è per questo che me lo ricordo. Le chiedemmo se si sarebbe sposata, ma non si sbottonò. Secondo me non ne era tanto sicura neanche lei. Noi sapevamo che le faceva la corte il prof di ginnastica, il Piacentini - lo avevamo visto fuori dal cancello della scuola con quell'aria da piacione che solo i prof di ginnastica hanno. Magari ci stava solo parlando, ma si sa che i ragazzini ricamano alla grande su queste cose. Insomma, quando il Piacentini cercava di invitarla a uscire, noi sapevamo che avrebbe preso un palo. Perché lei stava già con Guido. E che aria avevamo, noi che la sapevamo lunga.
Insomma, mi sono sognata la Ianni, con la sua faccia un po' tonda e i riccioli gonfi, e quando mi sono svegliata ho pensato che da allora sono passati quasi trent'anni. E quindi lei ora ne ha quasi sessanta. Ci sono rimasta malissimo.
Nella storia di ognuno di noi ci sono delle figure, che hanno fatto parte del mondo della scuola, che sono state significative. Io di bravi prof ne ho avuti, ma di un paio di loro ricordo proprio la straordinarietà della persona. Mi piace credere di portare un po' di loro dentro la me di oggi.

Il primo e più affezionato è Francesco Isola, professore di italiano e latino al trienno dello scientifico. Un uomo di una cultura sconfinata, capace di parlare a braccio per ore di qualsiasi tema. Un insegnante che suonava piano, ma forte. Piccolo di statura, era quasi del tutto cieco. Portava occhiali spessi, i capelli con la riga da parte, un taglio proprio da signore di altri tempi. Senza fronzoli né guizzi, sempre pettinati. Per tre anni lo abbiamo sempre visto fare lezione con addosso il cappotto. Ne aveva due, uno grigio e uno kaki. Quello grigio dal taglio più tradizionale, quello kaki con le spalle tagliate a raglan. Li alternava, ma li teneva sempre chiusi. In tre anni credo di non aver mai visto cosa indossasse sotto. Quando doveva leggere qualcosa, toglieva gli occhiali e avvicinava il libro a pochi centimetri dalla faccia, che spariva dietro alla sagoma rettangolare aperta davanti a lui. Un uomo con la testa a forma di libro. Quando qualcuno faceva il brillante con qualche battuta, lui accennava un mezzo sorriso, aggrottava un poco le sopracciglia e mormorava sì, sì... e tornava alle sue cose. Lui non aveva mai bisogno di alzare la voce, figuriamoci, perché il rispetto se lo era guadagnato con un niente in pochi giorni. Tutti lo adoravano e si piegavano dal ridere.
E poi, le sue pause. Che magia sapeva creare. Quando un professore entrava in classe, c'era l'uso di andare tutti al posto, zitti, e alzarsi in piedi in segno di rispettoso saluto. Lui arrivava alla cattedra senza guardarci, poi si metteva dietro ad essa, in piedi, alzava le braccia con le mani aperte e, come un direttore d'orchestra, dava un colpo secco e breve. Il segno per dirci che potevamo tornare a sedere. Non diceva buongiorno né altro. Lui faceva solo il gesto con le mani e poi si sedeva, apriva il registro e cominciava. Con il fatto che ci vedeva poco, gli alunni se ne approfittavano e al compito in classe copiavano sempre. Io ero quella che passava la versione, e un po' mi dispiaceva ingannarlo così. Ma in classe si fa fronte comune, anche se quei compagni non meritavano niente. Le sole persone a cui passerei una versione oggi era tutta gente anche più in gamba di me, e chissà anche quei pochi che fine hanno fatto. Per qualche tempo, durante gli anni dell'università, mantenni i contatti con uno di loro, Guido - ancora? - uscito con sessanta e lode e che finì a lavorare alla gestione sportiva della Ferrari, alle dirette dipendenze di Jean Todt. Beh, comunque Isola mi fece studiare per il piacere di condividere la cultura quando mi interrogava e mi mandava a posto con otto. E io ero più contenta del dialogo che del voto. L'ho cercato in rete tempo fa, ma nessuna traccia. Aveva già una certa età allora, e non voglio nemmeno sapere se sia ancora vivo. Mi dispiacerebbe troppo, e poi per me è ancora lì con addosso i suoi cappotti mentre fa quel gesto con le mani.

