lunedì 24 ottobre 2011

Within #8

Entro in casa sua e subito mi accorgo che non è né l'abitazione di un single né quella di una coppia, ma un mondo che, plasmato sulla dimensione dei bambini, restituisce nitidezza al ricordo dell'infanzia di ognuno di noi. Alla mia destra c'è lo spazio dei giocattoli, delimitato da un piccolo recinto di legno, ma le tracce dell'universo piccolo sono dappertutto. Tutti dormono, ma si respirano vita e calore ovunque mi giri. Mi rinfresco in bagno e l'occhio cade immediatamente su una piccola libreria di fianco al lavandino, dove, tra gli altri, stazionano Epicuro e Manzoni. Non c'è dubbio, qui abita uno scrittore: Moreno Pisto.

Questo suo post è la ragione per cui ho deciso di contattarlo, una settimana fa. Così, senza pensarci un momento di più, via e-mail. A istinto ho pensato che in un certo senso parlavamo la stessa lingua e infatti ha subito accettato di fare questo ritratto. Per me era il primo Within con una persona del tutto sconosciuta - abbiamo solo qualche conoscenza in comune, tramite cui sono arrivata al suo blog. Era tempo che volevo misurarmi su questo terreno: mettermi alla prova senza il vantaggio della confidenza amicale - sebbene quest'ultima non sia sempre una facilitazione, quando si fa un ritratto.

Parto da Roma in tarda mattinata e Moreno viene a prendermi alla stazione di Pescia, il paese in provincia di Pistoia dove vive. La prima cosa che noto della sua persona è che è ha una gentilezza genuina, un fare aperto e curioso. Ancora prima di salire in macchina ho già la sensazione che il ritratto riuscirà. Scegliamo di scattare nel suo regno: il posto dove scrive. E' una stanza al piano di sotto, in pietra grezza e muratura bianca, con una lampadina al centro, una scrivania, i due quadri di Love appesi alle pareti e una piccola finestra che illumina i contorni di un divano in broccato color ocra. Il contrasto tra la ricchezza visiva del tessuto e l'essenzialità dell'ambiente circostante mi conquista immediatamente. Decido di restare nella penombra, perché quella poca luce naturale è perfetta per i miei scatti. Carico la pellicola, imposto il tiraggio e poso la macchina sul tavolo. Parliamo a lungo, intanto che mi abituo a quello spazio. Ovunque proteggi di Vinicio Capossela si ripete all'infinito, amalgamandosi con discrezione alle pareti. Osservo i movimenti di Moreno, le sue espressioni. Le parole si accavallano, i fili dei discorsi s'intrecciano, inerpicandosi fino a perdersi - come siamo arrivati a parlare di questo? La cifra è da subito introspettiva e i pensieri affiorano stimolati dalla densità del confronto. Lui ci registra dal primo momento: parole, passi, pause. I miei appunti sono invece negli occhi e, poi, nella macchina fotografica - a ognuno il suo. Il silenzio arriva quando deve, lentamente, senza fretta. Scattiamo per un tempo indefinito, un'ora, forse due: non me ne rendo conto. Ci mettiamo qua, ci spostiamo là. In piedi, seduto, inginocchiato. Moreno capisce perfettamente quello che sto facendo nel momento in cui lo sto facendo. Tiene lo sguardo quando intuisce che è giusto per me, ripete un gesto, mi asseconda. Non prevarica, nè lo faccio io con lui: siamo sullo stesso piano, anche perchè senza parole è molto più difficile chiedere all'altro: deve quasi nascere da sè. E' questa la sfida del mio progetto, il senso del contatto sta qui: tutto si trasferisce su un altro livello, e se lì non c'è intesa è finita. Quando arriva lo scatto ce ne accorgiamo entrambi e istintivamente emetto un suono gutturale, a cui lui risponde nello stesso modo. Ogni tanto ci raggiunge sua figlia, che pare aver perso la testa per me perchè da quando mi ha visto non ha smesso un momento di farmi le feste. E' tenera da sciogliersi. Li ritraggo insieme, poi ci fotografa lui. Finisco i miei cinque rulli sapendo di avere già le foto che voglio, ma andrei avanti ancora, c'è troppo gusto. Mi passa la sua G12 e ricomincio a scattare, ora in maniera completamente diversa, tecnicamente più sporca: uso il flash, il mosso; la luce è accesa, fredda, la metto in controluce o appena sopra di lui, a indurire le ombre. Sfoco il primo piano, compongo in maniera solo apparentemente disattenta. Anche il mood delle foto cambia, esce un altro dentro di Moreno, più aggressivo e determinato. Sapeva che avevo un'idea rimasta ancora irrealizzata e me ne regala il gesto senza che nemmeno glielo chieda. Stiamo giocando, ormai. Il tempo passa, e noi ancora là sotto con le macchinette. Smettiamo solo quando ci vengono a reclamare dal piano di sopra, tre ore dopo il mio arrivo. Prima di risalire, mi regala il suo libro appena pubblicato e un altro che gli prometto di recensire, sul rapporto tra fotografia e letteratura.
Questi alcuni degli scatti con la G12, le altre in pellicola arriveranno tra qualche tempo.

Questo è quanto, almeno per ciò che riguarda le foto. Tanto altro ci sarebbe da dire su quella famiglia, sull'amore che girava, sul molto che ho intuito senza che nessuno lo verbalizzasse, su di lui e sui messaggi che passano nel suo libro, che ho divorato in meno di ventiquattro ore. Ma queste cose rimarranno tra noi, vere e piene. Qui riporterò solo ciò che ho detto anche a lui ieri, al termine della mia lettura: Moreno fa sembrare il coraggio più a portata di mano di quanto non si pensi.
Adoro non sbagliarmi sulle persone: quelle autentiche si lasciano riconoscere subito, con una generosità priva di reticenze, persino da poche righe su un blog.

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