A chi fa il fotografo succede, prima o poi, di sopravvivere a uno dei propri soggetti.
A me è successo nuovamente ieri e si è trattato di una bambina che non è riuscita a venire al mondo. Avrei dovuto fotografarla a breve, una volta nata. Di lei ho soltanto qualche scatto del pancione, foto di gruppo in un'occasione di festa. Ho conosciuto la sua mamma quel giorno, avevo 38 di febbre ma ci tenevo ad esserci. Non avrei mai pensato di ritrovarmi con una notizia del genere, praticamente al termine di quella gravidanza.
Sto fotografando molte persone, ognuna con il suo mondo, e finora è sempre stato tutto un inno alla gioia. Poi arrivano cose come questa, e allora ti fermi a riflettere su quello che stai facendo, su ciò che una fotografia significa e rappresenta. Lo scatto blocca qualcosa per sempre, lo ferma a quel momento mentre tutto passa. Il tempo, le cose, e anche le persone. L'altro giorno, consegnando a mio padre un blocco di foto di nostri antenati restaurate in Photoshop, ci siamo ritrovati a guardare una fotografia in cui tutte le persone ritratte sono, oggi, morte. Tempo fa, una stampa minuscola di una fotografia scattata da me è stata messa tra le mani di una donna, nella sua bara. Sono esperienze mie, ma ne sento tante anche da altri miei colleghi. La fotografia è qualcosa che rende eterna la vita ma al tempo stesso è un incontro inevitabile con la morte. Prima o poi, tutto quello che immortali muore. Questo è uno dei tanti valori che porta con sé quello che faccio, e pochi lo capiscono. Ogni fotografo, presto o tardi, ci fa i conti.
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