Il secondo prof che ricordo con piacere è anche lui del triennio, insegnava storia e filosofia. Si chiama Pierluigi Raccagni, alias "il Racca". Fisicamente sembrava una strana combinazione di Noè e Gerard Depardieu. Alto, robusto, capelli mossi e lunghi, barba lunga - un po' biondi, un po' castani e un po' bianchi. Un casino. Ma la cosa che ti colpiva erano gli occhi. Grandi, azzurri, pieni di intelligenza e anche di un po' di follia. Non sapevi mai cosa aspettarti dal Racca. Prima di entrare in classe, si finiva la sigaretta standosene sulla porta, scambiando qualche battuta con qualcuno un po' più spaccone degli altri, e mandandolo immancabilmente a cagare. Le sue lezioni erano sempre molto ricche, mai piatte. La sua mimica facciale era uno spettacolo. Perché aveva questa faccia grande, lui era tutto grande. La bocca, gli occhi, il naso. Tutto era importante. Come la sua personalità. Quando qualcuno diceva qualcosa di insensato lui fissava qualcuno a caso, come a dire cazzo dice? e scuoteva veloce la testa, serissimo. Poi guardava la persona che stava parlando ed era capace di rispondergli Tozzi. Ma che cazzo dici? E Tozzi, che era magro e allampanato, faceva un mezzo sorriso e diceva Eh, sì, nel senso... e cominciava alla grande l'arrampicata sugli specchi. Però Il Racca non ti lasciava mai lì impantanato, ti faceva arrivare alla risposta giusta con il ragionamento. Non per altro era il prof di filosofia. E quando Tozzi, o chi per esso - perché a un certo punto la domanda si estendeva a tutta la classe, e ognuno sparava risposte come alla tombola - dava la risposta giusta, lui allargava le braccia ed esclamava un liberatorio Ohhhhhhhh!
Prima di me aveva insegnato a mio fratello, ma questo non aveva mai influenzato il suo giudizio.
Quello che ricordo di più sono le interrogazioni. Chiamava sempre cinque/sei persone insieme, le metteva in fila davanti a lui, di fianco alla cattedra. Se eri un logorroico dovevi metterti per primo, vicino alla lavagna, perché il primo doveva parlare tanto e senza fermarsi. Poi proseguiva con il secondo, il terzo, fino all'ultimo. E poi ripartiva da questo, risalendo fino a quello vicino alla lavagna. Il posto migliore per me - che infatti cercavo sempre di occupare - era il penultimo. Perché io non ero una che facesse discorsi di ore, preferivo l'interlocuzione. E infatti quanto più si andava verso l'ultimo della fila, tanto più lui diventava ficcante. A me piaceva rispondere a quelle domande lì, non le pappardelle da secchione. E me la cavavo sempre bene. Con il Racca non andavo mai oltre il sette e mezzo, perché con lui non riuscivo mai a sentirmi abbastanza sicura di quello che sapevo. Lui ti richiedeva sempre un passo in più, voleva sapere se avessi davvero capito, se in quel filosofo ci fossi veramente entrato, oppure se parlassi come un libro stampato. Lui ti faceva ragionare, questo è quello che più mi ha insegnato. Della filosofia non ricordo quasi niente, ma questo sì. Che se una cosa non la fai tua, le tue cazzate non se le beve nessuno.

Beh, dopo il sogno con la Ianni, oggi l'ho cercata in rete. Google, Facebook, niente. Non c'è. Isola ho già detto che non lo cerco per principio. Allora ho cercato il Racca, e con mia grande sorpresa l'ho trovato subito. Ha un blog che si chiama "La storia sono Loro - storia e storie della democrazia". Nella sua bio dice, tra le altre cose:

Ho scritto sui muri, sulla carta e sul web, ho corretto bozze per otto anni per mantenermi agli studi. Ho scritto dispense di filosofia antica e moderna. Attualmente sono volontario al carcere di San Vittore di Milano.

