giovedì 21 dicembre 2017

Vita e morte

A chi fa il fotografo succede, prima o poi, di sopravvivere a uno dei propri soggetti.
A me è successo nuovamente ieri e si è trattato di una bambina che non è riuscita a venire al mondo. Avrei dovuto fotografarla a breve, una volta nata. Di lei ho soltanto qualche scatto del pancione, foto di gruppo in un'occasione di festa. Ho conosciuto la sua mamma quel giorno, avevo 38 di febbre ma ci tenevo ad esserci. Non avrei mai pensato di ritrovarmi con una notizia del genere, praticamente al termine di quella gravidanza.
Sto fotografando molte persone, ognuna con il suo mondo, e finora è sempre stato tutto un inno alla gioia. Poi arrivano cose come questa, e allora ti fermi a riflettere su quello che stai facendo, su ciò che una fotografia significa e rappresenta. Lo scatto blocca qualcosa per sempre, lo ferma a quel momento mentre tutto passa. Il tempo, le cose, e anche le persone. L'altro giorno, consegnando a mio padre un blocco di foto di nostri antenati restaurate in Photoshop, ci siamo ritrovati a guardare una fotografia in cui tutte le persone ritratte sono, oggi, morte. Tempo fa, una stampa minuscola di una fotografia scattata da me è stata messa tra le mani di una donna, nella sua bara. Sono esperienze mie, ma ne sento tante anche da altri miei colleghi. La fotografia è qualcosa che rende eterna la vita ma al tempo stesso è un incontro inevitabile con la morte. Prima o poi, tutto quello che immortali muore. Questo è uno dei tanti valori che porta con sé quello che faccio, e pochi lo capiscono. Ogni fotografo, presto o tardi, ci fa i conti.

lunedì 20 novembre 2017

La me degli anni '80

Il 17 giugno del 1988 scattava l'ora legale in Egitto. Come lo so? Perché quel giorno i miei genitori registrarono una cassetta con il piccolo registratore della Sony, quello grigio di metallo satinato con il microfono nero sull'angolo e il tastino "REC" rosso. Opportunamente collegato a un paio di casse, per molti anni quello è stato lo stereo della mia famiglia - noi bambini dovevamo stare molto attenti a maneggiarlo. Una volta, mentre smanettavo con un album dei Bee Gees - che non era un revival, ma la musica vera di quei tempi - il registratore mi cadde per terra e il suddetto microfono si deformò leggermente. Nessuno se ne accorse, ma il fatto che io me lo ricordi tutt'ora vi dà la magnitudo del mio senso di colpa.
Il registratore aveva il suo posto sul comodino accanto al letto in camera dei miei, una specie di suite divisa in due da un gradino: nella parte più alta il letto, nell'altra una libreria con un divanetto di velluto rosa antico e una consolle con un grande specchio con i bordi dorati. Era una casa signorile, piuttosto grande, nel cuore di Heliopolis. Tre camere da letto, tre salotti, tanto di scalinata d'ingresso... ma la musica si sentiva con un registratore che stava in una mano, e si andava in giro con una Fura bianca. La nostra vita negli anni '80 è stata tutta una contraddizione, in giro da un paese dell'Africa all'altro, con un prima e un dopo abbastanza diversi per molti aspetti.

