martedì 14 febbraio 2012

Prima D

Arrivo sulla soglia della classe e sulla porta c'è un foglio con sopra scritto, in rosso e con piccoli ghirigori, 1D. Mi trovo alla scuola elementare vicino a casa mia, per la prima lezione del corso di scrittura creativa. Apro la porta e vedo dodici tavolini da due posti ognuno, bassi, disposti in tre file da quattro. Vado a sedermi all'ultimo banco, mentre anche gli altri compagni di corso prendono posto, spostando dalle sedie gli zainetti dei bambini che li hanno lasciati lì per il giorno dopo. Mi siedo e mi ritrovo le ginocchia all'altezza del petto. Ah già, i bambini sono piccoli. Mi guardo intorno sorridendo e scorro lungo le pareti una successione alfabetica di fogli, ognuno con una lettera dell'alfabeto e il disegno di un oggetto o un animale con quell'iniziale. Albero, Banana, Casa... La lezione comincia, oggi siamo in sedici anche se sul registro ci sono ben venti nomi. Senza troppi preamboli, ci viene distribuito un foglio con un racconto di Boccaccio, tratto dal Decameron. L'insegnante fa una piccola introduzione e poi lo legge. Ci vogliono le pause giuste, sennò di quell'italiano così arcaico si capisce poco. Una volta finito, ci vengono dati sette minuti per scrivere di getto, in libera associazione con quanto appena letto. Per me, il buio. Inizio a pensare, e già sto sbagliando. Il testo mi ha suggerito un'idea, ma stendo quattro righette insulse in cui non racconto un bel niente. M'innervosisco, non è per niente facile. Come una bambina stizzita, tiro una bella linea diagonale sul mio misero scritto, che altro non era se una riflessione un po' cinica. L'insegnante, lo vedo, mi osserva da lontano mentre mi guardo intorno aspettando che quei benedetti minuti finiscano. Tutti gli altri scrivono e io mi sento come una che non sa le risposte del compito in classe - l'associazione è immediata, vista la scenografia. Scade il tempo e ognuno è invitato a leggere quanto ha scritto. Accidenti, questi qua devono avere un bel callo sul medio, perchè certi sono piuttosto bravi. Le storie gli sono uscite dalle dita come se niente fosse, e pure infarcite di aggettivetti giusti e qualche sottile ironia. Sento anche un po' di foto da studio, tutte belle illuminate con i loro bank a diffusione morbida, e mi scopro ad aggrottare mentalmente le sopracciglia. E' come quando capito su certi blog e leggo dei post talmente avviluppati nell'autocompiacimento da rendere del tutto incomprensibile ciò di cui si sta parlando. Io leggo per ultima. Il testo non viene accolto negativamente, ma io non avevo avvertito nessun ponte tra me e quel racconto di Boccaccio, quindi zero ispirazione. Cominciamo bene. Passiamo a una poesia di Ungaretti: stesso esercizio. Parte il conteggio dei sette minuti e io sto già scrivendo. Di getto, libera, divertendomi. Sto viaggiando indietro nel tempo, trainata da un unico piccolissimo gancio: tre parole di quella poesia mi riportano nella prima casa di Milano dove sono cresciuta, in Via Monti. Non mi fermo se non per sorprendermi di come gli elementi del ricordo mi tornino alla mente. Mescolo immagini e suoni di tante notti, sento la voce di mia madre, ho in mano gli oggetti che compaiono in ogni riga. Di minuti ce ne metto cinque, poso la penna per la prima volta dopo il punto finale e mi godo gli altri istanti ancora inebriata da quello che ho appena rivissuto attraverso le parole. Leggo per terza - qui sgomitano tutti per farsi avanti, altro che tempi della scuola - ma il compiacimento maggiore non sta nella buona accoglienza del mio scritto: quello che mi lascia secca è quello che altre quindici persone hanno tirato fuori dalla stessa poesia. Stranamente ora le parti sono invertite: i loro componimenti sono brevi, quasi che le corde fatte risuonare da Ungaretti fossero troppo spesse per dare un suono leggero. Nella classe ci sono molte persone di mezz'età e anche qualche anziano. Tra questi ce n'è più d'uno che ha scritto della morte del proprio compagno di vita, con un'intensità così sincera che disarma. La donna seduta accanto a me, che avevo solo visto di sfuggita quando è arrivata, un po' in ritardo, conclude il suo scritto con una frase che a momenti mi commuove. La guardo bene solo alla fine della lezione, mentre scambiamo qualche parola. E' robusta, ha capelli sale e pepe, occhi verdi e grandi. La maggior parte delle persone qui ha già una faccia che racconta da sola, sarebbero da ritrarre tutti.

In una lezione ho imparato moltissime cose. Sono rimasta affascinata dal potere del confronto e dell'ascolto delle altre voci. Mi sono arrivati addosso, quasi violentemente, pezzi di altre persone del tutto sconosciute e con le quali altrimenti non avrei mai scambiato neanche una parola. Gli anziani, poi, sono meravigliosi.
Forse però la cosa più eclatante a cui ho avuto modo di assistere è stato il duplice spettacolo di me stessa: prima quella che pensa, ragiona, escogita e così facendo non combina nulla che le piaccia; poi invece quella che si butta a capofitto, senza freni, divertendosi ed esponendo qualcosa che le appartiene realmente, e allora il risultato esce - e pure buono. E' la stessa cosa che mi succede nella fotografia, solo che lì ancora non sono passata alla fase Ungaretti. Sto iniziando a farlo, ma al momento mi viene meno naturale che con la scrittura. Non vedo l'ora della prossima lezione e sono certa che questo lavoro di pancia influenzerà positivamente anche il mio modo di scattare.

2 commenti:

  1. Bello, mi è piaciuto. Ci saranno altre fasi oltre Ungaretti e tutte influenzeranno il tuo modo di essere, e ovviamante di scattare
    Jacques

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    1. Qualsiasi stimolo può darti ispirazione, si tratta di allenarsi a trovarne la traduzione dentro di sè.

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