Sul blog scrive quasi tutti i giorni, è molto incazzato e cazzuto, come e forse più di allora, non le manda a dire a nessuno. Appena l'ho trovato, la prima cosa che ho pensato è che voglio assolutamente fargli un ritratto. Uno dei miei, quelli vicini e intensi, quelli che tirano fuori la persona dal foglio.
Una sezione del sito si chiama "Il mio voto sempre", e c'è soltanto un video: l'inizio di Easy Rider, con la musica degli Steppenwolf che sto ascoltando mentre scrivo. Me lo vedo come se fosse ieri, gli calza proprio bene questa musica.
Gli chiederò di fargli un ritratto mandandogli questo post, sulla sua email. Chissà se si ricorda della sorella di Stella.

martedì 17 gennaio 2017

Al Bruno Munari

In alcuni bar, all'Isola, ci sono ancora le lucine di Natale e le scritte di auguri. Spero che rimangano su tutto l'anno. Anche in via Toce, che fino ad oggi non sapevo esistesse, ho scoperto qualche traccia del Natale, rimasta appesa come su un albero dimenticato. Cose che scopri quando smetti di pensare solo agli affari tuoi e ricominci a guardare il mondo intorno a te, che pulsa, vocia, si sposta con moti non sempre prevedibili.
C'è il Parco Bruno Munari, in via Toce. Bambini che giocano sui castellini, le altalene e tutto il resto. Se una volta viene Christian, posso portarlo qui, penso. Qualche baby sitter, un vecchio, un padre al telefono, gambette che corrono coperte da cilindrotti di piumini blu. Un sacchetto contenente qualcosa, lasciato incustodito su una panchina.
Sul cancello che delimita il parchetto, fogli colorati dentro a camicie di plastica, a ripararli in caso di pioggia. Mi avvicino, sono biglietti di Natale scritti dai bambini di qualche scuola nei dintorni. Appesi a mo' di festoni, un po' a casaccio e incurvati dall'umidità. Ne leggo qualcuno - i soliti pensierini sulla neve e sui doni. Poi il mio sguardo si ferma su questo.



Gesù aiutaci ad essere più buoni e più tolleranti e a tenere la nostra famiglia unita.

La mia famiglia, quella che io considero tale, è molto unita. Ma non tutta la mia famiglia è unita, ce ne sono pezzetti che si sono persi per strada, che i conflitti hanno separato. C'è una cugina che ogni tanto sogno, eravamo molto amiche, ma non ci parliamo più. Lei non parla più con nessuno di noi, in realtà. Ha preso la sua strada, noi le nostre. A volte mi chiedo se dovrei chiamarla, per lo meno mi chiedo perché la sogni. Ne ho parlato coi miei qualche sera fa a cena, per sapere cosa ne pensassero. Loro che solitamente sono sempre per la riconciliazione e il perdono, mi hanno dato una risposta che non mi aspettavo. Lascia stare. Non è necessario che tu lo faccia. Anche noi lasciamo stare, con alcune persone, quando se ne sono dette e fatte troppo grosse. Probabilmente hanno ragione, ma mi rattrista molto quando le famiglie si spezzano. Guardo questo biglietto e penso che un bambino, non troppo lontano da casa mia, ha già paura che qualcosa nella sua famiglia si rompa. O magari è già successo.

Passo al biglietto successivo.




Buon Natale soprattutto ai bimbi che sono tristi senza regali e che vengono dal mare o sono in paesi dove c'è la guerra. Gesù bambino porti la pace e la felicità per tutti.

Questo mi sembra subito un biglietto un po' imbeccato, per così dire. Però vale ugualmente. Michele Sigrisinetti ha già capito come gira il mondo, che è pieno di persone che vengono da tanti mari e conflitti. Anche in questo biglietto, come nel precedente, c'è un augurio di tolleranza. Spero che i loro genitori gliela insegnino davvero.

L'ultimo biglietto che leggo è quello che più mi fa venire la neve nel cuore. L'ha scritto Gianlu.