All'epoca della cassetta vivevamo al Cairo da qualche mese, in un'era dove comunicare con l'Italia era possibile solo con il telefono (raro, perché caro) e con le lettere scritte a mano. Le telefonate non si effettuavano da casa, ma facendo una passeggiata a piedi fino a un call-center, dove c'erano tante cabine di legno da cui si poteva chiamare l'estero. Andare a telefonare era una specie di festa, per noi bambini. Ricordo la quiete di quelle vie attorniate di verde, subito dopo cena, e i racconti delle conversazioni, al ritorno.
Una volta, quella volta, approfittando di un infermiere che il giorno dopo sarebbe tornato in Italia - papà lavorava all'ospedale italiano del Cairo, a suo dire il posto peggiore dove abbia mai prestato servizio - i miei gli affidarono una cassetta audio da consegnare ai miei nonni, cosicché potessero sentire le nostre conversazioni in una serata "normale". Avevo nove anni.
Oggi, quasi trent'anni dopo, ho riascoltato la voce petulante di quella bambina, che scherzava continuamente con un fratello un po' permalosetto, faceva compiti a iosa, recitava poesie ridendo, suonava "le canzoni" (=pezzi classici) al pianoforte, danzava quattro volte la settimana ("non sono mai libera!") e possedeva ben 14 dollari, anzi 15. A parte essere piegata dalle risate, perché i bambini non hanno nessun tipo di filtro e dicono tutto quello che gli viene in mente, penso a questo mezzo così inconsueto per tramandare i ricordi. Le fotografie, e i video molti anni dopo, sono così rassicuranti, quanto a linguaggio. La voce che spacca il fruscio di una cassetta sembra invece una piccola frustata, che ti colpisce con tutta l'immediatezza del pensiero che è appena diventato parola.

Ho ascoltato la prima cassetta, cui ne è seguita un'altra, registrata il 4 febbraio 1989. Risate a non finire anche lì, durante un'altra cena in cui si è parlato di scelte che avrebbero in qualche modo determinato il mio futuro - questo lo dico, ovviamente, con il senno di poi. E tra un discorso e l'altro, risuonavano le esortazioni dei miei: Francesca, finisci il riso! Sono passati dieci minuti e sei ancora lì! Oppure gli interventi di mio fratello che chiedeva continuamente l'ora, perché voleva vedere il TG in inglese che annunciava il passaggio dell'allora Presidente italiano Cossiga (!) per Assuan, località sul Nilo famosa per la diga.
Due sono i discorsi che mi hanno provocato più di un'alzata di sopracciglia qualche minuto fa: uno verteva sulla scelta del liceo che avrei voluto fare - alla faccia dell'anticipo, non avevo neanche finito le elementari. I candidati erano quelli che sarebbero poi stati, più o meno, i due poli delle mie inclinazioni naturali: il liceo classico (ma solo per emulazione dei miei, che entrambi avevano fatto) e il liceo artistico. Alla fine feci lo scientifico, ma quella di non optare per l'artistico, per cui avevo chiare e lampanti doti, rimase il mio più grande rimpianto per quanto riguarda la formazione scolastica. Che però la cosa risalisse addirittura a quel periodo, non lo ricordavo.
La seconda grande scelta di cui si discusse durante quella cena fu quella di salire in Italia nell'aprile dello stesso anno per farmi tentare l'audizione alla Scala di Milano ed entrare nel corpo di ballo per intraprendere la carriera di ballerina classica. Altra cosa in cui riuscivo molto bene e che iniziai appunto a studiare al Cairo, con una ex etoile del Bolshoi. Su quel famoso divanetto rosa della camera dei miei, la sera del 31 dicembre 1987 - giorno in cui io e mio fratello raggiungemmo i miei al Cairo - trovai adagiato un tutù da ballerina cucito da mia mamma. Era rosa, con tanti strati di tulle e qualche stellina e lunetta cucite qua e là sulla gonna. Ce l'ho ancora, in un armadio a casa dei miei, e mi rifiuto di darlo via. Comunque, al momento della registrazione, la decisione non era ancora stata presa. La storia ci dice che quell'audizione poi la feci, proprio ad aprile. Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Queste grandi sale con gli specchi e le sbarre per gli esercizi lungo tutto il perimetro. C'erano gli operai che lavoravano su delle impalcature esterne, e ricordo che mentre io e tutte le altre ragazzine che si erano presentate ci cambiavamo, una di loro protestò con gli organizzatori perché questi operai guardavano dentro, attraverso le vetrate. Furono bacchettati a dovere. Comunque, racconto questo aneddoto perché in Italia come altrove, le raccomandazioni hanno sempre fatto girare il mondo - qualsiasi mondo. L'audizione consistette nel farci mettere tutte in fila in mutande, un tot alla volta. Gli esaminatori guardarono la struttura del nostro fisico, davanti e dietro. Quando ci fecero voltare di nuovo di fronte, dissero: "Adesso i nomi che chiameremo facciano un passo avanti". Snocciolarono nomi e cognomi uno dopo l'altro, con una rapidità e precisione che non potevano non far presupporre che la lista fosse stata già stilata tempo prima. Il mio nome ovviamente non fu chiamato, nonostante a quel tempo avessi indubbiamente un fisico da ballerina, magro ma forte, con le linee e le aperture giuste. Ingenuamente pensai che ci stessero solo suddividendo in due gruppi, dal momento che subito dopo ci fecero mettere alla sbarra per fare degli esercizi base. Qualche salto in centro sala, e poi fummo congedate. Siccome saremmo dovuti ripartire per il Cairo a breve, i miei chiesero di anticipare loro l'esito dell'audizione, nel caso in cui mi fossi dovuta ripresentare a stretto giro. Era un giorno assolato di primavera, eravamo appena usciti in strada, e sentii mia mamma sussurrare all'orecchio di mio padre "È un no". Non so se feci finta di niente, ad ogni modo raccontai come la cosa si fosse svolta e i miei ovviamente capirono la manovra.
Quello fu il primo vero no della mia vita. Qualcosa contro cui non potei niente, a differenza di tutte le altre occasioni in cui ebbi la possibilità di lottare per portare a casa il risultato. Spesso mi dico che è stato molto meglio così, e anche sulla questione del liceo artistico forse è stato lo stesso. Perché tanto poi, a fare il lavoro che mi realizzasse nelle mie forme espressive, ci sono riuscita ugualmente.
Ma la cosa che rimane di tutta quella storia della Scala, è la mia domanda, il mio dubbio che lunga la diceva già allora sul mio carattere, fedelmente registrati dal Sony: ma facendo la ballerina poi, ballo solamente...

