mercoledì 28 settembre 2011

Paolo Gioli

Vi propongo un'interessante (quanto datata: 1991) conversazione tra Paolo Costantini e il pittore, fotografo e regista Paolo Gioli, che inaugura domani la sua mostra "Naturae" qui a Roma, presso Studio Orizzonte, del fotografo e amico Antonio Barrella.

La commistione di mezzi espressivi che Gioli utilizza mi è vicina e familiare: mi sono ritrovata molto in ciò che afferma, perchè anche per me (soprattutto adesso) non sono mai state nette le demarcazioni tra un mezzo e l'altro. Dalle parole dell'artista emerge un'incontenibile passione per la materia e ciò che essa è in grado di partorire; è tutto un divorare, ricevere, restituire, scambiare. Leggendo dell'uso e del significato di quest'ultima, mi è risultata immediata l'associazione con Alberto Burri, uno degli artisti italiani che mi prendono più visceralmente. Ricordo perfettamente quello che provai quando vidi per la prima volta dal vero i suoi "Cretti", in particolare quelli neri: quel senso così estremo di residuo, di consunzione, che è poi molto simile a ciò di cui parla anche Gioli quando accenna alla tavola dopo il pasto (vd. infra).
Ma non voglio ora dilungarmi troppo, perchè il testo che segue è già molto lungo. Non ho voluto tagliare nulla, affinchè rimanesse intatta la sensazione che ho provato nel leggerlo, come se l'artista fosse seduto accanto a me raccontandosi in maniera molto genuina e diretta.


Ho fatto una serie di citazioni dei protofotografi, per il grande amore che ho per le loro immagini. Sono solo alcuni aspetti del mio lavoro, sono omaggi. Come per la cronofotografia. E' impossibile parlare della storia del cinema senza parlare della cronofotografia. Partendo da qui si può capire certe evoluzioni che il cinema ha avuto dopo. Interessandomi di cinema, facendolo anche a modo mio, mi attirava. Partendo dal cinema ho fatto un percorso a ritroso e alla fotografia sono arrivato molto tardi. Ho fatto vedere la mia prima immagine dopo dieci anni che le facevo; non avevo coraggio di mostrarle e le tenevo lì. Scattavo le mie prime fotografie usando una cinepresa, scattando a passo uno, come quando si fanno le animazioni. Con una pellicola 16 mm, giravo una scena: c'era una cosa che mi piaceva, scattavo un fotogramma e poi lo ingrandivo. La cinepresa usata come macchina fotografica. E poi levavo gli obiettivi, e mettevo un pezzetto di lamierino: facevo un foro e ottenevo dei frammenti stenopeici, dei film, oppure degli scatti singoli. La cinepresa è la vera camera totale, perché puoi scattare le fotografie, puoi fare tutto in una maniera eminentemente fotografica, oppure  puoi muovere direttamente quello lì a cui hai fatto un'istantanea e dopo poco tu hai un frammento di lui che cammina. Come si può definire questo: lo hai fotografato? Lo hai filmato? Io ho usato sempre la cinepresa così, come un taccuino. Anche nell'avanguardia storica, la cinepresa è stata usata così. Mi meraviglio sempre che la cinepresa venga usata solo come cinepresa e messa da parte per prendere la macchina fotografica; pensa che c'è chi ha anche dieci oggetti in casa, quando si tratta sempre di raccogliere un'immagine. Amo tutti questi oggetti, ma semplicemente non mi servono per quello che voglio fare. Appena mi accorgerò che mi servono, mi metterò subito a cercarli e li sentirò indispensabili. Ma intanto, spingo e dilato sempre più il tempo e dico: domani, domani. Dunque, io non uso la macchina fotografica, non faccio quella che è propriamente detta fotografia; dovrei sentirmi fuori della fotografia, ma io dico che sono più dentro. Pensa che in piena supertecnologia, con il foro stenopeico uno può esprimersi comunque, al di fuori di qualsiasi limitazione. Se vuoi fare una macroripresa, prendi un pezzettino di carta e un forellino e riprendi un'infossatura della pelle, un insetto, un niente; senza superottica, e viene un documento bellissimo. Arrivi cioè dove l'occhio non arriva, ma senza ottica. Insomma, lavoro al di sotto delle capacità dell'occhio, con il foro stenopeico. Da ignorante, pensavo che non esistesse il cristallino, pensavo che ci fosse solo una protezione gelatinosa nell'occhio, quindi un foro che portasse direttamente le immagini al cervello e solo a livelli superiori ci fosse una lettura. La scoperta del cristallino, di un qualcosa che concentrasse l'immagine, è stata una delusione. Ci mancherebbe ancora non arrivare a vedere: abbiamo una lente! Pensa al problema dell'ultravioletto, delle ottiche trattate, dei filtri-colore. Con il foro stenopeico tu hai un'immagine blu, bluviola,