A Natale sono tutti contenti perché arriva Babbo Natale e papà dalla Svizzera.

sabato 10 settembre 2016

Il mondo tra le mani

L'arrivo di un bambino quasi non si può raccontare, per non rischiare di banalizzarlo. Ogni giorno vengono al mondo tante di quelle vite che l'esperienza della nascita è un fatto davvero universale, qualcosa di cui stupisce stupirsi. Per me il mondo dei bambini è sempre stato lontano. Mai fatto la baby-sitter - troppa responsabilità, e poi chi li sa tenere, cosa gli faccio fare - e mai avuto l'istinto materno.
Poi è accaduto qualcosa nella mia vita, qualche settimana fa: sono diventata zia di un bimbo di quattordici mesi. Erano in lista per l'adozione da quattro anni e all'improvviso, quando nessuno se lo aspettava, è comparso lui. Ero al lago, con i miei. Quel giorno si sarebbe saputa la sua identità, e aspettavamo con ansia la telefonata di mio fratello. Nessuno osava fare il bagno in piscina. Nessuno parlava troppo, immerso nei propri pensieri. Nessuno osava fare niente che potesse essere interrotto. C'era qualcosa di impalpabile nell'aria, come se lui stesse veramente venendo al mondo in quel momento. Mai provato gioia più grande, e chiamarla gioia è così riduttivo. Christian. Nato sotto una stella particolare, una coincidenza di date che sembra un caso ma forse non lo è.
Nei giorni successivi sono arrivate le prime foto, e ognuna era una festa. Man mano che il tempo passava, lui si avvicinava naturalmente ai genitori, si lasciava andare senza fatica, si fidava completamente. Durante quella settimana di avvicinamento lo sguardo cambiava, i sorrisi, i gesti acquisivano una familiarità così immediata. L'amore veniva dal nulla, incondizionatamente. Come se. Anche più che se - per quanto mi riguarda. Prima che la questione "adozione" diventasse qualcosa che, indirettamente, mi riguardava, non sapevo se avrebbe mai fatto per me. Se sarebbe stata la stessa cosa. Io non ho provato l'esperienza di un figlio biologico, ma credo che, per come la sto vivendo io, di differenze non ce ne siano. Anzi, credo di preferire addirittura l'adozione. Pensare a quanto la sua vita sia cambiata, a come le sue prospettive si siano di colpo rivoluzionate per il meglio. Lui che non ha colpe, che non ha ancora fatto niente, che semplicemente è. Pensare a quanto la nostra vita sia cambiata, grazie a lui. Che quando gli porti un regalo si perde prima a guardare la scatola e a rigirare il coperchio, e solo dopo guarda anche il contenuto. Perché per lui è tutto nuovo. E non intendo la casa, le persone, le abitudini: intendo proprio tutto. C'è un'infinità di cose che non ha mai visto, toccato, sentito. E c'è un'infinità di cose che guarda, tocca e ascolta. Non smette mai, è come una spugna. Tutte queste sono cose ovvie, eppure ognuna di esse ha qualcosa di straordinario.
Lo osservo, mi fa ridere da matti, lo amo già tantissimo. Ma forse il primo, vero, momento tra di noi è stato un attimo casuale, arrivato all'improvviso, quando ero in casa con lui ieri e gli stavo dietro intanto che la mamma faceva una torta di mele. Si è fermato e mi ha fissato da vicino con quei piccoli occhi nocciola, per una manciata di secondi. Senza dire nulla, senza ridere, senza fare niente. In quel silenzio carico in cui ci siamo guardati, mi è caduto il mondo tra le mani.
I bambini succedono ogni giorno, ma un bambino accade pochissime volte nella vita.