venerdì 30 giugno 2017

La mia storia sono loro

L'altra notte ho fatto un sogno strano. Faccio sempre sogni strani, in realtà, e quando al risveglio li racconto ad Alberto, lui mi ferma prima che possa finire. Troppo assurdi, intricati, di una fantasia inquietante.
Beh, l'altra notte, nel mezzo di una delle mie trame da psicanalisi, mi sono sognata la mia insegnante di matematica e scienze delle medie. Si chiamava Francesca Ianni, aveva dei ricci fitti e scuri, tenuti indietro da un cerchietto di quelli un po' imbottiti, che si usavano in quegli anni là. Gli anni erano i novanta, e lei avrà avuto poco più di trent'anni. Aveva un viso tondo e l'espressione buona, forse perché io le andavo molto a genio. Parlava sempre bene di me ai miei, diceva che ero diligente e brava. Ed era vero, io sono sempre stata così, una che faceva quello che doveva ma anche qualcosa in più. Mai da secchiona, piuttosto da una sveglia. I grilli per la testa mi sono tutti saltati molto tempo dopo. A parte questo ricordo di bonarietà, in realtà la Ianni era una tosta. Faceva la severa e si faceva rispettare. Poi successe che un giorno facemmo una gita in un qualche posto che ora non ricordo bene, ma prendemmo un treno e ci ritrovammo a visitare una specie di sito geologico. Mi ricordo quest'immagine della pietra stratificata e lei che ci spiegava i minerali di cui era composta. Ma la cosa che più ricordo di quella gita fu quando la Ianni si lasciò andare, togliendo i panni dell'insegnante seria e diventandoci un po' amica. Si sa come sono i ragazzini a quell'età, soprattutto quando si trovano in una situazione un po' fuori dai canoni come una gita scolastica. Dai prof, ce lo dica: lei è fidanzata? Lei tergiversò per un po', finché cedette e disse che sì, stava con uno che si chiamava Guido. Come il mio papà - forse è per questo che me lo ricordo. Le chiedemmo se si sarebbe sposata, ma non si sbottonò. Secondo me non ne era tanto sicura neanche lei. Noi sapevamo che le faceva la corte il prof di ginnastica, il Piacentini - lo avevamo visto fuori dal cancello della scuola con quell'aria da piacione che solo i prof di ginnastica hanno. Magari ci stava solo parlando, ma si sa che i ragazzini ricamano alla grande su queste cose. Insomma, quando il Piacentini cercava di invitarla a uscire, noi sapevamo che avrebbe preso un palo. Perché lei stava già con Guido. E che aria avevamo, noi che la sapevamo lunga.
Insomma, mi sono sognata la Ianni, con la sua faccia un po' tonda e i riccioli gonfi, e quando mi sono svegliata ho pensato che da allora sono passati quasi trent'anni. E quindi lei ora ne ha quasi sessanta. Ci sono rimasta malissimo.
Nella storia di ognuno di noi ci sono delle figure, che hanno fatto parte del mondo della scuola, che sono state significative. Io di bravi prof ne ho avuti, ma di un paio di loro ricordo proprio la straordinarietà della persona. Mi piace credere di portare un po' di loro dentro la me di oggi.

