lunedì 13 maggio 2013

Capalbio

Perchè non andiamo al mare? fa Renata, mentre un residuo di caffè si asciuga sul fondo della sua tazzina. Io ho ancora i capelli bagnati e provo a raffreddare i diavoli ancora attaccati. Potremmo andare a Capalbio, che dici? Dico che è ok. Ho bisogno di andarmene da qua, da tutto questo. Qualsiasi meta mi va bene, e il nome non mi è nuovo. Vediamola un po', questa Capalbio di cui ho già sentito.
Andare al mare nel weekend a Roma in macchina è un terno al lotto. Rischi di trovarti imbottigliato sotto il sole, ma è ancora inizio maggio e i romani hanno preferito altri lidi. Non c'è traffico, la strada scorre veloce ma senza fretta. Guardo dal finestrino le ginestre in fiore, le morbide curve della terra, le barriere. Il solito uccello che mi s'infila nello scatto, e io non lo mando via.


Siamo ancora in autostrada quando, sulla sinistra, appare il mare. Come al solito, lo fa senza preannunciarsi. Torno con la mente alle tante volte in cui ho vissuto quel momento andando in Liguria. Con la capote aperta, tra le curve prese troppo velocemente dal mio giustiziere della strada, all'improvviso lo vedevo. Arrivati, pensavo con sollievo. Allora significava aprire casa, uscire subito e prendere pizza e birra da mangiare in spiaggia, davanti al tramonto sul mare. Poi scendeva un po' di freddo, ma non si sentiva.
Questa volta il mare dalla strada lo guardo appena. Il guard-rail lo copre, non mi lascia godere del panorama se non per rapide apparizioni. No, il mio momento non è questo. E' invece quello in cui vedo la linea del mare spuntare dalla stradina che porta verso la spiaggia. Il profumo di verde m'investe, le infradito ai piedi fanno quel rumore tutto loro. Sorrido senza accorgermene, sembra che una mano invisibile mi distenda il viso verso l'esterno. Ehi, sto sorridendo, penso. Allora è così quando il tuo corpo dialoga bene con tutto quello che contiene.


Arriviamo in spiaggia, poso le due cose che ci siamo portati e vado immediatamente vicino all'acqua. Il mare è un po' agitato. Mi piace da morire così, ha carattere. E' un po' come me in quell'istante. Si agita avanti e indietro, rimesta la propria materia. Si alza e si abbassa, si arriccia, rivela la sua trama.


Guardo i miei genitori. Non mi faccio vedere alle loro spalle, e scatto guardando quel gesto che gli ho visto fare per ormai quarant'anni. Non hanno il costume, si arrotolano i pantaloni lungo le gambe e s'incamminano insieme per chilometri sul bagnasciuga. Quando tornano sono zuppi e sorridono di quella serenità che non ha nulla da dimostrare.


Raccolgo conchiglie. Con il buco, senza buco, grandi, piccole, lisce e rigate. Cammino a lungo, respiro l'aria salata, ascolto il rumore forte del vento che spinge l'acqua. Lo riprendo, so che ne avrò ancora bisogno. Il sole batte, ma non lo sento. Anzi, in costume come sono fa quasi freddo. Affondo i piedi nella sabbia bagnata, una medusa infilzata sulla riva si scioglie lentamente. A guardarla nella sua rosea trasparenza pare persino bella, non sembra possa bruciare. Tantissime persone sono così, come le meduse.











Basta sole, basta spiaggia. Un giro appena nell'interno, ed è un perdersi nei campi di papaveri, tra cascine messe fin troppo a posto. Ognuna, immensa, ha la sua tettoia per le auto, i muri bianchi, le pareti spesse che sanno di fresco d'estate.



La Torba. Una spiaggia di sabbia nera, sembra di camminare sul caviale. Ciambelle di margherite: cespugli rotondi con un buco in mezzo. Le ho sempre amate, perché hanno la forma dei fiori che disegnano i bambini. Semplici e bellissime.




Le rovine dell'antica città di Cosa. Un panorama mozzafiato sull'Argentario, e mura che resistono al tempo da oltre duemila anni. Costruite a secco quelle perimetrali, senza buchi tra l'una e l'altra. Un lunghissimo incastro perfetto, fatto a mano. Da non credere. E mentre cammino in salita verso il punto dove sorge il sito archeologico, un profumo m'investe. Preciso come una freccia, viaggia nel vento attraverso un oliveto ammantato di spighe. Forte, aromatico, inconfondibile: è l'odore della vecchia casa di mia nonna sul Lago di Garda. Mi attardo, aspettando la folata giusta per il mio scatto.





Cena a Orbetello, e prima di risalire in macchina vedo l'ultima ora del tramonto sull'acqua. Sono sulla riva, il mare inizia appena un metro più in là. Non c'è spiaggia, nessun declivio, la sponda è come un gradino. Non ne ho mai vista una così, al mare. L'acqua mi viene incontro a piccole ondine, con chiazze lisce o appena mosse. Per centottanta gradi davanti a me si stende uno specchio di petrolio tinto di arancio. Il vento è molto forte ma io resto. Scatto in pellicola, due clic. Il secondo, lo so già, ha l'orizzonte un po' storto. Va bene così.


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