sabato 19 marzo 2016

Preoccupazioni pubbliche

Ci sono due vantaggi nell'avere un compagno che fa il fotogiornalista. Il primo è ricevere in regalo per il proprio compleanno splendide stampe. Il secondo - e più importante - è il poter imparare tantissime cose sulle culture e sulla storia del mondo.
Ci siamo conosciuti all'Accademia di fotografia, al corso di comunicazione visiva. La cosa è emblematica, perché ancora oggi il mondo della comunicazione visiva è quello che ci riguarda entrambi più da vicino. Diceva Avedon: Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi. In un certo senso, anche per noi è lo stesso. E quando non si tratta di scattare - che, è bene precisarlo, è solo una piccola parte del mestiere del fotografo, in tutte le sue declinazioni - si tratta di leggere, informarsi, guardare, scrivere, porsi domande, confrontarsi.
Da tempo aiuto il mio compagno nel suo lavoro, nonostante le tante difficoltà che spesso fiaccano la determinazione a continuare un percorso spesso sordo alle tante storie da raccontare. Che non sono episodi isolati, piccoli temi per riempire le pagine dei magazine. Sono tutte legate, e tutte fanno parte della Storia con la S maiuscola. Quella che abbiamo studiato sui libri e che un giorno farà parte dei libri delle prossime generazioni. Io capisco che non sia possibile conoscere tutto quello che succede nel mondo - non basterebbe una vita di giornate da 48 ore -, quindi credo che scegliere cosa divulgare sia una responsabilità enorme. Il mondo dell'informazione ci offre quotidianamente un menu di notizie e ogni testata è diversa, in ogni paese o area del mondo. Purtroppo l'informazione di qualità in Italia è un'utopia, quindi chi come me vuole informarsi su quello che avviene nel mondo si deve leggere la stampa straniera. A pensarci bene, spesso anche per sapere cosa succeda realmente in Italia bisogna leggere la stampa estera - ma non divaghiamo. La cosa importante da capire ora è che non esistono storie di serie A o di serie B. Almeno, non dovrebbero. E invece esistono eccome. La cosa diventa ancora più evidente quando succedono fatti clamorosi come gli attacchi terroristici, e quelle occasioni sono una cartina al tornasole molto efficace dello stato dell'informazione delle persone. Siccome sui social nessuno resiste alla tentazione di esprimere la propria opinione su qualsiasi cosa, ecco che trovano posto prese di posizione inimmaginabili per chiunque impieghi un po' del proprio tempo per guardare al di fuori del proprio lenzuolino di terra. Ancora ricordo quando all'improvviso tutti su Twitter sono diventati Charlie Hebdo, o si sono prodotti in lutti mediatici per i cugini d'oltralpe facendo propria la bandiera francese nelle foto profilo di Facebook. Niente di sbagliato nella solidarietà, anzi. Peccato che lo stesso sentimento non abbia animato questi tutti rispetto a molti altri fatti gravissimi accaduti proprio in quei giorni in altri Paesi del mondo. In propria difesa, molti hanno affermato che la solidarietà fosse legata alla prossimità geografica e culturale con i francesi. Questo fatto, lo devo dire, mi ha fatto veramente cadere le braccia. Io avevo allora - e ho oggi - gli stessi strumenti per conoscere i fatti del mondo che avrebbero potuto avere quelle persone così ottusamente chiuse nella propria ignoranza; la differenza tra me e loro è la voglia di sbattersi per andare oltre a quello che ti viene raccontato (o nascosto, secondo le occasioni) ogni giorno. Per questo credo che le redazioni abbiano una responsabilità enorme, perché scelgono cosa il pubblico possa conoscere o meno.