a seconda se è mattina o pomeriggio: rispetta esattamente l'andamento della giornata, il pomeriggio ti viene un blu con una punta di giallo, che è poi come quando il sole cala, e alla mattina c'è questo azzurrino,  potentissimo, dominante. Attraverso il foro stenopeico capisci ancora di più come sarebbe la realtà senza la complessità di occhio e cervello. Nel foro stenopeico vedi come sarebbe la vita, e la visione, senza il bilanciamento del cervello. Sulla tecnologia c'è un grande equivoco. Spesso mi sento dire, a proposito delle macchine fotografiche, che basta ormai schiacciare un bottone. Ma questo ti da la possibilità di usare tutto il tempo per pensare solo a quello che vuoi fare, perché tanto sai che tutto ti verrà restituito! Non so però con quanto scarto di immaginazione e di imprevedibilità. Ecco, forse su questo c'è da discutere. Sul piano industriale e delle applicazioni, il vantaggio è indiscutibile, ma sul piano creativo? La tecnologia ti promette che verrà tutto, ma quale tipo di immagine? E l'incidente, lo sbaglio, il caso che provoca poi la scoperta, e poi dici, guarda, se facevo esattamente come diceva il foglietto di istruzioni non veniva niente? Io non voglio che tutto questo venga scambiato per nostalgia, per una forma reazionaria e pericolosa di nostalgia. Sono contrario al rifarsi ai primitivi come per vivere un'atmosfera, un'epoca. Se facessi del pittorialismo oggi, lo farei aggiornandolo a un'immagine che mi circonda: usando la tecnica dell'800, perché no, ma non come se fosse '800. Io ho una fissazione sulla materia: la fissazione che la materia genera l'immagine. E' una grande passione verso la materia che mi viene certamente dalla pittura, di cui ho una malinconia atroce, e che si travasa inconsciamente nella fotografìa. Dentro la materia ci sta l'immagine, basta tirarla fuori. Qualche volta preparo dei fondi, faccio delle Polaroid scariche, tradendo il gesto ortodosso di usare questo materiale (perché la Polaroid è una disciplina, e forse anche per questo non è chiamata fotografìa). E non butto via tutto ciò che gli altri buttano via di questa materia viva: gli strati che escono, il liquido, la parte raccogliticcia del materiale. Questo ti fa capire il gesto che hai compiuto: questo spogliare, curiosare continuamente sui supporti, ti porta a una rivelazione affascinante. Trovare insomma un'immagine e non trovare lì a fianco la materia che l'ha fatta saltar fuori, che l'ha generata, mi mette una tristezza enorme. Io dichiaro che questa immagine è nata da questa materia, come quando scavi la buca e poi trovi la terra a fianco. Se potessi, lavorerei per anni sulla mano, oppure sul volto. Non è tanto importante cambiare il soggetto. Se io faccio un ritratto, è sempre la materia protagonista. E il gesto: la scelta della carta, il fondo. Come mai lo stesso ritratto ripetuto più volte muta? Perché la materia lo muta, lo metamorfizza, con i suoi strati, i fondi, le imprevedibilità insinuanti dentro. Pensa a Andy Warhol, al suo ripetere serialmente, cambiando solo le maschere dei colori. La materia muta la stessa immagine. Si insinua un grumo di materia e quella mano si è rattrappita, si è cancellato un dito, un altro è messo in evidenza, un colore si e soffermato più su un punto. Ha subito qualcosa, ma inizialmente era una mano pulitissima, candidissima, magari di un bambino. Dopo una decina di immagini diventa la mano di un vecchio, o magari di un cadavere, ma è sempre la stessa mano. Così per le nature morte. Mi viene una grande tristezza a cercare di tenere in vita una natura morta. Sembra paradossale, ma vedo i fiori che reclinano già dopo mezz'ora, per il calore o altro, e non posso più fare quella natura morta, devo già farne un'altra. Sta morendo. Esistenzialmente è angoscioso mettersi a fare una cosa del genere; ma anche se riprendo una persona devo sbrigarmi. Muterà, cambierà. La materia sta alla base della figura dell'immagine, la contamina. Guarda per esempio alla tavola quando si finisce di mangiare. Pochissimi la fotografano (Josef Sudek l'ha fatto). Prova a fotografare ogni giorno una tavola: è una sarabanda, non si sa chi sia passato lì sopra, vi si trovano cose incredibili, cose spiegazzate, raggrumate, rovesciate. Non ci rendiamo conto di che razza di catastrofe sia avvenuta. E tutto era intatto due secondi prima. E trovi i resti, gli avanzi, non è che non trovi più niente. Ci sono alcune cose