lunedì 17 dicembre 2012

Carverità

Chiunque voglia scrivere - ma anche fotografare - deve assolutamente leggere Niente trucchi da quattro soldi, di Raymond Carver. Io lo sto facendo per la terza volta, e ci sono frasi che non avevo ancora sottolineato nelle letture precedenti. Se scrivessi il post che questo libro meriterebbe, vi rovinerei completamente la scoperta di quelle parole. Non vi farò questo dispetto. Senza contare che diventerebbe davvero lunga, troppo per il blog. Ci sono però almeno un paio di punti che voglio estrapolare, perché credo possano essere utili anche a chi viene qui per leggere di fotografia e dintorni.

Carver, che oltre ad essere uno scrittore straordinario era anche docente di scrittura creativa, in un capitolo del libro affronta proprio il tema dell'insegnamento. Vi si legge:

Un buon insegnante di scrittura creativa può far risparmiare un sacco di tempo a chi ha la stoffa dello scrittore. Secondo me può far risparmiare un sacco di tempo anche a chi non ce l'ha, ma per ora lasciamo perdere questo discorso. Scrivere è un lavoro duro e solitario, ed è facilissimo imboccare la strada sbagliata. Se facciamo bene il nostro mestiere, noi insegnanti di scrittura creativa svolgiamo una funzione "in negativo" quanto mai necessaria. Se valiamo qualcosa come docenti, dovremmo insegnare ai giovani scrittori come non scrivere e metterli in grado di insegnarsi da soli come non scrivere.

Questa funzione "in negativo" è fondamentale. I migliori maestri che ho avuto in fotografia sono stati quelli che non mi hanno detto cosa dovevo fare, mettendomi invece in condizione di capire, nel tempo, cosa non andasse fatto. Essere in grado di insegnarsi da soli come non fare qualcosa è il livello massimo di consapevolezza che possa raggiungere chi provi a fare qualcosa (foto o romanzi, non importa) - nonché il punto di partenza per un professionista che valga. Si tratta di allenarsi a capire e capirsi, esercitare il distacco e l'obiettività, mettersi in discussione in senso assoluto e non solo relativamente a un giudizio esterno (positivo o negativo che sia, e trovo che entrambi siano pericolosi).

Il secondo punto riguarda quello che è un po' il cuore della visione di Carver: il famoso discorso del niente trucchi da quattro soldi. Riporto uno dei paragrafi probabilmente più significativi sull'onestà dello scrivere (continuate a vederla anche come onestà del fotografare):

Agli scrittori e agli aspiranti scrittori si possono insegnare alcune cose da non fare. Gli si può insegnare l'assoluta necessità di essere onesti nella scrittura, di non falsificarla. Uno scrittore non dovrebbe mai perdere di vista il senso ultimo del racconto. A me non interessano le narrazioni che sono tutta tecnica e niente sentimenti. Credo di essere tradizionalista quel tanto che basta da pensare che il lettore debba essere in qualche modo coinvolto a livello umano. E che ci sia ancora - o quantomeno dovrebbe esserci - un patto tra scrittore e lettore. La scrittura, come qualsiasi altra forma di sforzo creativo, non è solo espressione, è comunicazione. Quando uno scrittore smette di voler davvero comunicare e mira solamente a esprimere qualcosa, e neanche bene - be', si esprima pure andando fuori a urlare all'angolo della strada. 
Un racconto o un romanzo o una poesia dovrebbero sferrare un certo numero di pugni all'emotività del lettore. Si può giudicare un'opera da quanto sono forti i suoi pugni e da quanti ne tira. Se si tratta solo di un mucchio di giochetti intellettuali, non mi interessa. Opere così sono come la paglia: volano via al primo venticello.

Delle fotografie non oneste non si finirebbe mai di parlare. Tutto normale, ci passiamo tutti. Alcuni rimangono lì per tutta la durata del loro percorso da fotografi, altri arrivano a insegnarsi da soli a non essere insinceri. Occorre tempo e impegno. La fotografia si presta facilissimamente ai famosi trucchi da quattro soldi. La prima cosa che verrebbe in mente in tema di trucchi è la postproduzione, ma io credo che sia soltanto una parte del problema - ed è prettamente formale, diciamo che mi pare la punta dell'iceberg. Il vero nodo in realtà sta molto più in profondità. Nel mare di immagini che abbiamo occasione di vedere, sapremmo dire quante sono le fotografie che ci tirano un pugno? Personalmente, direi pochissime. E questo perché la maggior parte delle foto che ci passano sotto il naso non sono sincere. Conosco bene il problema per esperienza personale - la sincerità delle foto è ciò su cui lavoro ormai da anni, e l'ho fatto anche smettendo di scattare per alcuni periodi. Perché me la prendo così a cuore? Perché se una foto non tira un pugno - attenzione, non intendo dire che debba essere violenta: anche una foto tenerissima può essere un gran pugno - è inutile. E l'inutilità di una foto è il suo peggior difetto. Foto così sono come la paglia: volano via al primo venticello. Per dirla con Carver, chi vuole esprimersi vada pure a fare le foto all'angolo della strada: certe immagini non servono a nessuno, perché non esercitano una comunicazione. Spesso sono maschere, nient'altro che la paradossale manifestazione di un nascondiglio. E in ogni caso sono pura espressione, non creano un ponte con lo spettatore: rimangono semplici elucubrazioni onanistiche. Ogni giorno guardo con perplessità fotografie davanti a cui mi chiedo: "Ma cosa mi rappresenta? Perché il soggetto sta facendo quel che sta facendo? Qual è il punto?". E il problema è che spesso nemmeno il fotografo lo sa, quale sia il punto. Perché non sa cosa sia un pugno. Ne ha ricevuti, certamente - chissà quante foto di grandi ha visto per alimentare la sua passione - ma non ne ha mai dati. A tirare di boxe si può insegnare, ma non è solo questione di tecnica. Ora, io non so nulla di questo sport e magari mi sbaglierò, ma immagino che una cosa importante da imparare non sia solo come si tiri un pugno, ma soprattutto cosa significhi colpire. E' un'intuizione, come succede nella scrittura o nella fotografia: d'un tratto capisci cosa stai facendo, ne trovi il senso. E la cosa è così forte che arriva persino a portarti lei stessa, una volta che ci sei salito in groppa: perché hai imparato come si fa, e sei in grado di replicare attivamente il meccanismo ogni volta che ti serve.
Se il talento è quella cosa che ti attraversa senza sforzo, l'onestà è il suo mezzo di trasporto. Il suo cavallo al galoppo. Arrivare a insegnarsi da soli a essere onesti è il punto. Chiamiamola pure Carverità.

1 commento:

  1. Trovo il tuo post, molto significativo. E mi appunterò il nome del libero.
    Un pugno, almeno a me, è arrivato.

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