Ogni giornale o magazine ha la propria linea editoriale, il proprio pubblico, il proprio taglio, ed è sacrosanto. È ciò che determina la varietà e, in teoria, la qualità dell'informazione. Tuttavia, ciò che viene pubblicato è quello che il pubblico vede ma non è detto che sia quello che il pubblico vuole vedere. Non mi sorprende la pletora becera di persone che cliccano sulla colonna di destra del sito di Repubblica.it, perché il popolo italiano è stato educato da un palinsesto televisivo che da oltre trent'anni ha contribuito alla rovina culturale di questo paese. Come si può aspettarsi un senso critico da gente cresciuta a pane e Berlusconi? Se avessi potuto scegliere, io avrei domandato ben altro alla televisione dagli anni '80 ad oggi, cioè da quando sono nata. Non mi si venga a dire che quello che c'è oggi è lo specchio della domanda, perché sono certa che una grande fetta di italiani vorrebbero ben altro dal mondo dei media. Quindi di nuovo, enorme responsabilità in capo a chi decide cosa proporre.
Negli ultimi mesi, nell'aiutare il mio compagno a presentare i suoi lavori fotogiornalistici alle varie testate, con alcuni di questi soggetti mi sono interfacciata direttamente. Innanzitutto, chi risponde - anche solo per dirti no, grazie - sono solo gli stranieri. In Italia c'è una maleducazione e una mancanza di rispetto per il lavoro delle persone (in tutti i campi e a tutti i livelli) che è veramente vergognoso. Secondariamente, chi dall'estero declina l'interesse per una storia proposta lo fa motivando la propria scelta. Quello che mi ha fatto riflettere di recente è stata la risposta di un photoeditor di un noto magazine francese, ed è quello di cui volevo scrivere appunto in questo post dopo questo lungo cappello.
L'essenza, letterale, della risposta era la seguente: Your subject is too far from the concerns of our readers. La vostra tematica è troppo lontana dalle preoccupazioni dei nostri lettori. Per inciso, si tratta della guerra civile in Burundi che nell'ultimo anno ha provocato la morte di oltre quattrocento persone e la fuga di migliaia di persone dalle proprie case per aver salva la vita. Chi se ne frega, no? Mica ci sono interessi economici lì, quindi lasciamoli nel loro brodo e non ne parliamo neanche.
A farmi rimanere perplessa non era stato il rifiuto. Di quelli ne arrivano tanti e, anche se ovviamente ci si spera sempre, a quello si può anche essere preparati. Ciò che mi ha colpito è quella parte della frase, too far from the concerns. Di quale lontananza stiamo parlando? Di quella geografica che riesce a coinvolgere le persone solo se capita una tragedia a qualche centinaio di chilometri dalla propria casa? Di quella economica che distingue tra quello che può avere conseguenze dirette sui bilanci di uno stato e quello che no? Di quella che separa il mondo avanzato dal Terzo mondo? Di quella socio-culturale che mette da una parte ciò che è degno di rispetto e dall'altra ciò che è solo folkloristico? Di quella religiosa? Di quella storica e politica? Veramente, di quale lontananza parliamo? E perché alimentarla allora? I lettori non sono preoccupati da altre cose, non dovrebbero esserlo. I lettori - almeno, una gran parte di essi - si preoccupano delle cose che ricevono. È chiaro che non possono preoccuparsi di quelle che non potranno mai conoscere. E non è vero neanche che se le leggessero, non ne sarebbero interessate. Tutte le persone alle quali ho parlato delle storie non pubblicate che conosco ne avrebbero voluto sapere di più. Ne sono rimaste impressionate, e quel che è peggio è che non immaginavano che potessero esistere situazioni del genere.
Il mestiere del giornalista è quello di trovare storie da portare al pubblico. Il suo dovere è di essere testimone della storia che avviene sotto i suoi occhi, giorno per giorno. Non la storia dei politici e politicanti, non quella che vogliono darci a bere dai grandi pulpiti, ma quella che vivono i singoli che non hanno microfoni davanti alla bocca. Il dovere di un editore dovrebbe essere quello di dar loro la voce e, attraverso questa, coltivare la coscienza e il senso critico delle persone su quello che le riguarda, da vicino e da lontano. Non di decidere cosa li possa preoccupare o meno. Quello lo lascino poi decidere a lettori dagli orizzonti più aperti.

