venerdì 7 febbraio 2014

La chiave

Scrivo da quando avevo più o meno dodici anni - buona parte della mia vita. Fino ai ventisei l'ho fatto su delle agende. Le trovavo per casa, chiedevo di prenderle e le riempivo. Un totale di circa 1.500 pagine. Poi comprai il mio primo computer portatile, e iniziai un file chiamato "25 aprile 2005", la sera del mio trasloco a Roma.
Le agende stanno sotto chiave in un armadietto della mia scrivania di legno, a casa dei miei. Chiave che era nascosta nella fenditura di una scatola da domino in un armadietto a due ante nella parte bassa della libreria, a sua volta chiuso a chiave. Quest'ultima stava tra penne e matite dentro a una massiccia tazza di ceramica color ghiaccio sporco, in un angolo protetto più in alto. Ogni volta che scrivevo mi facevo tutto il percorso, naturalmente dopo essermi assicurata che nessuno mi avrebbe disturbato in quei pochi secondi. Sì, ho sempre preso la mia privacy come una faccenda piuttosto seria. Mia madre aveva letto qualche pagina del mio primo diario, e questo fu il trauma che mi indusse a blindare il mio privato negli anni a venire.
Quando mi trasferii a Roma, per non correre rischi, la chiave della scrivania venne con me. La custodii per tre anni in una borsina di pelle scamosciata color ocra, che in origine proteggeva una bottiglia di rum marca Pampero Aniversario. La tenevo in un armadio, sul ripiano in mezzo ai cappelli. Nel successivo trasloco, persi di vista la chiave. Per quei cinque anni pensai che non avrei più potuto rileggere le mie privatissime agende. Un po' m'importava e un po' no.
Facendo gli scatoloni per il trasloco a Milano, ritrovai quella chiave. Non stava più nella borsina di pelle, non ricordo dove l'avessi messa, ma il momento in cui saltò fuori fu surreale. E' una chiave antica di ottone, di quelle un po' decorate con i riccioletti. Quando la presi in mano la guardai come una cugina lontana. Aveva un peso specifico enorme, e ai miei occhi, forse anche per quella sua forma così particolare, sembrava essere dotata di un'energia spaventosa.
Da quando sono tornata a vivere a Milano, non mi sono ancora mai ricordata di andare a casa dei miei a prendere le famose agende, e rischio di dimenticare un'altra volta dove abbia messo la chiave. Non che ritenga quelle agende del materiale particolarmente valido, ma, insomma, era quello che era: la linea dei miei pensieri da quando avevo iniziato a tracciarla con una certa coscienza.
Rileggendo i brani dai file sul computer, le parole mi arrivano con una violenza inaudita. Esprimono un disagio atroce, un tale senso di angoscia dal quale solo adesso sono in grado di sentirmi a distanza di sicurezza. Quando penso al mio ultimo anno romano, lo ricordo come il più difficile della mia vita, quello che mi ha fatto toccare il fondo per poi risalire. Ma quel tracollo è stato il prodotto di ciò che è venuto prima, ed è stato un processo lento e inesorabile. Smarrimento, insensatezza, prigionia, alienazione. Nel rileggermi ho sgranato gli occhi, sgomenta. Perché so che quella persona ero io, e quando riprendo in mano i miei scritti posso ancora sentire, nel profondo, l'eco di quelle emozioni soffocanti.
Non ci andavo leggera, questo è certo. Del resto, che motivo avrei avuto di risparmiarmi? E non lo faccio tutt'ora. Niente come la sincerità che concedo a me stessa nello scrivere quotidianamente è in grado di restituire fino in fondo quello che provo. Il blog in confronto è stato acquetta, così come le mie foto passate. I miei scritti privati invece sono lame. Niente ricercatezze inutili, sostanza pura. La chiave è quella, la verità che apre a tutto quello che sono. La sola che giri nella serratura. Se uno scrittore vuole aprire delle porte, può farlo solo così. Il resto non serve.

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