Il primo e più affezionato è Francesco Isola, professore di italiano e latino al trienno dello scientifico. Un uomo di una cultura sconfinata, capace di parlare a braccio per ore di qualsiasi tema. Un insegnante che suonava piano, ma forte. Piccolo di statura, era quasi del tutto cieco. Portava occhiali spessi, i capelli con la riga da parte, un taglio proprio da signore di altri tempi. Senza fronzoli né guizzi, sempre pettinati. Per tre anni lo abbiamo sempre visto fare lezione con addosso il cappotto. Ne aveva due, uno grigio e uno kaki. Quello grigio dal taglio più tradizionale, quello kaki con le spalle tagliate a raglan. Li alternava, ma li teneva sempre chiusi. In tre anni credo di non aver mai visto cosa indossasse sotto. Quando doveva leggere qualcosa, toglieva gli occhiali e avvicinava il libro a pochi centimetri dalla faccia, che spariva dietro alla sagoma rettangolare aperta davanti a lui. Un uomo con la testa a forma di libro. Quando qualcuno faceva il brillante con qualche battuta, lui accennava un mezzo sorriso, aggrottava un poco le sopracciglia e mormorava sì, sì... e tornava alle sue cose. Lui non aveva mai bisogno di alzare la voce, figuriamoci, perché il rispetto se lo era guadagnato con un niente in pochi giorni. Tutti lo adoravano e si piegavano dal ridere.
E poi, le sue pause. Che magia sapeva creare. Quando un professore entrava in classe, c'era l'uso di andare tutti al posto, zitti, e alzarsi in piedi in segno di rispettoso saluto. Lui arrivava alla cattedra senza guardarci, poi si metteva dietro ad essa, in piedi, alzava le braccia con le mani aperte e, come un direttore d'orchestra, dava un colpo secco e breve. Il segno per dirci che potevamo tornare a sedere. Non diceva buongiorno né altro. Lui faceva solo il gesto con le mani e poi si sedeva, apriva il registro e cominciava. Con il fatto che ci vedeva poco, gli alunni se ne approfittavano e al compito in classe copiavano sempre. Io ero quella che passava la versione, e un po' mi dispiaceva ingannarlo così. Ma in classe si fa fronte comune, anche se quei compagni non meritavano niente. Le sole persone a cui passerei una versione oggi era tutta gente anche più in gamba di me, e chissà anche quei pochi che fine hanno fatto. Per qualche tempo, durante gli anni dell'università, mantenni i contatti con uno di loro, Guido - ancora? - uscito con sessanta e lode e che finì a lavorare alla gestione sportiva della Ferrari, alle dirette dipendenze di Jean Todt. Beh, comunque Isola mi fece studiare per il piacere di condividere la cultura quando mi interrogava e mi mandava a posto con otto. E io ero più contenta del dialogo che del voto. L'ho cercato in rete tempo fa, ma nessuna traccia. Aveva già una certa età allora, e non voglio nemmeno sapere se sia ancora vivo. Mi dispiacerebbe troppo, e poi per me è ancora lì con addosso i suoi cappotti mentre fa quel gesto con le mani.