venerdì 30 ottobre 2015

Back to black?

Un tempo la seconda serata in tv faceva da contraltare a un prime time imbarazzante. C'erano I bellissimi di Rete 4, ricordo. E un sacco di film stupendi che iniziavano alle due di notte e dovevi programmare il videoregistratore per vederli. Io devo alla prima serata dagli anni '90 in poi gran parte delle mie lacune cinematografiche, che poi sono una delle poche cose che proprio mi imbarazza ammettere quando mi trovo a parlarne con chi è cresciuto a pane e film. Quindi cerco di rimediare, ma non è una faccenda semplicissima perché molte cose neanche si trovano facilmente.
Stasera ero qui a sbrigare qualche faccenda pseudo-lavorativa con la tv accesa, appena finito un film su Iris - una delle poche reti che proponga cose guardabili. Giro il canale e finisco sui titoli iniziali di un film della Comencini, nello specifico "Mi piace lavorare (mobbing)". Fin dalle prime scene un senso di disagio mi percorre la schiena. Avete presente i barboni che ogni tanto salgono sui mezzi e ancora prima di averli visti ti accorgi della loro presenza per via della puzza? Ecco, le produzioni italiane hanno quella roba lì: nella maggioranza dei casi ti urtano immediatamente, come se fossero tutte pervase da qualcosa che le rende uguali una all'altra negli aspetti peggiori. Prima fra tutte la recitazione. Non voglio accanirmi sulla protagonista del suddetto film perché sarebbe come sparare sulla Croce rossa, ma l'esempio è sotto il naso e non posso non coglierlo. Nicoletta Braschi parla come se avesse qualcosa in bocca, ma non di forma smussata e gestibile: somiglia più a un oggetto spigoloso, che lei non sa bene dove mettere. E la Braschi dovrebbe essere la "star" del film, perché gli altri sono attori sconosciuti. I dialoghi sono imbarazzanti, tutti cercano di fare i naturali-grezzi ma fanno delle pause che nessuno fa mai quando parla normalmente. È tutto costruito, forzato, niente scivola. Quando penso a Ferruccio Amendola che doppia De Niro sembra il motore di una Ferrari, ed è qui che inizio a deprimermi. Perché mi chiedo dove sia finito il buon cinema italiano, e intendo sia quello di prima categoria, il più conosciuto, quello dei grandi registi noti a tutti, sia quello considerato di serie B. Mi chiedo quando tutto abbia iniziato ad andare a catafascio. Gli anni '70 e '80 sono stati decenni di forte identità culturale, e hanno prodotto cose senza dubbio interessanti in ogni campo. Non a caso, sono fonte d'ispirazione per qualsiasi revival e oggetto di innumerevoli citazioni di qualità. Il declino è iniziato negli anni '90, e io me li ricordo perché sono stati proprio quelli i "miei" anni, quelli in cui cominciava l'adolescenza e il conseguente risveglio dal torpore critico dell'infanzia. E mi chiedevo, giuro, lo facevo: ok, i settanta e gli ottanta sono stati decenni chiarissimi, importantissimi, così definiti, ma i novanta... cosa sono? Senza scherzi, cosa li avrebbe resi indimenticabili? Io li stavo vivendo e non riuscivo a dire cosa, veramente, rappresentassero. Internet nelle case ancora non c'era, e le finestre sul mondo erano rappresentate soprattutto dalla tv. Tutti sappiamo cosa si stesse sviluppando proprio in quegli anni nella televisione italiana, e ad opera di chi, ma non sono qui a far polemica politica. Il mio discorso vuole essere più ampio. Seppur priva degli strumenti critici che mi permettessero di comprendere quello che stava accadendo intorno a me, capivo che qualcosa si stava perdendo per strada. I novanta per me sono stati anni subdoli, perché covavano una trasformazione culturale che si sarebbe poi realizzata pienamente solo nel nuovo millennio, ma lo facevano zitti zitti, a piccoli passi, senza le forme eclatanti e le tinte forti dei decenni che li avevano preceduti. E mentre tu eri preso a distrarti con le modernità su larga scala che lentamente miglioravano gli aspetti pratici della vita quotidiana, le automobili cominciavano a smussare i propri angoli. Che belle erano invece le auto di un tempo. Avete presente quando capita di vedere vecchie fotografie e ci sono dentro delle macchine? Ci stavano da Dio. Erano belle, un design fantastico. Una popolazione urbana esse stesse, con un carattere forte. Se guardate una foto scattata oggi e c'è dentro una macchina, la foto è rovinata. Fa proprio schifo! A me 'sta cosa della modernità che ha piallato tutto a partire dagli anni '90 amareggia sul serio. Io sto scrivendo questo pezzo ascoltando Stelvio Cipriani e Franco Micalizzi, e li ho scoperti guardando proprio i B-movie da cui i cosiddetti registi italiani dovrebbero imparare il proprio mestiere. È musica che ti porta in un altro mondo, e quando spegni è come se ti risvegliassi da un sogno e tornassi, deluso, alla realtà. Io avrei voluto appartenere alla generazione dei miei genitori, sicuramente mi avrebbe calzato meglio. 