che consideriamo sgradevoli, ma le abbiamo lì davanti a noi, perché non farle? Le aggiunte di materia nelle mie opere non sono collages. Sono strati di materie. Bisogna parlare della Polaroid. Si trasferisce come uno strato di un affresco. Volevo trovare qualcosa che avesse a che fare con le arti belle, e ho trovato questa materia che si stacca da una parte e va a finire in un'altra. Ma allora, tra il momento in cui si stacca e quello in cui va a depositarsi, io posso benissimo intromettermi come un parassita creativo e inserirmi dentro, a rubare, a sottrarre della materia. E allora cerco un supporto che possa far passare della materia, e guarda caso sono tutti quelli che hanno a che fare con la protofotografia, o con le arti plastiche: la carta da disegno, la seta serigrafica, il legno. Mi piace questo trasferire su materie così nobili, antichissime, una materia che è il trionfo del consumo immediato, della pornografia e del ricordo familiare. Il trasferto ha questo legame, spettacolarissimo: in piena tecnologia ti si offre un gesto legato alla protostoria della fotografia e all'arte, e con un materia che viene considerata semplicemente come una materia di consumo. Questa è stata un'intuizione geniale da parte di Land, che io insisto a considerare il nostro Niépce del Duemila. Ha inventato una materia immediata, integrale, ultrarapida; ha manovrato una sorta di azione celeste, curiosa, fascinosa: un grande viaggio per arrivare poi a fare la stessa operazione che si faceva nel periodo più felice di tutta la storia dell'arte. Dopo secoli si rifà, in modo supersofisticato, quello che si faceva prima molto più lentamente. Questa grande parabola di Land è un fatto per me affascinante e insieme angoscioso. Non mi fa molto piacere parlare di sperimentazione. Mi dà sempre l'impressione di precarietà, di provvisorietà, di prova, molte volte anche fine a se stessa. A parte il fatto che si sperimenta in ogni momento, anche scrivendo una lettera a una persona: sai che provocherà un effetto. E' sperimentazione anche questa. Non credo molto al "vediamo un po' cosa succede" ... Sulla qualità semmai, sul linguaggio, su quello che poi ti suggerirà che cosa fare per andare avanti, non sul come fare. Sulla tecnica bisogna invece saper pasticciare grandiosamente. Dall'idea al mettersi a lavorare non deve passare quasi niente, neanche un decimo di secondo. Istintivamente, devi subito farla tua. Perché infatti angoscia moltissimo la macchina che ti dice tutto, che fa tutto lei? Perché ti lascia solo con te, con cosa devi fare. E' veramente drammatico: prima c'era il pretesto tecnico, "non mi è venuta perché non ho il supporto che arriva ai livelli di quello che volevo", ma adesso la tecnologia ti dà tutto il tempo per realizzarla. Spietatamente ti richiede la tua efficienza: devi funzionare, fai o non fai. Con il foro stenopeico è talmente primitivo il raccogliere che è sorprendente che poi venga una certa qualità. Alla fine ti viene sempre qualcosa. Non esiste la sciatteria nel foro stenopeico. La qualità è sempre gradevole, ha sempre un fascino misterioso.
Il titolo di questa mostra vorrebbe in qualche modo celebrare lo scoppio, spettacolare, del positivo. E della realtà immediata. Del resto, l'apice lo stiamo raggiungendo con la videoregistrazione: vedere subito e tutto, o almeno il più possibile. Comunque positivo-positivo. Tanto è vero che la mole di lavoro che si può consumare in una giornata, usando il positivo diretto immediato, è enorme. Verso sera, se vuoi, se sei in buone condizioni fisiche e di lucidità mentale, puoi avere un'infinità di opere. Così come posso passare anche qualche mese senza riuscire ad avere una sola immagine decente. E la sera mi ritrovo che non ho niente. Non
ho neanche i negativi per poter vedere gli scarti. Ho solo lo scarto positivo, che è orribile, e lo voglio cancellare, lo butto via, non voglio che rimanga traccia. E' spietatamente crudele, è così arrogante questo mezzo, ma oso chiamarlo anche un'altissima disciplina. Così il Gran Positivo, che è un positivo diretto, è un impatto che hai pensato, quello tra i raggi che arrivano, nella distanza focale che hai progettato. E' interessante vedere cosa succede solo con i raggi che arrivano e trovano una materia viva. Non c'è stato alcun passaggio artificiale. Come trovare un muro, che graffi, o incidi, oppure ci dipingi sopra, senza sentimenti, come avveniva per i pittori che facevano un affresco e preparavano i loro fondi, e bisognava sbrigarsi. La mia è una mania per la materia e, insieme, una curiosità semiscientifica per la ricomposizione dei raggi della luce. Una fissazione per la materia e i raggi che entrano. I raggi della luce del sole, lo spettro e
