lunedì 22 dicembre 2014

Dodici anni di gavettoni

Linklater non è come il vino, che migliora con il tempo. Non mi pare ci sia mai stato nella sua filmografia un punto di massimo da cui scendere, ma guardando Boyhood non posso che constatare un colossale scivolone di generale qualità cinematografica. L'ultimo capitolo della trilogia di Before (sunrise, sunset e midnight) è di una tale noia da competere con una coda alle poste, ma certo di fronte a un'unanimità così entusiastica per Boyhood da parte della critica non mi aspettavo un film così insulso.
Per chi non l'avesse visto, risparmiando 166 minuti di vita magari accanto a un inevitabilmente dormiente fidanzato, Boyhood è un film sulla crescita di un ragazzino americano nel contesto di una famiglia in reiterato sfascio. La particolarità che ha fatto gridare al miracolo è che il film è stato girato in un lasso di tempo di dodici anni (anche se i giorni effettivi di lavorazione sono stati solo 39, e si nota), utilizzando lo stesso cast che in tal modo si è visto realmente evolvere fisicamente. I bambini sono diventati adolescenti, gli adulti sono ingrassati, sono comparse le rughe.
Idea dal grande potenziale, quindi. Un progetto a lungo termine di tale portata avrebbe potuto segnare la storia del cinema, essere un esperimento dove verosimiglianza e verità potessero avvicinarsi davvero.
E invece si sono fatte le nozze coi fichi secchi.

Sceneggiatura inesistente, fiacca. Per raccontare il quotidiano e l'apparente nulla ci sono modi più efficaci, poetici, pregnanti. Si prenda Still life, di Uberto Pasolini, per citare un titolo recente. La vita di un impiegato del comune il cui compito è cercare i familiari di chi è morto in solitudine. L'uso dell'inquadratura, la luce, il suono (e non alludo alla colonna sonora), la recitazione. Una meraviglia. In Boyhood manca tutto. Non c'è regia. Nessuna inquadratura o sequenza interessante: non dico arrivare alle sgrandangolate nauseanti di un Malick, o alle prospettive hipster di Wes Anderson, ma almeno provare ad avvicinarsi a qualcosa di meno impersonale si poteva anche fare.
Non c'è la recitazione, dote tanto invidiata agli americani dalle capre del cinema nostrano. Ethan Hawke ha lo stesso repertorio espressivo di Nicholas Cage. I dialoghi sono vuoti, fatti di niente, non portano ad alcuna riflessione. In dodici anni si poteva anche pensare per qualche minuto al contenuto, e invece no. Dedichiamoci ancora un po' ai tagli di capelli, i veri protagonisti della pellicola.
Non c'è scenografia. Non c'è costume, non c'è storia, non c'è l'evoluzione di una cultura in dodici anni - se non per qualche debole e stereotipato accenno a Bush e alla campagna elettorale di Obama. In dodici anni, a inizio millennio, quante cose sono cambiate? Possibile che nessuna sia stata meritevole di un'inquadratura, un cenno, un momento di gloria? Ah già, per qualche secondo si vedono i Pokemon. E i cellulari. La contestualizzazione è debole, le analisi sincronica e diacronica sono diluite nelle vicende di un ripetitivo piagnisteo sentimentale. Quello che invece non manca è tutto il repertorio degli stereotipi umani: il padre assente e irresponsabile che abbandona la famiglia, il professore che diventa ubriaco e violento, il soldato reduce dalla guerra in Medio Oriente, il college e il fancazzismo degli studenti, e via dicendo.
La colonna sonora, che avrebbe potuto supplire in qualche modo alle lacune della regia, è banale e non mostra neanche il minimo della ricerca. Sembra assemblata da un deejay alle prime armi al quale sia stato interdetto l'accesso a una qualsiasi fonte musicale pre-Coldplay. Ci si prova, senza successo, attraverso il personaggio interpretato da Hawke, con qualche strimpellata alla chitarra sul patio, tra canti stonati (che fanno tanto cinema-verità-semplicità) e teste ciondolanti che sbrodolano sorrisi buonisti.
Insomma, non mi piace l'idea di stroncare di netto il lavoro di qualcuno, specie sapendo che vi si è dedicato per dodici anni. Ma si poteva e si doveva pretendere molto di più da un proposito ambizioso come quello che ha ispirato il film. Non ci si poteva accontentare di un prodotto così mediocre e noioso, inconsistente e superficiale. Un'occasione sprecata, un amaro in bocca che permane fastidioso dopo la visione.
Boyhood è avere a disposizione un Barolo del secolo scorso e usarlo per riempirci i gavettoni.

Nessun commento:

Posta un commento