Ho abitato a Roma per otto anni con la voglia di tornare a Milano, e quando ho finalmente traslocato mi sono accorta che la mia città non era più quella che avevo vissuto prima di Roma. Saltando otto anni della sua storia ho reagito come quei parenti che non ti vedono per tanto tempo e ti dicono guarda come sei cresciuto, eri piscinin inscì! e quasi non ti riconoscono. Quando ci sono tornata a vivere, Milano era in piena beauty farm, tutta intenta a ripettinarsi. I vecchi riferimenti non c'erano più, i quartieri avevano preso nuove forme, e la cosa peggiore è che la città tutta - e le persone, anche - stava diventando come le macchine con gli angoli arrotondati che per me avevano segnato la rivoluzione estetica degli anni '90. Tutta altamente performante, la metropoli aspirazionale e ottimizzata, con tutte le cose al posto giusto, verso un'efficienza che però rimane velleitaria. Perché così com'è a me sembra tanto un trucco ricalcato su un make-up vecchio e sporco, che per pigrizia non si è prima ripulito. Immensa vetrina di una qualche idea che chissà da dove e perché abbiamo mutuato. Milano è infotografabile, se non ti cerchi i posti e i modi giusti - il che è già uno snaturare le cose. D'altro canto puoi fotografarne benissimo il disagio, ma ormai lo fanno tutti e tra l'altro, paradossalmente, è diventata anche questa una cosa un po' hipster.
Non posso dire di conoscerla a fondo perché come per i famosi barboni che puzzano uno cerca di non stargli troppo vicino, però Milano un po' l'ho girata. E ovunque vedi questi locali pretenziosetti, tutti fighettini e un po' hipster, wannabe design, una sorta di evoluzione mal riuscita del tu vuo' fa l'americano ma con la presunzione dell'eccellenza italiana - che poi cosa sarà mai tutta questa eccellenza? Questi posti, queste vie con tanta forma e nessuna anima. Dove sono finiti i contenuti in una realtà concentrata sui contenitori? Io sono una alla quale piace la sostanza. Sarà per questo che la mia testa non sta mai ferma, che rompo le palle criticando le cose, che ho una cabina armadio piena di vestiti che non uso più da quando non faccio più l'impiegata e mi metto sempre gli stessi due-tre jeans anche quando ho ormai cambiato taglia e mi scendono. Io con tutta 'sta città aerodinamica, i grattacieli vuoti, la settimana della moda con le blogger e le influencer che si fanno fotografare, 'sto cinema alla Paolo Sorrentino, la classe politica da puttanelle e risse da bar, questo grande videogame dove vince chi frega di più, tutta questa gente intorno a me che ci crede tanto ma che non si accorge di non credere più a niente, veramente... non c'entro niente. Non lo so dove debba andare, cosa debba fare, in quale nicchia infilarmi per non vedere tutte quelle macchine senza poesia nelle mie foto, per sfuggire ai nuovi linguaggi che servono solo a supplire a una mancanza di contenuti. Cosa mi fai vedere gli stuzzicadenti e le ciabatte dei migranti fotografati tutti dritti in pianta con le luci perfette, cosa mi stai raccontando del loro dramma, della loro storia? Su Time ancora gira una serie di foto, sempre sui migranti, che mostra le persone attraverso le zone di calore dei loro corpi nell'ambiente... Per non parlare di tutte quelle robe pittoriche iper-photoshoppate e orrende che sbancano i concorsi fotografici. Ma di cosa stiamo parlando? Dove stiamo andando? E poi siamo mangiati vivi dall'ansia del nuovo-ad-ogni-costo, con tutti che devono per forza emergere per dimostrare di non essere dei falliti. 

Io oggi mi sento peggio di quando mi accorgevo che gli anni '90 ci stavano fregando tutti quanti. Perché almeno allora una speranza poteva ancora esserci, il punto di non ritorno non era ancora stato tracciato. Qualcuno stava affilando la mina nera, ma intanto dipingeva il resto con i colori dell'arcobaleno per distrarre il grande pubblico. Recentemente ho letto un articolo su un esperimento per mostrare gli effetti dell'LSD su una disegnatrice man mano che l'acido avanzava: di ora in ora, il suo autoritratto diventava sempre più pittoresco e assurdo, fino a far sparire persino gli occhi - perché, diceva l'autrice spiegando in seguito il senso di quella scelta, le sembrava che non servissero. A me sembra tanto che siamo sempre più sotto l'effetto di qualcosa di inebriante che man mano ci toglie gli occhi. E se è vero che bisogna sapersi evolvere, è altrettanto sacrosanto - almeno ogni tanto - tornare un po' alle origini. Come diceva quella tossica della Winehouse, back to black