lunedì 22 aprile 2013

Ilaria M.

Si chiamava - si chiama ancora, che io sappia - Ilaria M.
Il suo colore preferito era l'azzurro, e io mi chiedevo come mai a una bambina piacesse il colore dei maschi. Io ho sempre odiato il rosa e il fatto che alle bambine dovesse essere per forza associato il rosa, ma, ecco, l'azzurro mi sembrava un po' tanto. Per anni presi quindi le parti del verde - cosa che ora, politicamente parlando, non sarei proprio più in grado di fare - e quello rimase a lungo il mio colore preferito. Il colore dei dollari, mica scema.
Ilaria M. era una bambina viziata. Insopportabile. Capricciosa. Egoista. Smorfiosa. Pettegola. La odiavano tutti, ma qualche strana congiunzione astrale la designò mia amichetta del cuore. Con me, passava da fiele a miele. Capelli castani, lisci e lunghi, tirati indietro con quelle mollettine clic-clac che tanto andavano di moda negli anni '80. Sapete, quelle di metallo colorate con gli smalti, che ogni tanto si vedono ancora oggi in testa a qualche ragazzina stile unghie in gel squadrate, brillantini spalmati sul corpo e minigonna girofiga.
Gli occhi di Ilaria M. erano scuri e penetranti, stretti. Parevano quelli di un roditore, ma più cattivi. Aveva tutte le cose più belle, e io gliele invidiavo. Tranne gli astucci, che erano azzurri - cioè, le invidiavo anche gli astucci, ma non il fatto che fossero azzurri. Erano di quelli piatti, che si aprivano su entrambi i lati con dei battenti a calamita - forse qualcuno di voi li ricorderà, a quell'epoca li avevano tutte. Io riuscii a ottenerne uno dai miei genitori un paio di anni dopo, e ricordo che continuavo ad aprirne e chiuderne i battenti come fossero un antistress. Mi piaceva il suono di quella chiusura, così definitivo, e l'impressione di compattezza che trasmetteva. TLAC. Punto e a capo.
Ilaria M. era la nipote dell'allora preside dell'istituto - una scuola privata, tra le espressioni massime della borghesia milanese. Io in realtà non c'entravo molto con quell'ambiente, noi cugini ci andavamo tutti perchè la mia famiglia materna occupava diverse caselle del corpo insegnante e veniva comodo accompagnarci la mattina. Credo anche che i figli dei docenti pagassero una retta più bassa, non potrei giurarci ma questo spiegherebbe molte cose. Sta di fatto che quella cosiddetta crème milanese l'ho conosciuta fin dai tempi in cui non ci si può ancora rendere conto di molte cose, e i bambini che frequenti sono solo quello: bambini, appunto. Sta di fatto però che la bambina Ilaria M. era una per cui bisognava adoperare il verbo "smazzare", e lo facevo io.
I nostri rapporti s'interruppero quando con la mia famiglia partimmo armi e bagagli per l'Africa, all'epoca della seconda elementare. Però un ricordo vivido Ilaria M. me lo lasciò. Voglio dire, più vivido delle sue gommine profumate, gli astucci magnetici azzurri e le cattiverie su Anna P., la grassottella della classe che lei si lisciava comunque, nella sua lungimirante strategia sociale in vista dell'imminente solitudine dopo la mia partenza.
Era il mio sesto compleanno. Organizzammo una festa a casa di mia nonna, che abitava vicino alla scuola. Giochi, torta, regali. Il suo fu una roulette - grande intuizione, io sono sempre stata molto fortunata al gioco, che peraltro non ho mai praticato coi soldi veri. La roulette era ovviamente giocattolo, ma bella. Ricordo questa scatola grande, colorata. Manco sapevo cosa fosse, la roulette. Dovette spiegarmelo mia madre sul momento. Io annuii poco convinta, ma incuriosita. E' ovvio che l'acquisto l'aveva fatto la madre di Ilaria M., ma probabilmente era avvenuto del tutto a sua insaputa, perchè non appena scartai il regalo la mia amichetta fu trafitta a morte dal fulmine del dio dell'invidia. Cominciò a piangnucolare, dicendo quanto fosse bella, e io a stento riuscii a tenere in mano la scatola per qualche secondo. Voglio la roulette, voglio la roulette! Mamma la vogliooo!!! Fin qui, rimaneva tutto in un accettabile range di imbarazzo, nulla che non sembrasse appianabile con un Ma sì Ilaria, ne prenderemo una anche per te!
E invece.
La mossa successiva fu memorabile: il lamento diventò insopportabile, e culminò con un Ma io voglio quella! Non ne voglio un'altra! Mamma, portiamola a casa!!! Io non mi capacito di come una madre possa essere tanto rammollita con un figlio, ma finì che io quella roulette non la vidi mai più. Così come del resto Ilaria M., sulla quale anni dopo, quando tornai a Milano, mi furono riferite cose piuttosto amare. Un manuale di terra bruciata. Abitava ancora nei dintorni di casa mia, e un giorno la incontrai. Mi fece tristezza. Era magra, insulsa, aveva perso il carattere negli occhi. Girava con la solita Luis Vuitton al braccio, e chissà se dentro ci teneva ancora qualcosa di azzurro.

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