Il secondo prof che ricordo con piacere è anche lui del triennio, insegnava storia e filosofia. Si chiama Pierluigi Raccagni, alias "il Racca". Fisicamente sembrava una strana combinazione di Noè e Gerard Depardieu. Alto, robusto, capelli mossi e lunghi, barba lunga - un po' biondi, un po' castani e un po' bianchi. Un casino. Ma la cosa che ti colpiva erano gli occhi. Grandi, azzurri, pieni di intelligenza e anche di un po' di follia. Non sapevi mai cosa aspettarti dal Racca. Prima di entrare in classe, si finiva la sigaretta standosene sulla porta, scambiando qualche battuta con qualcuno un po' più spaccone degli altri, e mandandolo immancabilmente a cagare. Le sue lezioni erano sempre molto ricche, mai piatte. La sua mimica facciale era uno spettacolo. Perché aveva questa faccia grande, lui era tutto grande. La bocca, gli occhi, il naso. Tutto era importante. Come la sua personalità. Quando qualcuno diceva qualcosa di insensato lui fissava qualcuno a caso, come a dire cazzo dice? e scuoteva veloce la testa, serissimo. Poi guardava la persona che stava parlando ed era capace di rispondergli Tozzi. Ma che cazzo dici? E Tozzi, che era magro e allampanato, faceva un mezzo sorriso e diceva Eh, sì, nel senso... e cominciava alla grande l'arrampicata sugli specchi. Però Il Racca non ti lasciava mai lì impantanato, ti faceva arrivare alla risposta giusta con il ragionamento. Non per altro era il prof di filosofia. E quando Tozzi, o chi per esso - perché a un certo punto la domanda si estendeva a tutta la classe, e ognuno sparava risposte come alla tombola - dava la risposta giusta, lui allargava le braccia ed esclamava un liberatorio Ohhhhhhhh!
Prima di me aveva insegnato a mio fratello, ma questo non aveva mai influenzato il suo giudizio.
Quello che ricordo di più sono le interrogazioni. Chiamava sempre cinque/sei persone insieme, le metteva in fila davanti a lui, di fianco alla cattedra. Se eri un logorroico dovevi metterti per primo, vicino alla lavagna, perché il primo doveva parlare tanto e senza fermarsi. Poi proseguiva con il secondo, il terzo, fino all'ultimo. E poi ripartiva da questo, risalendo fino a quello vicino alla lavagna. Il posto migliore per me - che infatti cercavo sempre di occupare - era il penultimo. Perché io non ero una che facesse discorsi di ore, preferivo l'interlocuzione. E infatti quanto più si andava verso l'ultimo della fila, tanto più lui diventava ficcante. A me piaceva rispondere a quelle domande lì, non le pappardelle da secchione. E me la cavavo sempre bene. Con il Racca non andavo mai oltre il sette e mezzo, perché con lui non riuscivo mai a sentirmi abbastanza sicura di quello che sapevo. Lui ti richiedeva sempre un passo in più, voleva sapere se avessi davvero capito, se in quel filosofo ci fossi veramente entrato, oppure se parlassi come un libro stampato. Lui ti faceva ragionare, questo è quello che più mi ha insegnato. Della filosofia non ricordo quasi niente, ma questo sì. Che se una cosa non la fai tua, le tue cazzate non se le beve nessuno.

Beh, dopo il sogno con la Ianni, oggi l'ho cercata in rete. Google, Facebook, niente. Non c'è. Isola ho già detto che non lo cerco per principio. Allora ho cercato il Racca, e con mia grande sorpresa l'ho trovato subito. Ha un blog che si chiama "La storia sono Loro - storia e storie della democrazia". Nella sua bio dice, tra le altre cose:

Ho scritto sui muri, sulla carta e sul web, ho corretto bozze per otto anni per mantenermi agli studi. Ho scritto dispense di filosofia antica e moderna. Attualmente sono volontario al carcere di San Vittore di Milano.