la materia. Guarda caso, dentro la materia della Polaroid i colori sono anche ossidi, sono terre, e lui poi si chiama Land, paradossalmente... Qui si tratta davvero di scrivere con la luce, ma spogliata di moltissimo di quello che è la tecnologia. Lo sforzo è complesso: tentare di esprimersi sempre azzerandosi. Il Cibachrome è un materiale di una qualità altissima, bisognerebbe glorificarlo. Regge quei colori con un semplice filtro giallomagenta, messo davanti al foro. Ha una qualità altissima e il supporto ha una preparazione misteriosa, come un segreto di stato... Si sa che sono colori azoici e che non resta neanche un filo di argento. Questa è la fotografia che dura più di tutte le altre, perché finché c'è anche un filo di argento, questo continuerà a mutare, si ossiderà. C'è ancora materia viva, che può ospitare ancora luce, dunque degradazioni. Pensa che strana la luce, che ti dà l'immagine e poi te la porta via. In questo caso no, con il fissaggio va via tutto. Si è sporcato un foglio, di una bellissima immagine, s'intende. Ma ci sono altri aspetti. Per esempio, questo insistere sul corpo, questo non dare molta importanza ai soggetti. Per alcuni fotografi, prima di fare un'immagine, c'è una parte di messa in scena incredibile. Inquadrare l'immagine è un niente, io non mi metterei mai a fare una cosa così. Vorrei che quasi niente mi facesse scattare qualcosa di complesso. Io azzero tutto. Non mi interessano le figure intere, nè l'avvicinarmi troppo. Piuttosto i frammenti del corpo, per esempio i toraci. Basta uno spostamento minimo. Mi viene in mente quello che devo aver visto in qualche libro di storia dell'arte da bambino, come i frammenti della scultura ellenica. Oppure i musei, dove siamo invasi di teste mozzate. Entri e ci sono sgozzamenti, teste, braccia, mani schiacciate, frammenti... Evidentemente ci sono punti così carichi di informazioni drammatiche, di segnali creativi. Pensi che lì c'è da lavorare moltissimo. Devono poi esserci dei punti anemici, del corpo e della realtà, che tendiamo a escludere. E così c'è uno sbilanciamento enorme su altre parti. Come mai si ritorna sempre sugli stessi punti? Siamo attorniati, ossessivamente, da toraci, da volti, da espressioni. E ogni volta ci incuriosiscono, ci sembrano continuamente diversi. Vorrei riuscire a lavorare partendo dai bordi e stringermi verso il centro. Per questo preparo i fondi, perché so come poi andrà l'immagine. Partire da un fondo neutro, anonimo, lasciare che nasca lì un'immagine mi dà una enorme angoscia. Parto sempre dalla materia: dentro la materia comincia a nascere l'immagine, ma partendo sempre dai bordi. Mi affascina la consunzione, come nei dagherrotipi, che crea quasi una cornice non prevista, straordinaria, perché lì ha il sopravvento la materia. Nei bordi la materia si espande libera.
L'interesse per il cinema è venuto prima della fotografìa. Volevo vedere subito la scena, il movimento. Come Lumière, sviluppo io i miei film, con un telaietto, avvolgo gli spezzoni di pellicola e sviluppo. Anche lì ho detto: continuo se vedo subito, se posso essere indipendente. Facendo film cosiddetti astratti, hai bisogno di una verifica immediata. Certamente mi muovevo con il grande esempio dell'intera avanguardia storica. Mi sembra impossibile non toccare queste tre cose, la pittura, la fotografìa, il film: animare le immagini, vedere il movimento. Con la fotografìa e il film vedi la stessa cosa con due mezzi diversi. Dici, questa è una figura e ora voglio che cammini: spengo la luce e vedo la sua storia. E dalla parete comincia a muoversi, ti viene incontro. Si spegne la luce e hai il documento, più l'azione. Una cosa complessissima. Ho trovato impossibile non farlo. Volevo rompere la sensazione della narratività convenzionale. Anche lì un continuo tradire, come spogliare la Polaroid, cavare, trasferire. E poi mi piacevano le iterazioni, le serialità, il tempo unico con altri tempi pressati dentro, le variazioni di velocità, scomporre la realtà in più fotogrammi. Puoi fare un salto e metterci un tempo lunghissimo per cadere: salti alla mattina e cadi alla sera.

("Paolo Gioli. Gran Positivo nel crudele spazio stenopeico", Venezia/Firenze 1991 - Catalogo Alinari)

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