Quando incontriamo una persona per un ritratto, spesso accade che la prima intuizione riesca ad andare più a fondo di quanto possa avvenire dopo, andando avanti a scattare. Sapere troppe cose rende più difficile il mettersele alle spalle per essere innocenti al momento giusto.
Ieri sera ho incontrato Ferdinando Scianna dal vivo, dopo averlo letto, guardato e citato per anni. L'occasione è stata la presentazione del suo ultimo libro, "Autoritratto di un fotografo", presso la Scuola Romana di fotografia.
Si è parlato a lungo di ritratto, cosa che ovviamente ho molto apprezzato (istante decisivo, aneddoti, approccio à la Cartier-Bresson vs Klein), ma anche di ossessione e necessità dello scatto, nonchè del rapporto fotografia-scrittura - Scianna ha anche scritto molto nella sua carriera, coltivando per tutta la vita anche una solida amicizia con il conterraneo Leonardo Sciascia. Ho trovato particolarmente interessante quest'ultimo spunto, a proposito del quale Scianna ha dichiarato: "La mia fotografia ci guadagna ad essere accompagnata da questo basso continuo letterario."
Io, inutile dirlo, mi ritrovo molto in quest'asserzione. Per chi nel raccontare si limita a fotografare non c'è necessità di spiegarsi ulteriormente, anzi il mistero che nasce da una foto è uno dei tesori di maggior valore che lo spettatore possa ricevere. Io stessa amo guardare e realizzare immagini non esaustive da questo punto di vista, eppure quando presento i miei lavori mi piace sempre raccontare come siano nati gli scatti - ne avete svariati esempi anche in questo blog, con i post su Within - perchè ho grande passione per la narrazione. E' come un sistema a due incognite interpretative, che non si risolve in una sola espressione: è necessaria la seconda equazione. E' per questo motivo che, come ho detto recentemente a uno di voi, non mi posso ritenere una fotografa: a me l'immagine non basta e io non basto a lei, tant'è vero che il nostro rapporto non è risolto. Dover scegliere tra le forme di espressione visiva e verbale non porta alla risoluzione del mio sistema personale. Quel basso continuo di cui parla Scianna lo sento anch'io, ma mentre per un fotografo con tutte le lettere è semplicemente un suono che può dare il tono del fare, per me se ne esce, un po' anarchicamente, anche come strumento solista. Saturnino style.
Forse la grazia della fotografia sta proprio nel liberarsi dal viluppo della parola, dalla necessità di essere commentata ed esplicata. C'è qualcosa, nei fotografi refrattari alla parola, di immediato e misterioso (e anche di impertinente) che mi affascina molto: Atget, Lartigue (di cui Scianna ha scattato un ritratto memorabile), Kertész, Sander, la Woodman... (per farmi intendere: Man Ray era certamente un grande artista o una grande presenza intellettuale, non so se anche un grande fotografo, e la stessa cosa vale per Cecil Beaton; Mulas però, o Ronis...). Più spesso la parola soffoca, offusca, spenge. Quando incontrai Horst, vecchissimo, in Florida, parlava di tutto e con un fascino smisurato: ma della fotografia mi disse che doveva essere self-evident (ed è curioso, in un fotografo tanto costruito, tanto formalista). PS Il valore di Scianna è cosa nota e fuori discussione, però forse questo basso continuo letterario lo porta a ricreare mondi (la Sicilia che contrappone arcaismo magico ed erotismo) più a partire da archetipi, ahimé diffusissimi e banalizzatissimi in altre espressioni, che dal reale self-evident (nel senso in cui Cartier-Bresson diceva: mi interessa la realtà, non la fotografia). Ma forse mi sbaglio, e sono violoncello e clavicembalo del "mio" basso continuo a dilavarmi la melodia. Ciao.
RispondiEliminaCerto, la fotografia non va spiegata, sia che sia self-evident o meno. Forse mi sono espressa male io: il mio è solo un duplice modo di raccontare la stessa cosa. Devo capire come coniugare le due forme, perchè mi trovo a non voler rinunciare a nessuna di esse...
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