Sul blog scrive quasi tutti i giorni, è molto incazzato e cazzuto, come e forse più di allora, non le manda a dire a nessuno. Appena l'ho trovato, la prima cosa che ho pensato è che voglio assolutamente fargli un ritratto. Uno dei miei, quelli vicini e intensi, quelli che tirano fuori la persona dal foglio.
Una sezione del sito si chiama "Il mio voto sempre", e c'è soltanto un video: l'inizio di Easy Rider, con la musica degli Steppenwolf che sto ascoltando mentre scrivo. Me lo vedo come se fosse ieri, gli calza proprio bene questa musica.
Gli chiederò di fargli un ritratto mandandogli questo post, sulla sua email. Chissà se si ricorda della sorella di Stella.

martedì 17 gennaio 2017

Al Bruno Munari

In alcuni bar, all'Isola, ci sono ancora le lucine di Natale e le scritte di auguri. Spero che rimangano su tutto l'anno. Anche in via Toce, che fino ad oggi non sapevo esistesse, ho scoperto qualche traccia del Natale, rimasta appesa come su un albero dimenticato. Cose che scopri quando smetti di pensare solo agli affari tuoi e ricominci a guardare il mondo intorno a te, che pulsa, vocia, si sposta con moti non sempre prevedibili.
C'è il Parco Bruno Munari, in via Toce. Bambini che giocano sui castellini, le altalene e tutto il resto. Se una volta viene Christian, posso portarlo qui, penso. Qualche baby sitter, un vecchio, un padre al telefono, gambette che corrono coperte da cilindrotti di piumini blu. Un sacchetto contenente qualcosa, lasciato incustodito su una panchina.
Sul cancello che delimita il parchetto, fogli colorati dentro a camicie di plastica, a ripararli in caso di pioggia. Mi avvicino, sono biglietti di Natale scritti dai bambini di qualche scuola nei dintorni. Appesi a mo' di festoni, un po' a casaccio e incurvati dall'umidità. Ne leggo qualcuno - i soliti pensierini sulla neve e sui doni. Poi il mio sguardo si ferma su questo.



Gesù aiutaci ad essere più buoni e più tolleranti e a tenere la nostra famiglia unita.

La mia famiglia, quella che io considero tale, è molto unita. Ma non tutta la mia famiglia è unita, ce ne sono pezzetti che si sono persi per strada, che i conflitti hanno separato. C'è una cugina che ogni tanto sogno, eravamo molto amiche, ma non ci parliamo più. Lei non parla più con nessuno di noi, in realtà. Ha preso la sua strada, noi le nostre. A volte mi chiedo se dovrei chiamarla, per lo meno mi chiedo perché la sogni. Ne ho parlato coi miei qualche sera fa a cena, per sapere cosa ne pensassero. Loro che solitamente sono sempre per la riconciliazione e il perdono, mi hanno dato una risposta che non mi aspettavo. Lascia stare. Non è necessario che tu lo faccia. Anche noi lasciamo stare, con alcune persone, quando se ne sono dette e fatte troppo grosse. Probabilmente hanno ragione, ma mi rattrista molto quando le famiglie si spezzano. Guardo questo biglietto e penso che un bambino, non troppo lontano da casa mia, ha già paura che qualcosa nella sua famiglia si rompa. O magari è già successo.

Passo al biglietto successivo.




Buon Natale soprattutto ai bimbi che sono tristi senza regali e che vengono dal mare o sono in paesi dove c'è la guerra. Gesù bambino porti la pace e la felicità per tutti.

Questo mi sembra subito un biglietto un po' imbeccato, per così dire. Però vale ugualmente. Michele Sigrisinetti ha già capito come gira il mondo, che è pieno di persone che vengono da tanti mari e conflitti. Anche in questo biglietto, come nel precedente, c'è un augurio di tolleranza. Spero che i loro genitori gliela insegnino davvero.

L'ultimo biglietto che leggo è quello che più mi fa venire la neve nel cuore. L'ha scritto Gianlu.


A Natale sono tutti contenti perché arriva Babbo Natale e papà dalla Svizzera.